2009 – Maucci, Badino e la speleologia triestina

 

MAUCCI, BADINO E LA SPELEOLOGIA TRIESTINA

pubblicato sul n. 56 di PROGRESSIONE – Anno 2009
Il nostro presidente ha dato mano ad una risposta allo scritto di Giovanni Badino che la Redazione ritiene più una puntualizzazione storica che una recensione: di fronte alla visione storica dell’Autore della postfazione al libro su Maucci Louis Torelli puntualizza la reale situazione della speleologia esplorativa  triestina dei decenni testé trascorsi. Per questo motivo abbiamo ritenuto più consono inserire questo scritto nella rubrica “Storia”.

La Redazione

Rispondo, su invito dei miei consoci, alle considerazioni di Giovanni Badino apparse sul libretto, Walter Maucci (1922 – 1995): speleologo scienziato triestino. Scritti memorialistici e celebrativi, a cura di Sergio Dambrosi e Rino Semeraro, edito dalla Società Adriatica di Speleologia di Trieste, erede diretta della sezione Geo-speleologica della Società Adriatica di Scienze Naturali, struttura fondata dal Maucci negli anni cinquanta del secolo scorso. Scrivo a malincuore, non mi piacciono le polemiche e sono un pessimo scrittore.
Come in ogni altro libro di questo genere contiene articoli e saggi a ricordo del personaggio, elenchi di pubblicazioni e memorie, oltre che interventi e testimonianze.
Il tutto è ben distribuito ed esauriente, i curatori sono stati attenti e l’illustre speleologo triestino, ben noto nell’ambiente – perlomeno fino ai primi anni settanta, momento del mio personale ingresso nella speleologia – triestino e non: a mio avviso è stato ricordato in maniera corretta.
Ciò che invece lascia dubbiosi è la prefazione di Giovanni Badino al volume e soprattutto la conseguente post-fazione che contiene un’analisi critica avente delle affermazioni talvolta dubbie ed immotivate
Giovanni, lo chiamo per nome in quanto lo considero un amico e collega con cui ho occasione di collaborare, usa la figura di Maucci per toccare l’intera problematica della speleologia triestina. Utilizzerò un po’ del suo linguaggio, a volte simbolico-speleo-descrittivo, probabilmente più accessibile al suo vasto pubblico speleologico che per tanti, e giusti, versi lo adora. Pubblico che ha bisogno di immagini consuete e familiari per comprendere ciò che per i non speleologi è incomprensibile anche dal punto di vista lessicale.
Concezioni
Parlando della storia della speleologia giuliana Giovanni è entrato in un enorme labirinto meandriforme e freddo, simile a quelle grotte del Canin, un reticolo complesso più di qualsiasi sistema, costruito in decenni di intense esplorazioni, dove centinaia di persone – di grottisti – si sono alternate ad altre man mano che lasciavano, consegnando la testimonianza delle nostre capacità esplorative, delle nostre conoscenze, e sopratutto della nostra consapevolezza: io parlo per la Commissione Grotte o dell’Alpina delle Giulie – per decenni nota e firmata come S.A.G. – perché nel suo scritto gli altri gruppi sembrerebbero inesistenti, di loro non si parla mai come se a Trieste esistessimo solo noi mentre invece c’erano, eccome!
La nostra “consapevolezza”, che non è intelligenza, non è sapere, non è tecnicismo, non è record mondiale o risultato eclatante, non è la mia persona o quel personaggio, ma la certezza critica del nostro essere nella speleologia, anche in rapporto con gli altri colleghi, forti anche della nostra spietata autocritica, dei nostri archivi, delle tradizioni, dei ricordi e di quello sguardo al futuro sempre attento al presente che si concretizza nell’esplorazione, nel fare, anche senza i media, senza immagini, grancasse pubblicitarie che fanno apparire o sembrare a volte quello che non c’è. E’ la differenze fra l’essere e l’apparire. Natura che è anche – ma non solo – frutto di un’evoluzione più recente, di cui io mi faccio serenamente portavoce. Questa impostazione è ampliamente documentata: basta leggere le rubriche dei nostri bollettini degli ultimi trenta anni, da El Buso a Progressione. Anche se parlo a nome dell’Alpina devo ricordare che la speleologia del dopoguerra, citata da Badino, è il prodotto, la sintesi del lavoro degli speleo dell’Alpenverein, del Club dei Sette, del Club dei Touristi Triestini, dello Hadesverein, della XXX Ottobre e quindi poi delle decine di gruppi e associazioni che hanno operato su questo territorio fra il 1883 ed il 1945: vedere il lavoro di Guidi sull’associazionismo speleologico a Trieste, distribuito dalla Federazione Speleologica Triestina in occasione di Bora 2000.
