GLI STUDI SUI RIEMPIMENTI FISSI E MOBILI DELLE GROTTE
Pubblicato sul n. 27 e 28 di PROGRESSIONE – Anno 1992-93
Premessa
Nel lavoro vengono indicati solamente alcuni dei tanti argomenti che riguardano le grotte e che rivestono un grande interesse dal punto di vista geomorfologico.
Si tratta dei cosiddetti depositi di riempimento, che generalmente diminuiscono fortemente la possibilità esplorativa delle cavità da parte dell’uomo. Ciò porta ad una limitazione nella valutazione della struttura della cavità stessa e, il più delle volte, ne impedisce perfino la ricostruzione delle varie fasi, in particolare di quelle legate ai momenti iniziali del fenomeno carsico che hanno dato inizio alla evoluzione delle grotte stesse.
A causa di detti depositi, è altresì noto, che la parte esplorabile di una qualsiasi cavità è minima rispetto al suo reale sviluppo. La stragrande maggioranza dei vuoti carsici è attualmente riempito da materiali fissi e mobili, (blocchi di frana, ciottoli, sabbie, argille, concrezioni, ecc. più o meno cementati), i cui spessori sono molto spesso ignoti. Il giudizio sulla genesi ed evoluzione delle cavità, viene così fortemente limitato ed anche influenzato dalla natura di questi materiali obliteranti delle morfologie strutturali della cavità.
Molti Autori, fin dagli inizi degli studi carsici, si sono avventurati nello studio di tali sedimenti e le considerazioni che ne sono scaturite, non sempre hanno portato chiarezza nei rapporti temporali tra la struttura della grotta e le varie fasi evolutive dei depositi di riempimento.
Il lavoro vuole portare anche un contributo alle valutazioni che devono venir fatte su tali riempimenti e di dare così la possibilità all’esploratore di fornire nuovi elementi conoscitivi sulla genesi, evoluzione, modificazione, di questi depositi, alla luce anche delle variazioni climatiche che hanno fortemente interessato le varie fasi dello sviluppo delle grotte in una determinata area carsica.
Va anche ricordato che la successione temporale di tutti i vari tipi di depositi di riempimento non è sempre ben chiara. Vi possono coesistere anche delle fasi alterne di deposito e di successivo svuotamento, più volte ripetute. Tutto ciò può essere anche avvenuto in un momento carsico di gran lunga posteriore alla fase genetica della cavità ed i vari depositi e le loro fasi possono semplicemente costituire i momenti di maturazione e di senilità dell’evento “grotta”. Gli schizzi I. e II, illustrano il tipo a), riempimento completo; lo schizzo III. mostra che in caso di parziale riempimento con materiale cementato, il termine vacuo viene interpretato nel senso più estensivo. Dalla successione degli schizzi risulta logicamente che il termine grotta è da usare anche per il tipo b), IV. schizzo (riempimento completo). (da Trimmel. Rassegna Speleologica Italiana, 1963)

Analisi degli studi
Molti sono gli Autori di “cose carsiche” che si sono interessati dei sedimenti presenti nelle grotte e, per la parte di indagine conoscitiva che ci interessa, tratteremo solamente di alcuni di questi Autori che hanno evidenziato con maggior precisione l’argomento. Forse fu proprio G. KYRLE (1923) a considerare i riempimenti delle grotte come una vera e propria fase del ciclo speleogenetico. Infatti divide la “vita” delle grotte in quattro fasi:
– Formazione di cavità – Ampliamento – Riempimento (Raumerfullung) – Decadenza.
W. MAUCCI (1951-52) ed anche in altri lavori successivi, imposta la sua famosa “ipotesi dell’erosione inversa”, proprio in base ad una critica sui lavori del KYRLE, ma sorvolando completamente l’importanza dei sedimenti nei vari momenti della storia di una grotta.
Curiosamente, una decina d’anni prima, fu un’altro Autore “triestino”, A. MARUSSI (1941), a considerare invece i depositi di riempimento per formulare addirittura un’ipotesi speleogenetica, compiendo però un errore temporale, abbastanza grossolano. Il MARUSSI infatti basò la sua “teoria” sul rinvenimento nei pressi delle Grotte di S. Canziano (Slovenia), del relitto di una cavità riempita di ciottoli arenacei e calcarei, definiti o meglio datati dall’Autore come paleofluviali, legati cioè alle fasi iniziali del carsismo del Carso Classico. Molti anni dopo, S. BELLONI e G. OROMBELLI (1972), su suggerimento del MARUSSI indagarono su tale tipo di depositi, senza portare però alcun contributo pratico, se si esclude una classificazione cromatico-dimensionale priva di un interesse pratico.
