SAN CANZIANO NOSTRO GRANDE AMORE
Pubblicato sul n. 45 di “Progressione” anno 2001
Poiché il topo d’archivio Pino ha pescato un altro articolo del Maestro, pubblicato su Alpi Giulie n” 71 del 1977, mi sono deciso continuare il racconto sulle avventure dei quattro giovanetti che, invasati da amor speleologico, non perdevano domenica per salire sul Carso alla ricerca di buchi o buchetti da rilevare.
Essendo la prosa di Carletto molto più lirica della mia, mi permetterò stralciare parecchi suoi brani per arricchire questo articolo; non volendo però farmi bello con la penna di un vero scrittore, questi saranno riportati in corsivo …per la strada deserta e male illuminata, zaino in spalla, si partiva tra il brontolare degli amici per il sempre mio ritardo.
I passi stentavano trovare insieme la giusta cadenza lungo la Via Revoltella, diventavano irregolari per l’erta del bosco Mellara (allora ancora bosco) fino a Cattinara, chiusa nell’incerta luce dell’alba; rallentavano sulla ripida “scala delle vacche”, si distendevano infine sicuri, rapidi oltre Basovizza, dove il sole giocava tra gli angoli delle case … e poi più avanti verso Sesana, Corgnale od altro posto dove vi era una grotta da rivedere o da rilevare.
A quel tempo l’attività della Commissione ea scarsissima; praticamente solo noi quattro si usciva con una certa costanza, seguendo le indicazioni ed i consigli di Gianni Cesca, nostro maestro e papà; gli altri, tutti più anziani di noi, si facevano vedere solamente quando era da dare una mano per una illuminazione o le rare volte che si aveva a disposizione il camion militare. A me questo è capitato due volte sole: la prima in Istria, nella zona dell’Arsa, dove avemmo la fortuna di scoprire l’abisso di Rebici e l’altra sulla Bainsizza, finita in mezzo alla tormenta (*) di ciò avevo già scritto su PROGRESSIONECENT0 del 1983.
Comunque ci davamo dentro a più non posso, anche se di solito i risultati non erano di gran rilievo; a parte aver una volta scoperta una nuova bellissima galleria nella Stojkovich o, purtroppo un’altra, aver fatta la macabra scoperta di un neonato gettato in un pozzo. Ciò fu da noi immediatamente denunciato al piantone, unico presente, era domenica, nella stazione CCRR di Sesana, e poiché gli avevamo parlato di un feto: chiestici in primo luogo i documenti, registrate le nostre generalità e il rinvenimento di quella cosa sconosciuta, ci disse che potevamo andare. Il fatto fu causa di un grosso spavento per le nostre famiglie; all’alba del giorno seguente, un maresciallone suonò alle nostre porte e ci prelevò con tanta urgenza che non avemmo il tempo di dare ai genitori la minima spiegazione. Poi vi fu il poco piacevole recupero e, un anno dopo, il processo nel quale la madre fu condannata all’ergastolo mentre il marito fu assolto per insufficienza di prove. Quali testimoni eravamo presenti in tribunale; dopo la sentenza il tizio ci fece chiaramente capire che se si fosse passati dalle sue parti avremmo fatto la fine dello sfortunato figlioletto.
Le giornate più belle però erano quando si poteva andare a San Canziano, vuoi per dare una mano in occasione di una delle rare illuminazioni (circa due a all’anno); allora potevamo fruire gratis di un bus all’alba e dell’ultimo della sera, oppure quando si andava a lavorare di mazza, paramine e polvere nera alla Caverna Schmidl per eliminare parte della frana che ne ingombrava il piazzale; in questo caso Boegan ci dava il denaro per il biglietto ferroviario di sola andata; il ritorno naturalmente a piedi. Era quasi un rito irrinunciabile fermarsi alla Vedetta lolanda, a picco sulla Grande Voragine, che conservava ancora nel grembo profondo ombre inquiete, tagliate dalla grande lama d’acqua del Forame dei Gorghi. L’antica osteria dei Gombac (biglietti, guide, lampade e cartoline per i Signori Visitatori) ci accoglieva amica con enormi scodelle di caffelatte dove il capo-guida “Frane” Cerqvenik ci suggeriva di tentare quelle vie che lui ed altri, sotto, nelle grandi caverne, avevano invano tentato. Ci buttavamo poi giù per il sentiero della Grande Voragine scavalcando la porta ancora chiusa a chiave, passando rapidi sotto l’edera pendula dell’Arco Tominz per immergerci nella penombra della Schmidl, dove preparavamo le nostre cose speleologiche ancora alla luce del giorno.