Ma veniamo al dunque, l’analisi critica di Giovanni è storica e filosofica. Per quanto riguarda la storia nella Trieste nell’Ottocento non c’erano confini labili (consiglio la lettura del bel libro “Il gelso dei Fabiani”) in cui si parla del Carso e delle sue genti e famiglie, e dei cento anni di pace che hanno vissuto questi luoghi: un vero record, e questo fino alla vigilia della prima guerra mondiale. L’Italia come la vediamo oggi ancora non esisteva, qui esistevano però la ricchezza dei commerci che pervadeva Trieste. In questo terreno di sviluppo anche intellettuale, collegabile alla cultura mitteleuropea – italiana, tedesca, ungherese, boema, slava, greca alcuni protagonisti di questa estrazione riuscirono a volgere e a dedicare alla speleologia gran parte dei loro interessi professionali: Lindner, Svetina, Hanke, Marinitsch, Polley, Moser, Müller, Konvizcka, per citarne solo alcuni. Il confine era saldo e riconosciuto. Il Carso era certamente cosa austriaca, slava e triestina, e non starò qui a descrivere ciò che successe tra le due guerre: spero che il lettore abbia sufficiente conoscenza della storia più vicina.
Tornando all’Autore questi, dopo la sua breve analisi storica, precisa che i gruppi di Trieste (tutti??) siano viziati da un senso di superiorità, ma cosa significa quest’affermazione? Non si possono decontestualizzare fatti o avvenimenti dal loro momento storico; inoltre da noi nessuno è vissuto mollemente facilitato o “alterato”, le esplorazioni hanno sempre richiesto fatica, sacrificio e impegno sia se distanti che vicine a casa. Quel ragionamento potrebbe valere adesso per i punteros, i duri che vanno alle Filippine o in Caucaso: tra cento anni qualcuno potrà scrivere degli stessi citando Badino e affermando magari che Naica era il “vizio” di La Venta? Ritengo che questa non sia analisi corretta, come non sia giusto fornire informazioni non verificate.
Nei passi successivi troviamo una disquisizione sulla chiusura della speleologia triestina in un nicchia di superiorità seguita da una analisi sociale. La prima affermazione non corrisponde assolutamente a verità: ben lungi dal chiudersi in se stessa a Trieste la speleologia del dopoguerra ha visto nascere la Scuola Nazionale di Speleologia del CAI (organizzando corsi teorico pratici cui si sono formati decine di speleologi di tutt’Italia), ha tenuto due congressi nazionali, organizzato tre convegni del Soccorso Speleologico, vari incontri internazionali, ultimo quello per i dieci anni della scoperta de Timavo sul fondo della Lazzaro Jerko. Questa è storia. O forse è un aspetto della chiusura al mondo o la nicchia dove ci siamo autorinchiusi. Mi viene da pensare a tutti gli speleologi, scienziati ed esploratori, che soltanto io, ultimo arrivato, ho conosciuto e frequentato in quaranta anni di grotte e trentacinque di CGEB: ho dialogato con Habe ed Eraso, con Isac De Santesteban, con Sivelli, Maleckar, Jelincic,; ho esplorato con tanti amici: Gobetti, Guidotti, Palmieri, Pota, Ristic, Stopar, Davor e Istok, e tantissimi altri, una lista infinita: Ma eravamo chiusi in una nicchia ? Non abbiamo capito nulla, non “abbiamo a Trieste” capito nulla avendo fatto una speleologia deficiente. Ricordo che sul Marguaries le prime grandi esplorazioni italiane le hanno fatte negli anni ’50 i triestini e che negli anni ’70 due triestini ed un torinese disegnavano la topografia delle Carsene in proiezione, stilavano rilievi e trovavano in P.B. una via più comoda il “passaggio Bella Donna” e levavano il popolo speleologico del nord Italia dallo ravanare nella via dell’acqua.
E’ vero, in parte è vero, che una complessa struttura sociale e speleologica come quella dell’ Alpina è stata conservatrice, ma questa fase è stata superata da tempo, tanto che sul nostro bollettino da anni l’italiano si intreccia con lo sloveno e l’ungherese.
