Pubblicato sul n. 9 di PROGRESSIONE – Anno 1982
Il «Boegan», primo tra la sempre più numerosa serie di abissi che la «Commission» continua ad esplorare dal lontano 1963 in tutto l’altipiano del Canin, è storia e leggenda ormai. Quella maledetta ostruzione di ghiaccio che blocca i primi pozzi, consentendo agli esploratori di violarne le viscere ogni 10 anni circa, ha sconvolto i piani ed i sogni di parecchie generazioni di speleologi.
Finalmente l’81 ha consentito una approfondita indagine (merito del metodo 0.B.R.) e nel caso la fortuna baciasse ancora i soci della C.G.E.B., facendo sciogliere prematuramente il ghiaccio, le prosecuzioni (intravviste nell’ultima tornata di esplorazioni) potranno finalmente conoscere di quale pasta sono fatti i «grottisti triestini».
Scrivo questo articolo controvoglia e con quasi tre mesi di ritardo, costretto, con maniere sempre meno gentili (manate e pugni mozzafiato) dal buon Bidòn … «Te farà ‘sto articolo per Progressione?» … Spam «Ahin Sì, lo go za cominciado!!» (Balla paurosa che mi sa permesso di «scapolarla» fino ad oggi, ma non più).
Cominciò così: «Mauro te vien al Boegan?» «Sì, quando?» «Domani!» «Come domani? Bon, bon, va ben».
Ci si trova la sera seguente in cinque e si parte alla volta di Sella Nevea, dove abbiamo appuntamento con Giovanni per la mattina seguente. Mentre guido la macchina mi ritornano in mente le parole proferite da Kekez la sera precedente: «No sta ‘ndar in quel buso: te ciapi un fredo de cagarse!» «Ma va in … , de sicuro mi no me congelo!» (Mai Kekez pronunciò parole più vere). Dopo aver dormito in un caldo letto del Divisione Julia, invece che all’addiaccio, come aveva proposto qualcuno (come seo Mario?), scendo, sempre con lui, alla stazione di Chiusaforte per raccogliere il Torinese, ma a metà strada tutto incomincia a girare — «Ocio» «So Mario» …Sbratrimm!!!… — Guard-rail integro, parafango no! Fa niente, si continua.
Tralascio i particolari della passeggiata fino al bivacco D. V. P. (senza funivia) e passo direttamente a quando comodamente disteso sulla brandina, con addosso tutte le voglie meno quella di cambiarmi, capisco dalle occhiate degli altri, già quasi pronti, che era giunto anche il mio turno, così incomincio a prepararmi «ferri del mestiere» ed a indossare la mia gelida Marbach. A questo punto Gigi passa dall’entusiasmo ad un accasciamento, e resta dubbioso, sul fatto di tenerci compagnia o meno, ma poi decide per il sì. E così cominciamo a scendere il P 20 Mario ed io subito seguiti da Giovanni; gli altri rimarranno indietro a fare fotografie.
Scendo per primo il 150, che si presenta con una bellissima strettoia (con un giro d’aria mortale) e poi si apre di colpo, e mi ritrovo nel silenzio più assoluto, rotto soltanto dai pezzi di ghiaccio che cadendo vanno a frantumarsi sulla parete di fronte e riflettendo la fiamma della mia carburo formano degli effetti di luce fantastici.
Quasi senza accorgermene arrivo sul fondo, grido: «libera»; alzo gli occhi e vedo Mario che scende velocemente e solo allora mi rendo veramente conto di aver sceso 150 metri, che prima invece mi erano sembrati pochi.
Scendiamo piuttosto velocemente i vari saltini e pozzetti fino sopra il P 130, attacco il discensore e via, primo frazionamento, secondo frazionamento «Mario! … no te podevi dirme che jera un gropo?!!!» «Pendola in quel meandro e in spaccata te lo passi!», un paio di acrobazie, dieci metri di discesa e sono sul fondo seguito a ruota da Giovanni e Pap (Mario). Qualche decina di metri di meandro ed un altro saltino, questa volta con relativa «gorna» d’acqua, qui cedo il passo a Pap e mentre lui fila la corda e comincia a scendere quei 5-6 metri, Giovanni ed io (pessimi sub) cerchiamo una via meno umida che purtroppo troviamo solo quando Pap sta già «godendosi» quella bellissima e rinfrescante «doccia». «Varda che de qua se evita l’acqua! Torna su!!». «P .. . adesso me disè!!».
E si continua con un Pap umido, io che rido alle sue spalle e Giovanni che ripete sempre la stessa frase: «Dove c’è l’acqua io mi fermo, non ho voglia di bagnarmi». Ma per me la festa dura ancora per poco ed il pozzo successivo sono anch’io sotto una dolce pioggerellina che riesce a bagnarmi anche le parti più intime del mio vestiario, mentre gli altri restano asciutti per merito di un frazionamento (eseguito più tardi) che permette loro di evitare l’acqua.
Ancora un paio di saltini ed arriviamo sul fondo, dove poco dopo ci raggiungono anche Zagolo e Ravalli. I due ci comunicano che Gigi (inginocchiato come un muezzin all’ora della preghiera) non era riuscito a passare la strettoia e quindi se ne era rimasto fuori ad ammirare il panorama.
Cerchiamo continuazioni in tutti i posti possibili, ma niente, a parte nel sifone, strano ma vero, questa volta c’era un po’ d’aria, ma nessuno si è offerto volontario per una nuotata in semiapnea, anche se oltre il lago si sentiva cadere l’acqua. Il Boegan resterà incompiuto ancora una volta, almeno fino alla prossima spedizione.
Giovanni ci saluta intanto, attacca le Jumar e con un sacco in cintura … Via! mai più visto! (doveva essere a Torino entro sera).
Lenta, comincia anche per noi la risalita. In alcune ore siamo sotto il 150 e qui mentre aspetto il mio turno comincio a sentire il primo freddo ai piedi, risalita la libera, mi ritrovo bloccato nella strettoia grazie ad un sacco che Ravalli non riusciva a recuperare, poi sul 20 ancora a Ravalli e anche a me i sacchi rifiutavano di seguirci. Dopo un paio di acrobazie per recuperare i nostri pesi morti, sempre in quel caldissimo pozzo (penso sia uno tra i più freddi che esistano in Canin, essendo esterno, con uno strato di ghiaccio sulle pareti ed un maledettissimo giro d’aria) siamo fuori freschi, ma contenti.
Risalito l’ultimo (dei fessi), cominciamo a recuperare le ultime corde, metterle nei sacchi, altra «fresca» per i miei piedi ormai formato «findus» ed anche per le mani di Ravalli che qui comincia a sentire, o meglio, a non sentire più le estremità superiori. Arrivo in bivacco per penultimo, mi sdraio e levo subito i «trombini», guardo i miei piedi e mi rendo subito conto che si tratta di un congelamento (poi scoprirò che si trattava di un 3° superficiale e passerò per curarlo una settimana in un letto d’ospedale.
Dopo circa mezz’ora di Ravalli non si vede ancora l’ombra, Gigi (il furbo) esce a cercarlo, e lo trova che, dopo aver abbandonato i sacchi, dorme beato, disteso sulla neve.
Una notte insonne ed una camminata «atroce» per le mie povere estremità inferiori e finalmente in macchina sulla strada di casa.
C’erano: Il furbo (Gigi Bortuzzo) ed i fessi (Pap – Mario Bianchetti) … Il torinese (Giovanni Badino) … I congelato (Riccardo Ravalli) II congelato (il sottoscritto) … Il fotografo (Angelo Zagolin).
Mauro Drioli