Qualunque fosse i l nostro compito non mancavamo mai, prima di iniziare, di fare un salto all’interno per arrampicarci lungo le vertiginose ferrate, ormai in condizioni alquanto precarie, che, tanti anni prima i favolosi “grottenarbeiter” avevano racciato su ambedue le pareti della grotta. Se si trattava d’illuminazione questa era una buona scusa per non occuparci dei grossi e pesanti lampioni a carburo andando invece a sistemare centinaia di candele accese nei punti più impensati e più in alto possibile. Alla fine all’osteria, nella stanza a disposizione dei signori della Commissione, dove, avendo pecunia, potevamo ristorarci con una enorme ed ottima “palatschinka” che la buona signora Gombac ci forniva per la modica, ma per noi non tanto, somma di Lire una, da irrorare con un doppio di vino mentre Ciano, sul grande pianoforte a coda, alternava brani di Brahms, magistralmente eseguiti, all’accompagnamento delle laide canzonacce da noi intonate. Nell’agosto del 1936 Cesca ci offre di fare da sherpa ad un suo awenturoso conoscente, industriale genovese, che intendeva assaporare una emozione speleologica ed al quale aveva proposto una puntata sino ai laghi terminali di S. Canziano. Ben lieti di fare cosa gradita ad un forestiero che inoltre proponeva, quale ricompensa spese di viaggio e mangiatoria finale, accettiamo di buon grado, con la benedizione di Boegan che era molto curioso di sapere come era la situazione laggiù dopo la famosa alluvione dell’anno precedente. Erano ormai passati molti anni dall’incidente di Prez (a proposito, anche se italiano, qualcuno potrebbe rimettere la lapide che lo ricordava, del resto è morto nella ricerca di un passaggio che superasse i l sifone del lago Martel, mi pare sia l’unico esploratore caduto) e, se non erro, dopo la visita con i l gen. Gariboldi del ‘23, nessuno vi era più ritornato. Raggiunta, in modo inusuale per noi, la meta di partenza, in osteria indossiamo le tute offrendo la più pulita, ma sempre piuttosto fetente, al Mecenate che ci aveva ingaggiato e che era accompagnato da un amico, purtroppo triestino, indossante un magnifico knikerboker di lana chiara: “mi no che me meto sta roba, no capiso perché bisogna vestirse de paiazi per andar in grota!” (*). Lasciandolo nella sua convinzione, ci awiamo per il sentiero basso, abbandonato dopo i grandi lavori del 1933, ingombro di sabbia, tronchi, rami e fango della recente alluvione, passando a fianco del distrutto Ponte del Fante lasciamo alle spalle ogni baluginare di chiarore esterno per passare sotto il ponte che a buon diritto “Frane”, che ne aveva diretto i lavori, avrebbe potuto chiamare della sua vittoria. I dettagli del percorso che il vecchio capo-guida ci aveva ripetutamente descritti erano talmente precisi che già la prima volta procediamo senza incertezze lungo il sentierino artificiale del Canale Hanke, ricavato nella roccia dai primi esploratori, ad una ventina di metri sul fiume, bastante per un piede, con la protezione incerta di un esile corrimano di ferro. Non si vede il fiume, non si vede la volta, non si vede la parete opposta se non dove il fiume rombando svolta nelle molte cascate.
La “Grotta della Pioggia” è superata in fretta ed in breve si arriva alla “Vedetta Swida “. Qui il sentierino s’interrompe continua con la “rettungsweg” sulla parete destra, sentiero in tavole, di cui le piene avevano lasciato solo i grossi chiodi su cui poggiavano ed un filo di ferro per le mani: Dalla Swida tacche in parete e corrimani contorti portano al fiume. Le brache dell’ex biancovestito sono ormai completamente marron mentre la giacca è stata opportunamente rivoltata nella speranza di sporcarne solo la fodera; ma ora bisogna guadare i l Timavo per procedere lungo I’altra sponda. Carletto generosamente si offre di traghettare il Mecenate dato che sa- Sappiamo benissimo cosa bisogna rebbe inutile bagnarsi in due; al chè il bian- fare: arrampicarci per una ventina di metri covestito: “e a mi chi me porta?”; con nostra somma meraviglia Bruno, serafico, “no la stia preocuparse con qua mi!”. Caricatoselo a “cope de fas” inizia il guado ma, dove l’acqua è più alta, ha un momento di voluta esitazione con successivo scivolone che scodella il cavaliere nell’acqua sino ai capelli. Si continua per un tratto sotto parete cercando la strada buona tra i massi e quando I’acqua ci sbarra nuovamente il passo traversiamo ancora, in equilibrio sui massi, fino ad una corta spiaggetta; ancora un basso guado oltre un fiume ormai placato ed eccoci nell’enorme Caverna Martel, dove le lampade a carburo formano un globo luminoso intorno a noi. Il Timavo forma qui un piccolo lago che una parete strapiombante da circa ottanta metri strozza, lasciando tra acqua e roccia un varco di un metro nel punto più alto, largo due o tre metri. sul monte di sabbia