Ulteriore conferma della nostra apertura potrebbe essere che nel nostro gruppo sono stati accettati e sono entrati moltissimi speleo provenienti da altre realtà speleologiche.
Chiusura “ invece, la incontrai per la prima volta nella mia carriera speleologica al bivacco Saracco-Volante: noi triestini siamo stati subito relegati “fisicamente” nello scantinato, solo Andrea Gobetti, appena tornato dall’India, luminoso e magro, scese nell’antro a portarci la sua compagnia, il suo cuore e soprattutto un bicchiere di rosso; noi, a casa nostra, avremmo diviso il nostro pane e d il nostro letto con gli ospiti. Il male del nostro gruppo sono state le sue porte fin troppo spalancate. Tutti, amici e spioni sono entrati liberamente nel nostro club, hanno mangiato ai nostri festini, hanno navigato in internet, hanno prelevato materiali e carburo, hanno fotocopiato documentazione e ascoltato i consigli dei “veci”, si sono riscaldati, finché faceva comodo. L’apertura e la generosità della CGEB sono sempre state una nostra caratteristica, e non è mai mancata la collaborazione propositiva, progetto Kronio in Sicilia docet. E le nostre porte sono sempre spalancate, attualmente lavoriamo con i nostri colleghi e amici geologi e speleologi che abitano da Tirana a Postumia, passando per Koper e Tolmin, Roma.
Un aspetto caratteriale dei triestini che spesso complica i rapporti con l’esterno è il loro notevole senso dell’ironia, comportamento che fuori Trieste – a volte me ne rendo conto – resta incomprensibile. Il nostro senso dello “humor” fa concorrenza agli inglesi, ed è una caratteristica dei triestini e non della speleologia triestina, ne abbiamo esportato anche un po’ nel mondo, che spesso è cosi eccessivamente serioso e così pesantemente autoreferenziale. L’analisi di Giovanni prosegue con considerazioni sugli aspetti dell’impostazione scientifica di Maucci e del suo rapporto con la speleologia triestina, in particolare quella sportiva. Analisi condivisibile, era un problema presente in tutta Europa tra gli anni sessanta e settanta. A questo proposito vorrei anche sottolineare che l’aspetto sportivo è stato determinante per l’evoluzione della tecnica e il suo successo è un valore aggiunto per l’epoca, ha guidato e stimolato il rinnovo delle tecniche esplorative (corde OBR, impianto ad acetilene sul casco già negli anni ‘60 e ‘70′ e così via).
Giovanni cita poi l’episodio in cui negli anni ’50 vennero sbeffeggiati rudimentali attrezzi di risalita su corda allora inventati; in questo caso la critica all’episodio è da considerare avulsa dal suo contesto storico: a quei tempi non c’erano ancora i presupposti tecnici di contorno e di supporto per utilizzare tali attrezzi, mancavano imbracature, materiali per gli attacchi, dovevano ancora venire i chiodi a pressione ed erano carenti soprattutto le corde. Buona parte dei gruppi utilizzava le corde di Manilla (diametro da 18 a 24 mm, a seconda della lunghezza: più lunga era la corda, maggiore era il diametro, ed il peso), molto più resistente all’acqua della canapa e soprattutto più economica. Sulle scale poi i triestini erano forti: nella gara di risalita fra corda e scala non vi erano dubbi sul vincitore.
Comunque il sistema OBR ha visto i triestini fra i primi in Italia ad adottarlo, da principio con il sistema americano dei Gibbs, indi – sempre pronti a recepire le innovazioni utili – con i Croll.
E’ solo parzialmente condivisibile l ‘analisi di Giovanni sull’uscita di Maucci dalla CGEB per fondare l’Adriatica, sulla sua partecipazione e coinvolgimento a livello nazionale con la SSI, e sulle grosse spedizioni alla Preta e al Corchia.