H. TRIMMEL (1960), tradotto dal VIANELLO (1963), considera “il riempimento naturale delle cavità, che in qualche fase della evoluzione delle grotte ha uno sviluppo notevole, pone alcuni punti fermi sull’età delle grotte”. Il TRIMMEL seguendo il concetto di cavità o meglio di “vuoto”, nel caso di riempimento, divide questi “depositi” in due categorie: fissi e mobili. Tra quelli “fissi”, un posto quasi assoluto nelle grotte è dato dal concrezionamento calcitico, che talvolta può occupare completamento il “vacuo”, cioè lo spazio vuoto nella roccia dovuto alla dissoluzione carsica. Per quanto riguarda i sedimenti mobili, vanno considerati tutti gli altri tipi di materiali “non cementati”. Un’altra osservazione, assai interessante del TRIMMEL è: “il riempimento delle cavità può aver luogo in ogni tempo e non soltanto in dipendenza dello sviluppo paleoclimatico o regionale, ma anche e per una notevole quantità delle condizioni locali”. Non è che i depositi di riempimento delle grotte non fossero conosciuti e studiati, ma non in quanto tali. Vennero sempre e solamente considerati quali “sedi” di ritrovamenti più interessanti, ossia dei reperti paleontologici e paletnologici, che la maggior parte delle cosiddette “grotte a galleria” conserva. E’ così che molto spesso, se un determinato deposito non conteneva alcunchè di interessante dal punto di vista archeologico, veniva considerato “sterile”.
Ma è stato un’altro triestino, S. ANDREOLOTTI (1965, 1966, 1970), uno studioso di estrazione paletnologica che, per la prima volta, propose una classificazione sistematica dei depositi di riempimento del Carso, inquadrando anche sulla base degli eventi deposizionali, una successione cronologica, teorica ma abbastanza concreta, sull’andamento dell’attuale “Ciclo carsico”. L’Autore, ha cercato di stabilire, in riferimento alle numerose osservazioni effettuate sul terreno, nelle grotte, nelle doline, nei “relitti di cavità”, ecc., i tipi di riempimenti più comuni, presenti sul Carso Triestino e soprattutto ha cercato di stabilire la loro successione stratigrafica Nella maggior parte dei casi si tratta di depositi presenti nelle ‘grotte a galleria’, in cui sono stati rinvenuti i riempimenti più profondi costituiti da potenti depositi stalagmitici, meglio definibili come “banchi di concrezione calcitica” sicuramente di origine molto antica (Pliocene?). A questi seguono dei depositi sabbiosi ed argillosi giallastri, simili alle molasse plioceniche del bacino danubiano. In tali sedimenti, spesso sono stati trovati notevoli accumuli di ciottoli arenacei e calcarei, talora cementati, di indubbia origine fluviale.
Si tratta di quei “depositi ciottolosi” definiti dal MARUSSI paleofluviali, che come si vede tali non sono, perchè chiaramente sovrapposti ad altri depositi, i crostoni stalagmitici. E’ evidente che questi ciottoli rappresentano uno o più eventi pluviali succedutisi sul Carso, in un’epoca successiva, forse di alcuni milioni di anni, a quei depositi paleofluviali che comunque non sono mai stati trovati. Del resto, C. D’AMBROSI (1963), chiarì che l’assenza di materiali di origine paleofluviale sulle attuali superfici carsiche è dovuta al fatto che le antiche superfici mioceniche e plioceniche sulle quali scorrevano le acque appartenenti alla fase del carsismo iniziale, sarebbero state di parecchie centinaia di metri al di sopra dell’attuale superficie carsica.
E’ stato infatti ampiamente dimostrato in numerosi lavori di F. FORTI ed in particolare in due studi prodotti in collaborazione con F. CUCCHI, S. STEFANINI & F. ULCIGRAI (1985), che la consumazione media delle rocce carbonatiche del Carso Triestino nelle attuali condizioni climatiche è pari a 0,027 mm/anno. Questo valore significa che in soli 10 MA l’abbassamento medio delle superfici del nostro Carso è stata di 270 m, immaginiamoci ora dove possono essere finite le grotte ed i depositi paleofluviali, entrambi completamente cancellati!