a sinistra, disancorare la barca in legno che gli ultimi esploratori avevano assicurato alla parete, portarla a riva, montarci sopra e navigare. Tutto va secondo le previsioni, meno il navigare: il legno fradicio cola a picco a qualche metro dalla spiaggia. Non vi è niente da fare se non trascinare faticosamente, in silenzio, su per la montagna di sabbia, la barca più pesante di prima. Non so a chi viene l’idea, tornati a valle, di concludere comunque la nostra spedizione: ormai eravamo bagnati d’acqua e di sudore; freddo, grazie a Dio, non si sentiva affatto; vestiti o nudi non faceva differenza. Quindi nudi al Lago Morto. Medeot, il fotografo ufficiale, nudo anche lui per non farci torto, scatta qualche fotografia delle nostre evoluzioni natatorie, ed in una è evidente che gli scaglio contro parolacce perché ci tiene fermi, a mezzo busto, il resto sott’ac- qua, per regolare perfettamente il fuoco di quella sua maledetta macchina a lastre, costringendomi a tenere una candela in mano. E via tutti quattro soli, fanale alto sul capo, oltre il sifone dove finalmente si vede lavolta. Approdiamo fra sabbia e sterpi, unafuggevole occhiata al lago Marchesetti e ci s’inerpica, a sinistra, per le profonde vasche di calcite, superata la galleria di raccordo (ohimè, un cunicolo da spellare le ginocchia) ed ecco il Lago Morto. Morto veramente, immobile, quasi ricoperto di legname, con qualche soffione di schiuma qua e là. Morte anche le parole: forse così, muti, erano rimasti Hanke, Muller e Marinitsch, quando, dopo otto anni di fatiche giunsero il 5 ottobre 1890, al nostro stesso punto. Ma non c’era tempo per discorsi filosofici, tecnici o teorici: fermarsi accapponava la pelle. Cunicolo, vaschette, occhiata al Marchesetti un po’ turbolento la dove il fiume s’immette, ma liscio ed impenetrabile come la sfinge dopo qualche metro. Sabbie e sterpi, l’abbraccio non proprio caldo del Timavo, alto il braccio sull’acqua per non annegare la lampada a carburo, sifone, riva. Riva solida che aveva ormai dietro la piccola, oscura, misteriosa apertura del sifone Martel. La nostra traversata dei tre laghi era durata un’ora buona. Quattro ore per il ritorno trascinando un ammasso di fango, ex biancovestito in piena crisi, ormai è buio, all’arrivo in osteria, avvolto tremante in una coperta, giura che mai più andrà in grotta. Siamo finalmente al momento del pattuito simposio finale che si prolunga sino a tarda ora. Alla fine, constatato che ormai non ci sono più treni sino al mattino, il nostro simpaticissimo Mecenate propone di cercare un mezzo ippotrainato; aiutati dai padroni, riusciamo reperire un villico disposto a portarci, carro e cavallo, sino alla curva di Basovizza ma non più oltre. Da qui, dove giungiamo addorrnentati, a rotta di collo per la ripida discesa sino a casa dove finalmente vengo accolto, non decentemente lavato, tra due calde lenzuola pulite, mentre il sole comincia illuminare il costone dell’altopiano. Non è che questa impresa ci fece capire sui segreti del lago Morto molto più degli altri, pochi, che ci avevano preceduti, ma ebbe una “buona stampa” perché il vecchio Eugenio Boegan ritenne che essere arrivati dopo 13 anni al lago Morto costituiva occasione di ampie meditazioni per i lettori di un quotidiano locale; un altro, nazionale, si impadronì della notizia, dove dal tragico naufragio della barca si salvarono per fortuna tutti perché provetti nuotatori. E seppero ben presto raggiungere la riva per continuare l’esplorazione. Tutto però non finì qui; convinti che il fiume continuava dal Marchesetti bisognava scoprire da dove e poi, eventualmente, come fare per proseguire, quindi lunghe discussioni in sede ed alle volte anche in osteria dove si intervistava il padre di Bruno, di professione palombaro. Carletto intanto tentava di inventare una specie di derivometro luminoso per individuare il sifone sommerso; programma che poi si realizzò nel 1939 con Ciano e Carletto ed altri ma con scarsi risultati; Bruno ed io eravamo da tempo militari. Dopo la guerra ci siamo rivisti ancora, tutti quattro assieme, una sola volta nel 1947, dopo il ritorno di Carlo dalla prigionia in Russia; e naturalmente se ne riparlò, anche perché, avendo acquisita una certa pratica con, gli allora quasi sconosciuti, respiratori ad ossigeno, che impiegavamo nel corso di operazioni di sminamento della costiera veneta, ero convinto fossero apparecchiature indicatissime per tentare il forzamento del sifone. Ma poi vi fu la diaspora: Medeot in Venezuela, Gabrieli in Argentina ed io in Sicilia; il nostro sogno restò tale e noi avevamo da un pezzo smesso di essere giovani. Altri hanno realizzato quello che speravamo di fare noi; ha poca importanza: lo ha fatto la speleologia che è stata, è, e rimarrà sempre “cosa nostra”!
Carlo Finocchiaro, Giulio Perotti