Maucci non era uscito dalla CGEB per fondare un nuovo gruppo, ma era stato “dimissionato” (per beghe interne) e dopo essersi firmato come Circolo Speleologico Triestino (1950) è approdato alla Società Adriatica di Scienze Naturali, con un manifesto programmatico sostanzialmente velleitario. L’autore dimentica invece che c’era un gruppo a Trieste che ha proseguito ad evolversi culturalmente e “sportivamente”, portando nella scuola e nella didattica tutte le innovazioni acquisite (o inventate di sana pianta), cosa non fatta dal Maucci, rimasto ancorato ai vecchi schemi. Ricordo che nel 1963 Gherbaz ha presentato un nuovo metodo per la costruzione di scalette superleggere, l’anno dopo ha collaudato un tipo di sacchi estremamente razionali per il trasporto dei materiali, poco dopo ha presentato la tuta “Gortani”, Luciano Benedetti (del GTS) ha inventa una rulliera scorricavo da utilizzare nel soccorso, Davanzo un argano leggero, Rupini (del GSSG) ha escogitato un sistema innovativo per la risalita su corda (il futuro MAO dei perugini) e mi fermo qui: se la speleologia triestina non era all’avanguardia, certamente non faceva parte della retroguardia.
Se poi la speleologia locale è rimasta ancorata a schemi scientifici vecchi questo io non lo giudico, non ho competenza in merito, e sull’eredità della grandezza non faccio commenti, non so a quali “piccoli uomini” che si credono eredi di quest’ultima Giovanni si riferisca. Non possiedo la grande dote del giudizio, la lascio volentieri a terzi.
Esplorazione
Su quanto dice sull’esplorazione in senso generale concordo, la contrapposizione scientifica ed esplorativa sono sempre stati temi vivi e di attualità a Trieste e non solo. L’analisi di Giovanni comunque non è totalmente puntuale e corretta. Si era approfondita la ricerca in Piemonte sull’onda concettuale e di sviluppo francese, giustificata anche da un fattore geografico e linguistico, l’onda è arrivata fino in Apuane naturale sfogo verso est. E Trieste? Asserisce che ha perso il treno. In parte vero, in parte falso, non si capisce che dire “eravamo tagliati fuori”, spiegato cosi è estremamente apodittico e riduttivo, si continua a far riferimento ad una chiusura non vera. Rammento ancora che in quegli anni (anni ’70) dopo aver perfezionato l’uso del Dressler e delle “Cordellette”, passammo, come già detto, egregiamente all’esplorazione in sola corda con il metodo americano, ordinando il GIBBS le corde Blue Water a Seattle per esplorare il Gortani. Quanto alla parte scientifica – andare in grotta in modo intelligente – devo ricordare che le squadre di esploratori erano formate da giovanissimi, prive dell’esperienza culturale che si acquisisce con anni di lavoro sul terreno. Ed i risultati esplorativi ci sono stati, affiancati da quelli scientifici curati da chi ha avuto la possibilità, oltre che di andare in grotta, anche quella di studiare, e qui potrei elencare le varie tesi di laurea che hanno avuto il fenomeno carsico come oggetto.
Gli anni ’60 avevano visto l’affinamento delle tecniche su scale superleggere e discensori, Dressler per risalite auto assicurate su corde dinamiche; il decennio successivo l’impiego della sola corda (statica), la rivisitazione – con altri occhi – degli abissi fatti pochi anni prima e la creazione del sistema del Col delle Erbe, collegando gli abissi, entità a se stanti e ben caratterizzate come lo sono le braccia e le gambe di un uomo, in un complesso unico. Immane lavoro fatto con la saltuaria collaborazione di colleghi provenienti da altre regioni, che ha portato – oggi, grazie anche all’intervento di tanti altri – a complessi di decine di chilometri di sviluppo. Formati da quei tronconi che abbiamo dedicato al ricordo di amici che non ci sono più: Abisso Davanzo, Abisso Vianello, Abisso Picciola, Abisso Fonda…
La difficoltà di comprensione in grotta c’è stata, è vero, ma a mio avviso le esperienze “geografiche” in Canin sono semplicemente diverse; un concetto non è valido e applicabile sempre, dappertutto e nello stesso momento, era ed è legato alle morfologie delle grotte che si esaminano, per questo motivo i congiungimenti effettivi sono arrivati più tardi in Canin ed in particolare al Gortani. Avendo esplorato e percorso diverse tipologie di cavità nel mondo, posso dire che per noi nel Marguareis, Alburni o Apuane perlomeno è stato sempre più facile capire e vedere o immaginare la topografia generale. Questo vale naturalmente per il concetto delle difficoltà percepite negli anni a cavallo fra gli anni ‘70 e l’85.