Continuando nella classificazione, alle sabbie, argille gialle e ciottoli, seguono i depositi di argille e “terre rosse”, accompagnati spesso da brecce e da un concrezionamento calcitico. Infine ci sono i depositi più recenti ed attuali, terre rosse e brune, più o meno ricchi di sostanza organica, nonchè cumuli detritici (grize carsiche) sciolte e cementate. In quest’ultima successione stratigrafica dei depositi di riempimento delle grotte del Carso, sono presenti i grandi crolli, sia di massi rocciosi delle volte e pareti delle gallerie, sia delle stalagmiti e di interi “cieli” stalattitici.
F. FORTI (1974, 1981) ed in vari altri lavori, trattò anche diffusamente dei depositi di riempimento, ma con un occhio rivolto in particolare, al problema dell’evoluzione geomorfologica ed idrogeologica del nostro territorio.
I RIEMPIMENTI FISSI E MOBILI DELLE GROTTE
Vengono di seguito trattati solamente alcuni dei tanti argomenti che costituiscono la base per una valutazione, diversa dagli schemi consueti e più consona per lo studio dell’evoluzione del processo del Carso e delle nostre grotte. Iniziando dai depositi cosiddetti di fondo, ossia dai grandi banchi di concrezione calcitica, noti anche con il nome industriale di alabastro calcareo (stalattite gialla e rossa), presenti anche in affioramento, a causa della completa demolizione o meglio dissoluzione della grotta a galleria in cui si erano depositati. A titolo di esempio vanno ricordati i banchi di concrezione agli ingressi delle grotte: Ercole, Pocala, Azzurra di Samatorza, Caterina. Sono stati sempre definiti come concrezione calcitica deposizionale analoga geneticamente, alle attuali concrezioni di colate calcitiche e stalagmitiche. Ma da un’attenta osservazione risulta che questi banchi zonati giallo-rossastri sono fortemente inquinati da sostanze argilloso-siltose e quindi assai diversi. Sono stati interpretati come il risultato di una “fase climatica” caldo-umida, che come noto favorisce il concrezionamento calcitico. Recentemente a RIMOLI (1982), ci ha fornito una versione genetica originale, sebbene un po’ problematica. Afferma che il carbonato di calcio di detti sedimenti, stupendamente zonato, si è formato per “precipitazione del Ca e della CO2 in eccesso in una cavità con livello freatico sospeso. L’eccesso di Ca e CO2 proveniva dall’attacco del calcare sovrastante da parte di acque di percolazione ricche di H2SO4. Queste ultime derivavano a loro volta da processi di ossidoriduzione dei minerali delle argille’. Questo “concetto” di non facile comprensione, viene giustificato dall’Autore, con una nuova proposta carsogenetica che effettivamente contiene delle “verità inedite”. RIMOLI concepisce dopo una fase di sedimentazione delle rocce carbonatiche che costituiscono l’ossatura del nostro Carso, un’altra di orogenesi e di peneplanizzazione. Sollevamento dunque del blocco carbonatico, ma con forte spianamento operato dalle acque marine. Successivamente si sarebbe impostata una fase di tipo lagunare con larga deposizione di argille palustri con abbondante presenza di pirite e gesso primari. Nella fase successiva, con il sollevamento del blocco roccioso e quindi nella vera e propria “fase emersiva”, si è impostato il carsismo.
Questo è stato largamente favorito dai fenomeni di ossidoriduzione, dovuti appunto alla pirite e gesso che liberano una rilevante percentuale di 1-12504 innescando un processo di corrosione chimica accelerata sui sottostanti calcari. Secondo il RIMOLI “la corrosione del calcare da parte delle acque di percolazione arricchite in H2SO4 libera a sua volta una notevole quantità di CO2 e di Ca; la CO, accelera ulteriormente la corrosione mentre una parte del Ca si combina con SO4 per formare gesso secondario che resterà disponibile per una ulteriore produzione di H2SO4. Inoltre la percentuale di Ca e CO2 in eccesso può combinarsi nuovamente in zona freatica, od in altre condizioni di pressione e di temperatura (quali i vuoti originati dal processo), per formare un precipitato di CaCO3 del tutto simile alla stalagmite, se non per le strutture e la genesi che sono differenti, talora di dimensioni rilevanti al punto da essere oggetto di estrazione a scopo ornamentale”. Comprendiamo bene che quanto affermato dal RIMOLI non è di facile comprensione, però dobbiamo fare uno sforzo per uscire una volta per tutte dai luoghi comuni, dalle teorie “spiega-tutto” ma che, in effetti lasciano completamente in sospeso i principali teoremi del carsismo.
