BOLMA DESERTI LUOGHI DEL SUD AMERICA “Il sogno del Pedro”

Pubblicato sul n. 33 di PROGRESSIONE – Anno 1995
Il Cerro Chatena è alto quattromilatrecento metri, ma la sua cima isolata sovrasta di soli trecento l’altipiano deserti dei Lipez, fra le antiche miniere di argento di Toldo ed il Cerro Soniquera. È una collina aguzza, piramidale da ogni parte la si guardi: un mucchio di rocce scure, cosparse di irsuti cespugli giallastri. secchi, pungenti. La sua forma ed 11 suo isolamento attirano lo sguardo ed invitano alla salita.
Da sempre è punto di riferimento per le rotte del deserto e luogo sacro per gli indios che lo rispettano ma lo evitano, forse per l’atmosfera particolare che lo circonda a causa dei resti preincaici che affiorano sui suoi fianchi, simili a nuraghi diroccati, ed al cimitero del tempo degli spagnoli, trovato alle sue falde, che ha rafforzato superstizioni e diffidenze.
Pedro è aymara purosangue: capelli neri il sorriso cavallino con lunghi denti gialli sormontati da pochi baffi e rada peluria sul volto brunito dal sole. Ha lo sguardo timido, quasi imbarazzato. È minatore e cemtore di pietre ed in certi periodi esplora quell’immensa regione a piccoli passi, veloci e scalzi, alla ricerca dei suoi sogni, poichè in sogno gli appaiono i luoghi. gli affioramenti, ove si celano le pietre più strane e pio belle. Per questo è soprannominato ‘El sognador” ed i suoi padroni lo lasciano spesso vagabondare così anche per lunghi periodi. Anche quel giorno stavamo inseguendo un suo sogno. Ad oriente, non lontano dalla cima del Chatena aveva trovato un affioramento con un buco, forse la tana di un “zorro”. di una volpe. che in qualche modo appariva sistemato dall’uomo. Siamo andati a vedere, e spostando due pietre, ci siamo calati, attraverso un pertugio abbastanza stretto, in un cunicolo che, dopo pochi metri diventava una cameretta. In un angolo le tracce della volpe; sparsi in terra i resti di piccoli roditori, testimoniavano pasti frequenti. Il suolo asciutto, battendo i piadi, risuonava vuoto. Chiesi a Pedro ed agli indios che erano con lui di scavare e questi, mossa un po’ di terra e tolti alcuni sassi, trovarono, prima qualche fibbia e qualche ago di rame, poi, sotto una stuoia marcia e in essa avvolto, un uomo mummificato, rannicchiato in posizione fetale. Aveva la pelle incartapecorita intorno alle ossa, color terra, ma il teschio era ancora ornato da lunghi ciuffi di capelli neri e denti sani, gialli. Davanti alla mummia gli indios rifiutarono di continuare a scavare. “Avuelo” dissero: nonno; con molta convinzione ed altrettanto scarsa cognizione del tempo.
Quel nonno aveva almeno ottocento anni. Non insistetti e rimettendo tutto a posto, senza prender niente, per rispetto, per prudenza e perchè quell’incontro, in qualche modo, aveva messo a disagio anche me. Quei capelli e quei denti del teschio erano uguali a quelli degli indios che mi aiutavano alla luce delle lampadine elettriche. Non altrettanto rispettosamente scattai alcune foto. Ricordo bene, poichè nessuno ebbe da obiettare ne scattai più d’una e lo feci con grande cura. Poi, guardando in alto I’uscita, vidi in profilo ed in luce radente i volti degli indios, antichi, ed immaginai le mani identiche degli amici di quell’uomo nell’atto di chiudere la sua tomba in un giorno lontanissimo ed uguale a quello che stavo vivendo io. Uscendo fui I’ultimo e l’atmosfera, la fretta degli altri di uscire, un vago senso di rimorso per la profanazione mi fecero dubitare per un attimo di loro: e se le loro mani avessero deciso, per riscattarli, di ripetere la scena ed offrirmi in sacrificio? Rabbrividii e mi affrettai a raggiungerli.
Fuori mi rilassai e guardai, guardai con la consapevolezza che ciò che vedevo in quel momento non era molto diverso da ciò che anche quello doveva aver visto. e mi sforzai di capire quello che era stato, per quell’uomo, importante vedere. Quello che aveva cercato. Perchè avesse costruito li quei nuraghi. Con i suoi occhi affrontai la sera pulita dei quattromila metri andini di mille anni fa e capii che dovevo salire in cima al Cerro. Lascia la comitiva sorpresa diretta a valle e, malgrado I’ora, iniziai la salita. Salendo pensai che forse Pedro e gli altri indios non avevano avuto torto nel dire che quell’uomo era stato loro nonno. I loro volti si assomigliano tutti, come in tutte le razze molto pure e come gli animali ove le livree dei mantelli si tramandano quasi perfettamente uguali a se stesse, senza soluzione di continuità, quasi che la specie fosse un unico individuo immortale. Cosi il volto di quell’uomo mummificato poteva essere stato uguale a quello di Pedro, a quello di Justo o a quello di Edmundo quasi uguali fra loro. Stessi capelli corvini, stessi denti grandi e gialli, stessa pelle color cuoio.
Cos’era stato, nella sua vita lontana quell’uomo? Pedro era semplice minatore e cosi gli altri, ed i loro padri ed i nonni dei loro nonni tutti a grattare l’argento, per gli lncas prima e per gli spagnoli poi, a San Cristobal.

Ma quell’uomo Iì sepolto no. Lui era vissuto prima degli Incas. Per misteriosi nemici aveva costruito quelle vedette ed aveva passato gelide notti a vegliare sulle rare punte dell’altipiano ascoltando i rumori e le stelle che inchiodano il cielo, incapace di leggere in esse i destini di quei suoi nipoti. Chisà se il mio volto, che conserva tratti d’entrambi i miei genitori, pur essendo da entrambi diverso, ripete fedelmente, replica, quello di qualche avo lontano? Chi sto, stiamo traendo inconsciamente, irricoscibile dall’oblio del tempo? Chi stiamo riproponendo alla vita? Dalla cima spaziai gli orizzonti, le piccole valli, la pianura, i canali, le piste. Capii da dove sarebbe potuto venire il nemico e mi misi di sentinella. Era sparito il sole, nel deserto, e le ombre si fecero, in un attimo, sempre più lunghe e blù.
P.S. Non senza turbamento scoprii in seguito che nessuna delle mie accurate fotografie scattate era riuscita: su ognuna si lntravvede il ghigno o vago sorriso di denti gialli.
Tony Klingendrath