La struttura del Canin  è liscia, meandri forme, fredda e ostica, estrema; non dà spesso adito a traversi risolutori, magari di più facile percorribilità. Fino ai primi anni ‘70 chi non avrebbe seguito queste strade verso la profondità? Ma come puntualizzato sopra perlomeno fino al ‘95 si è lavorato egregiamente, documentando  tutto in varie pubblicazioni, perché quanto fatto non vada disperso e torni utile a chi domani vorrà riprendere l’esame di quanto fatto. Sul Canin fino agli anni ’90 hanno operato in prevalenza i triestini con puntate di speleo italiani e stranieri (che però non hanno dato un contributo fondamentale alle esplorazioni) mentre i colleghi friulani hanno operato in un’area più ad est, aprendo all’indagine un altro vasto campo.
C’è voluta la forza nuova degli ungheresi per ampliare gli orizzonti; verso la fine del secolo abbiamo iniziato assieme, poi sono andati per la loro strada, ma con loro non c’è competizione perché sono nostri amici. Oggi i numeri non quadrano più sono orde che invadono i nostri altipiani (squadre di trenta speleo e più) Cechi, Slovacchi, Russi, Ucraini; i pochi non triestini li ho visti passare quasi tutti: ricordo Gianni Guidotti e Matteo Rivadossi, sinceri amici anche loro, che hanno portato qualcosa di nuovo: non mi risultano altri che abbiano prodotto risultati (ingressi alti del Gortani, o metri di rilievi); forse Giovanni si riferisce a qualche torinese trasferito a Trieste, che quando esplorava aveva vicino una squadra di almeno dieci triestini. Nell’ottantanove è arrivato il Veliko Sbrego, un capitolo nuovo legato al mutamento geopolitico avvenuto alle frontiere in quegli anni. Tenendo presente che è stato più facile approdare al Kanin Jugoslavo per dei forestieri trapiantati sul nostro territorio, che per un triestino doc. Ma qui entriamo in un contesto che riguarda la psicologia umana senza contare che a metà degli anni ’90 l’attenzione si era spostata sui settori nuovi di Sella Mogenza, dove ottenemmo buoni risultati su di un terreno vergine: il confine era a pochi passi, invalicabile, vedevamo vasti territori carsici e le pattuglie dei “graniciari”, spdati jugoslavi con l’AK-47 sempre pronto. Il grande merito di aver rotto il confine, di aver sfondato la barriera psicologica che ci teneva legati, va all’allora nostro socio Antonini, speleo culturalmente svincolato dalle nostre paure e dai nostri complessi culturali. E la squadra che vi ha lavorato era sempre targata CGEB.
Concedo a Giovanni la prima mappa (fatta con i triestini) del sito. Sulle altre sue affermazioni mi piacerebbe sapere con chi avesse dialogato all’epoca all’Alpina, alla CGEB, eravamo in tanti, con tante idee e visioni della realtà. Quelle da lui riportate non sono mai state condivise dal gruppo di speleo che lavoravano sul Canin, certamente qualcuno ha esternato sue idee, sbagliando mira.
A proposito dei concetti nuovi e intelligenti di Giovanni ricordo che di “sistema” ne avevano parlato, prima della pubblicazione del libro di Badino-Bonelli del 1984, Adelchi Casale nel 1968: “vieppiù imponente il misterioso complesso che certamente collega in profondità i diversi sistemi solo in apparenza isolati…” (Due abissi di alta montagna, Alpi Giulie 1968), Carlo Finocchiaro nelle relazioni di attività pubblicate in quegli anni su Atti e Memorie.
Pur riconoscendo a Giovanni l’indubbio merito di aver espresso il concetto di “sistema” in maniera anche graficamente concreta devo ricordare che – come in ogni attività umana: scientifica, artistica, sportiva – non si può prescindere dal fatto che l’oggi è il risultato di un’evoluzione iniziata ieri o l’altro ieri, per cui è corretto riconoscere i processi precedenti, non si parte mai da zero.
Proseguendo contesto l’affermazione che non si concepivano gli ingressi alti di un complesso sotto il col delle Erbe o in Canin: sono stati cercati (forse in modo sbagliato) già da Vianello e compagni. Non dovrebbe far testo l’affermazione di qualche speleo di allora che avrà espresso la sua opinione. Non si può ridurre ad una citazione personale il lavoro portato avanti da un gruppo. Non è giusto affermare che dopo il Gortani di Gherbaz e Adelchi ci sia stato un vuoto. Si dimenticano le esplorazioni del Davanzo dei primi anni ’70 e del suo collegamento al Gortani e delle nuove squadre che avrebbero da lì apoco operato in zona scoprendo il sistema Vianello-Bus d’Ajar nonché nuovi rami al Gortani.