RIMOLI ci dice che esiste un “ipercarsisrno” e che questo è stato condizionato dalla presenza della pirite e gesso, come noto largamente presenti negli ambienti lagunari, quindi tutta la complessa problematica carsica che questo Autore ci ha proposto va comunque attentamente considerata.
Il secondo sedimento di origine anch’essa piuttosto complessa e alquanto misteriosa, è dovuto alla larga presenza di sabbie quarzose, silt argillosi ed argille gialle, con agglomerati sferoidali cementati, chiamati
localmente (Istria), ‘bambole di saldame”. Anche su tali sedimenti molto si è discusso. Tutti gli Autori che si sono occupati dei problemi connessi con le varie fasi del “ciclo carsico”, hanno interpretato la loro presenza nelle grotte come accumuli alluvionali determinati da intense fasi pluviali, ma non sono affatto d’accordo con la datazione dell’evento. Per parte mia cerco di formulare un’altra ipotesi. É universalmente noto che il Pliocene è caratterizzato all’inizio da movimenti trasgressivi del mare in vaste regioni, specialmente mediterranee, alla fine del periodo si ebbe poi una regressione, sicchè nel “bacino mediterraneo” il Pliocene corrisponde ad un completo ciclo sedimentario. Tra i sedimenti caratteristici di questo periodo, in particolare nella sua parte superiore, sono note le cosiddette “sabbie gialle” astiane, di facies nettamente costiera. L’Italia è la terra classica del Pliocene, in quanto, essendo stata in buona parte sommersa dal mare in questo periodo, i depositi marini pliocenici sono sul suo territorio abbondantemente rappresentati. Ora, è estremamente curioso che tutti gli Autori che si sono occupati della geologia del Carso hanno sempre negato la presenza del Pliocene in queste nostre terre, perchè non ne hanno mai trovato delle tracce. Si sa che i terreni carsici un po’ alla volta assorbono tutto ciò che si trova sulle loro superfici, ma si è sempre dimenticato di studiare i fondi delle depressioni carsiche (doline) ed i sedimenti presenti nelle grotte. È altresi noto che vari studiosi, in particolare della ex Jugoslavia, che hanno compiuto ricerche sull’Istria, hanno segnalato la presenza di “terrazzi marini” a quote variabili dai 40 ai 140 m sull’attuale livello del mare. Lo stesso RIMOLI ci avverte che: “Nelle depressioni del suolo comunemente denominate “doline”, sotto un primo strato superficiale di “terra rossa” ritenuta da tempo il residuo insolubile dei calcari, esistono svariati metri di argille brune, gialle, verdi e bianche di origine palustre….”.
Da quanto sopra esposto, non si comprende perché se nel Pliocene vi è stata una vasta trasgressione marina, come mai proprio il nostro Carso non ne è stato interessato? D’altra parte sembra che il RIMOLI abbia trovato delle tracce di spiagge costiere da lui definite però “quaternarie” ad una quota ben precisa nel nostro penepiano carsico, comprovate dalla forma dei ciottoli, da Foraminiferi marini, da placers di minerali pesanti, da argilliti con mud-cracks e rippemark.
Il terzo ed il quarto livello dei depositi di riempimento, ossia le argille e terre rosse, i detriti cementati, le concrezioni calcitiche recenti ed attuali ed infine le terre brune ed i grandi crolli, appartengono sicuramente all’intervallo Pleistocene Olocene e comprendono il complesso sistema di tutte le varie glaciazioni che si sono succedute in questo arco di tempo, ma che sul nostro Carso possiamo tranquillamente considerare come dei periodi pluviali alternati a periodi più secchi, ossia assai meno piovosi.