Speleologia e convivenza
Sono d’accordo con Giovanni sul problema di convivenza fra grottisti/esploratori e speleologi/scienziati; è un tema mantenuto vivo dalla critica, e dall’autocritica (talvolta feroce, sempre impietosa) che emerge dalle riflessioni presentate su Progressione da più autori.
Non riesco però a comprendere questa estenuante difesa di una paternità sabauda della speleologia moderna, fatta scendere grazie al suo grande bacino di utenza ed al fatto che nel Gruppo convivevano persone ed idee aggregatisi in sottogruppi quasi indipendenti ma convergenti su progetti specifici. Faccio presente che – come ha in parte esposto Guidi sul numero 60 di Speleologia – la Commissione Grotte del dopoguerra (ma anche quella del ventennio precedente) più che un Gruppo Grotte era un contenitore di più realtà autonome ma interdipendenti: due-tre gruppi di scavatori e cercagrotte sul Carso che diventavano una grossa squadra esplorativa fuori provincia, un addetto al Catasto che con impegno e perizia non comuni provvedeva alla ricostruzione e aggiornamento del Catasto grotte della Venezia Giulia, un gruppo dedicato alle ricerche preistoriche, alcuni biospeleologi, un ristretto gruppo di specialisti in meteorologia ipogea, un gruppetto di carsologi e geologi ed infine un team impegnato nel rilancio turistico della Grotta Gigante. La gestione Finocchiaro, iniziata nel 1953 e quindi ben dopo l’uscita del Maucci, stava realizzando il programma di rinnovamento della Commissione Grotte stilato e approvato nel 1942: stampa di una rivista speleologica di taglio scientifico, fondazione di una Scuola di Speleologia, creazione di un Museo Speleologico, spedizioni fuori zona, approfondita ricerca su tutti gli aspetti del fenomeno carsico di casa. Attività condotte in collaborazione con l’Università, i Musei, l’Osservatorio Geofisico Sperimentale, l’Istituto Talassografico: esplorazione e ricerca, più che due anime, due facce della stessa medaglia.
Giovanni parla poi di inediti assalti al cielo, di una speleologia che andasse in grotta non solo “con mani e piedi”; posso  essere d’accordo con l’autore sul concetto di una nuova visione del territorio sotterraneo da esplorare, di cui va riconosciuto essere il portavoce principale a livello nazionale, ma attenzione, non spariamo a zero sulla truppa. L’esplorazione del Gortani prima e del Davanzo poi ha creato fra gli speleo della CGEB una visione diversa del concetto di ricerca nel Canin: raggiunte quote prossime al livello di base è iniziata la ricerca in orizzontale ed in salita, allo scopo non solo di trovare ingressi intermedi che potessero facilitare la progressione all’interno, ma anche di “costruire” il sistema, attaccando al corpo gli arti sino ad allora rimasti separati.
Speleologia
Secondo Giovanni l’eredità di Maucci non può illuminare il nostro futuro, perché la speleologia non è scienza. L’amico Guidi mi ribatte che è solo una questione semantica, dovremmo metterci d’accordo, prima di instaurare un discorso, sul valore e sul significato delle parole che usiamo. Ma lascio a lui (se ne avrà voglia e tempo) il compito di approfondire la questione, a me viene da dire, con la solita ironia triestina, “per fortuna ‘ndemo in grota anca con la carburo… i led li gavemo istesso, de riserva, se ne ciapa la piena soto el telo termico sotto el P. 90 almeno no crepemo de zima”. Quanto poi alla diffusione di questa meraviglia della tecnica “senti l’ultima, durante na manovra del socorso in Canin i foresti iera tuti con la carburo, e a quel unico che iera solo in Led ghe xe cascà el casco zò per el pozo, nol gaveva el tubo de goma dela carburo”. Insomma a Torino hanno capito appena negli ultimi venti anni che i monti e gli altipiani sono pieni di acqua di reticoli idroforzati – idroformati, hanno scoperto che la geografia è infinita, con spazi enormi e bacini pieni d’acqua;  purtroppo mi ricorda sempre qualcuno… (che sia Boegan?): gli è sfuggita questa intuizione (abbiamo aperto un nuovo abisso sul Timavo e scaviamo all’87 VG sulle basi di che?).