Fermiamoci per ora a considerare solamente alcuni aspetti globali dei depositi di riempimento di tipo alluvionale rinvenuti in varie situazioni ambientali sul nostro Carso e, per parte mia, posso aggiungere una serie di osservazioni raccolte in oltre quarant’anni:
– DOLINE: i depositi argillosi di riempimento in esse contenuti denotano un’attuale tendenza allo svuotamento. Sui cosiddetti piatti di fondo di quasi tutte le doline del Carso triestino, si osservano degli imbuti di assorbimento, ossia delle zone superficiali in netta fase di depressione, dovuta all’assorbimento delle sottostanti cavità dei materiali argillosi arrivati in surplus nel corso degli eccessi climatici pleistocenici. Va osservato che doline presenti a quote superiori ai 400 m s.l.m., ad esempio quelle che si trovano nell’area del M. Lanaro, mostrano delle profonde strutture di assorbimento nei rispettivi piani argillosi di fondo. Spesso si rinvengono fino a tre ordini di terrazzi che ci indicano delle fasi di più o meno intenso svuotamento. Sempre nell’area del M. Lanaro vi sono delle valli, un tempo fortemente alluvionate da enormi quantità di materiali terroso-argillosi. Attualmente sui fondivalle sono presenti degli imbuti di assorbimento del diametro di alcune decine di metri e profondi circa una decina. La loro forma è simile a quella di una dolina, ma morfologicamente rappresentano un evento diverso, ossia il risultato di un intenso sottoassorbimento dei materiali argillosi da parte di strutture drenanti (cavità carsiche) che nei periodi corrispondenti agli eccessi climatici non erano in grado di assorbire completamente il surplus di detti materiali. Nella fase climatica attuale, avviene invece un richiamo delle sostanze argillose presenti addirittura sulle superfici carsiche.
È stato anche osservato che alle quote “medie” del nostro Carso, ossia attorno ai 250 – 280 m s.l.m. ci sono solamente esempi di imbuti di assorbimento piuttosto localizzati sui piani di fondo delle rispettive doline, qui mancano invece completamente i terrazzi. Alle quote più basse delle superfici carsiche, 50 – 100 m s.l.m., per capirci nella zona di Duino – Aurisina, le doline, anche quelle di grandi dimensioni, non presentano imbuti di assorbimento. Questo fatto differenziale sulla presenza degli imbuti, sta a significare che più ci si allontana dal livello di base carsico del momento, più intensa ovviamente è la fase drenante ad opera delle strutture carsiche ipogee.
– GROTTE, in particolare quelle a galleria, presentano molto spesso tracce di antichi riempimenti, talora obliteranti completamente il sistema delle gallerie. Attualmente in quasi tutte queste grotte la fase assorbente di detti materiali è in netto progresso. Per citare solamente qualche esempio assai classico, viene indicata la Grotta Ercole o Grotta di Gabrovizza, in cui evidenti tracce di limiti stadiali di depositi per lo più sabbiosi, si rinvengono un po’ a tutte le altezze del suo piuttosto ampio sistema di gallerie. Un evidentissimo canale di volta è perfettamente visibile perfino nella grande caverna finale. Ciò sta a significare che malgrado la considerevole altezza di circa 60 m di tale caverna, il riempimento un tempo arrivava fino sulla volta. Un altro grandioso esempio ci viene dato dalla stessa Grotta Gigante in cui tracce di un antico livello sabbioso di riempimento è presente quasi sulla volta di questa immensa cavità. Ma se vogliamo considerare degli esempi di riempimenti totali di enormi sistemi carsici, RADINJA D. (1967) ci illustra con dovizia di particolari il completo alluvionamento della Valle di Vreme (Timavo Superiore) e quindi il probabile pieno intasamento di tutte le immense gallerie delle famose Grotte di San Canziano.
RADINJA ci dice ancora che il fenomeno del sovralluvionamento è di età pleistocenica. L’attuale soglia d’accesso del Timavo nelle Grotte è di 330 m s.l.m. Il livello massimo del più alto terrazzo alluvionale, alla soglia di Divaccia, è posto alle quote 450-460 m s.l.m., quindi più di 120-130 m di dislivello. Ecco con ciò spiegata l’origine dei famosi ciottoli ritrovati dal MARUSSI in un relitto di cavità nella zona. In questa area il RADINJA ci segnala ancora la presenza di ben 5 terrazzi alluvionali, che con tutta probabilità rappresentano delle fasi stadiali di questi enormi riempimenti alluvionali. Da altri studi apprendiamo che anche il grandioso sistema delle Grotte di Postumia è stato, forse più volte, completamente riempito da materiali alluvionali, in larga parte sabbiosi. Anche qui nel bacino della Piuca Superiore sono stati trovati i relitti di ben 4 livelli di terrazzi fluviali.
Trascurando di trattare singolarmente tutti i tipi di depositi che hanno in gran parte caratterizzato l’evoluzione delle nostre grotte, passiamo infine ad esaminare un’altra curiosità o meglio singolarità di tali depositi, ossia i grandi crolli. Non vi è grotta del Carso triestino e di quello cosiddetto “Classico” in generale, (ma anche di altre regioni), in cui non siano presenti tracce di imponenti rovesciamenti di colonne, di grandi stalagmiti, di crolli di banchi di concrezione calcitica, di enormi massi rocciosi, facenti parte di volte di caverne e gallerie e talora anche di tratti di pareti. Curiosamente questo importante argomento morfologico che dà un’impronta fondamentale al cosiddetto paesaggio carsico, in particolare a quello ipogeo, è stato trattato solo di sfuggita da tutti gli Autori che si sono occupati di “cose carsiche”. Eppure questi grandi crolli rappresentano un evento assai particolare che, con molta probabilità, geneticamente non ha alcuna relazione con l’evoluzione del carsismo. L’origine potrebbe essere esterna e riguardare anche altre aree non interessate dai fenomeni carsici.
F. FORTI (1989), trattò questo argomento in un lavoro compiuto in memoria del collega Rado GOSPODARIC, con il quale nelle parti più interne del complesso carsico delle Grotte di Postumia ebbe modo di confrontare idee ed ipotesi. Significativi progressi non sono stati ancora fatti, poichè da parte di vari Autori vi sono molti dubbi sulle cosiddette “cause scatenanti”.
L’Istituto di Ricerche Carsiche di Postumia, proprio tramite RADO GOSPODARIC, condusse una serie di radiodatazioni sulle neostalagmiti, cresciute dopo l’evento crollo. Tutti questi studi ci dicono che il crollo è avvenuto simultaneamente per tutti i casi esaminati, circa 12.000 anni fa. Allo stesso risultato ero comunque giunto dopo lunghi studi ed osservazioni condotte in moltissime grotte, semplicemente considerando la posizione stratigrafica dei rispettivi crolli.
Recentemente anche F. CUCCHI & P. FORTI (1989) hanno eseguito una datazione assoluta su di una stalagmite del Carso triestino (Grotta Gigante) ed il risultato è evidentissimo, ossia che lo speleotema, come è stato definito dagli AA., è caduto tra i 15.000 ed i 12.000 anni a.C. In tutti i casi considerati, risultava dunque assai chiaro che l’evento era avvenuto in epoca reletivamente recente, perchè i crolli poggiavano sempre sui materiali alluvionali postglaciali, o meglio postpluviali. La caratteristica comune di tutti i crolli, sia stalagmitici, sia dei massi rocciosi è quella dell’istantaneità ed enorme intensità dell’evento. Certamente il normale processo carsico dissolutivo non c’entra in alcun modo e le cause vanno sicuramente ricercate al di fuori dell’ambiente. Analogamente, chi percorre le nostre montagne dolomitiche e non solo, avrà potuto facilmente osservare ai piedi dei grandi massicci rocciosi ammassi di enormi blocchi, talora di intere torri dolomitiche. L’età di tali eventi è la stessa, perchè assai spesso si può notare che detti materiali poggiano su morene e materiali fluvioglaciali.
Finora nessuno è stato in grado di dare una ragione a questo evento colossale per intensità e diffusione areale. Le cause ipotizzate sono due:
– Un evento sismico di particolare intensità e violenza;
– Il risultato dell’impatto contro la nostra Terra di un grosso meteorite o di un asteroide.
Ovviamente queste sono solamente delle ipotesi, il tema è affascinante ed aperto a tutte le possibilità di soluzione.
Quanto sopra illustrato non è che un saggio di quanto in realtà è stato osservato ma forse ancora assai poco studiato. Bisogna sfruttare di più l’arte di saper vedere ossia quella facoltà, tutta umana, di cogliere con lo sguardo e subito dopo con il pensiero i segni che madre natura ci ha abbondantemente lasciato nelle nostre grotte. Purtroppo, il più delle volte tali segni non li vediamo o, se li vediamo, non siamo capaci di dare un significato, perchè in quel momento siamo presi da altri problemi, chiamiamoli esplorativi per cui la nostra attenzione è sempre attratta verso l’immediato.
Le grotte conservano ancora tante e tante tracce di trascorse fasi evolutive del nostro Carso, bisogna pertanto che lo speleologo o più semplicemente l’esploratore delle grotte, le sappia con pazienza scoprire, vedere ed interpretare. Il contributo che si può dare al progresso delle scienze carsiche, molto spesso lo si può trovare anche nella apparentemente più semplice e banale cavità.
Rivolgo pertanto un invito a tutti coloro che “vanno per grotte” a prestare quella minima attenzione ai problemi apparentemente nascosti che possono portare un contributo alla risoluzione degli ancora numerosi quesiti che le nostre grotte gelosamente conservano.
Fabio Forti
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