Sono d’accordo con la considerazione che la speleologia non vive dei ricordi, a volte scherzando (a Trieste con Rok Stopar) diciamo che siamo una razza in via di estinzione, e che dovremmo rivolgerci a qualche ministero o commissione europea per la salvaguardia della specie.
Ma diamoci una mossa , un mondo sotterraneo “è un mondo” c’è tutto – è vero Giovanni – e ci siamo sopratutto noi, le grotte sono gli archivi e le biblioteche del tempo e qui mi inchino, (veramente): solo chi ha nel cuore la speleologia può affermare una cosa del genere, mi auguro che la nuova generazione di bibliotecari faccia tesoro della vera storia, anche del passato più ombroso, degli spelo-grottisti e trovi la strada per superare e andare oltre l’incredibile complessità del vastissimo mondo sotterraneo. Sarà anche compito e scopo finale della nostra consapevolezza nel mondo sotterraneo. Concordo con Giovanni sulla necessità di svincolare gli speleologi dalla scienza: ogni speleo in quanto uomo deve trovare le sue proprie personali affinità con il buio, la citazione di Feynman calza a pennello, anche se vorrei dire, parafrasando Popper, che noi non siamo studiosi di certe materie, bensì di problemi. E i problemi possono passare attraverso i confini di qualsiasi materia e disciplina.
E’ la prima volta che scendo in polemica. Come Giovanni, credo di essere un umile spelo che ha solo tentato di capire e amare questo mondo fatto di pieno e di vuoto, e che a volte arranca come il nostro cuore; il destino ha voluto che i giorni che scrivevo queste note leggevo il libro di Pavel A. Florenskij, matematico, fisico, geologo, teologo, e filosofo russo, “Ai miei figli: memorie di giorni passati”, cito dal capitolo “Il crollo” alcuni passi, siamo in Caucaso nei primi anni del Novecento, ”…il tempo scorreva senza che ce ne rendessimo conto; ci avvicinammo al laghetto tondo di Chiaris-Tvali, che si schiudeva come una visione celestiale. Non era grande cinque sagene in tutto di diametro, ma era molto profondo: stando alle misurazione del principe Georgij Aleks(androvic’), la profondità doveva essere pari a 35 sagene (vecchia misura lineare russa pari a m 2,134), ma era molto profondo: stando alle misurazioni del principe Georgij Aleksandrovic’ la profondità doveva ssere pari a 35 sagene ma c’era chi sostenesse arrivasse a 60. Il lago era alimentato da affluenti sotterranei; l’acqua era gelida e gradevole al gusto […] quel pozzo naturale era particolarmente bello quando il respiro dell’aria lo faceva fremere di un’increspatura lucente. Il suo nome georgiano ha lo stesso significato dell’epiteto greco di Era “occhi di bue” (l’epiteto rimandava al passato zoomorfo di Era, alla quale tra l’altro, si sacrificavano delle vacche. Ad Argo Era veniva rappresentata in forma di mucca) […] l’azzurro misterioso di quel pozzo senza fondo è, ovviamente, la conseguenza di sedimenti minutissimi. Ma da dove venivano quelle particelle che parevano trito di ghiaccio? […] Proseguimmo. Il terreno era scavato da affossamenti di diversa grandezza. Paiono imbuti e durante le piene primaverili, quando lo Saora straripa tumultuoso e carico d’acqua, servono da deflusso sotterraneo delle acque […] addirittura mi ci calai. Era un imbuto nel calcare con un distaccamento nastriforme […] Nel villaggio di Nikok-Tsiminda trovammo altri fenomeni carsici curiosi che vennero ispezionati, disegnati e fotografati anch’essi.”…
Commovente. Mi fermo qui. Quanto non sappiamo, quanto siamo piccoli, a volte miseri; quest’uomo scriveva i suoi ricordi ai figli ancora giovinetti, costretto a lavorare rinchiuso nel famigerato gulag delle isole Solovki da dove poco più tardi, l’8 dicembre del ‘37, fu portato a Leningrado per essere fucilato.
Scrisse ai suoi figli molte altre cose, per lasciar loro la sua autentica eredità di uomo. Ma scrisse anche per “noi” con il suo grande cuore e la sua grande mente di matematico e geografo. Anche questa è speleologia: spero di avervene regalato un piccolo frammento.
Grazie, Giovanni, per avermi costretto a scriverti, a presto.

 Louis Torelli