I riempimenti delle grotte

GLI STUDI SUI RIEMPIMENTI FISSI E MOBILI DELLE GROTTE

Pubblicato sul n. 27 e 28 di PROGRESSIONE – Anno 1992-93

Premessa

Nel lavoro vengono indicati solamente alcuni dei tanti argomenti che riguardano le grotte e che rivestono un grande interesse dal punto di vista geomorfologico.
Si tratta dei cosiddetti depositi di riem­pimento, che generalmente diminuiscono fortemente la possibilità esplorativa delle cavità da parte dell’uomo. Ciò porta ad una limitazione nella valutazione della struttura della cavità stessa e, il più delle volte, ne impedisce perfino la ricostruzione delle va­rie fasi, in particolare di quelle legate ai momenti iniziali del fenomeno carsico che hanno dato inizio alla evoluzione delle grot­te stesse.
A causa di detti depositi, è altresì noto, che la parte esplorabile di una qualsiasi ca­vità è minima rispetto al suo reale sviluppo. La stragrande maggioranza dei vuoti carsi­ci è attualmente riempito da materiali fissi e mobili, (blocchi di frana, ciottoli, sabbie, ar­gille, concrezioni, ecc. più o meno cemen­tati), i cui spessori sono molto spesso igno­ti. Il giudizio sulla genesi ed evoluzione delle cavità, viene così fortemente limitato ed an­che influenzato dalla natura di questi mate­riali obliteranti delle morfologie strutturali della cavità.
Molti Autori, fin dagli inizi degli studi car­sici, si sono avventurati nello studio di tali sedimenti e le considerazioni che ne sono scaturite, non sempre hanno portato chia­rezza nei rapporti temporali tra la struttura della grotta e le varie fasi evolutive dei de­positi di riempimento.
Il lavoro vuole portare anche un contri­buto alle valutazioni che devono venir fatte su tali riempimenti e di dare così la possibi­lità all’esploratore di fornire nuovi elementi conoscitivi sulla genesi, evoluzione, modifi­cazione, di questi depositi, alla luce anche delle variazioni climatiche che hanno forte­mente interessato le varie fasi dello sviluppo delle grotte in una determinata area car­sica.
Va anche ricordato che la successione temporale di tutti i vari tipi di depositi di riempimento non è sempre ben chiara. Vi possono coesistere anche delle fasi alterne di deposito e di successivo svuotamento, più volte ripetute. Tutto ciò può essere an­che avvenuto in un momento carsico di gran lunga posteriore alla fase genetica della ca­vità ed i vari depositi e le loro fasi possono semplicemente costituire i momenti di ma­turazione e di senilità dell’evento “grotta”. Gli schizzi I. e II, illustrano il tipo a), riempimento completo; lo schizzo III. mostra che in caso di parziale riempimento con materiale cementato, il termine vacuo viene interpretato nel senso più estensivo. Dalla successione degli schizzi risulta logicamente che il termine grotta è da usare anche per il tipo b), IV. schizzo (riempimento completo). (da Trimmel. Rassegna Speleologica Italiana, 1963)

Sezione trasversale del riempimento (messo in luce dagli sbancamenti della cava) presente nel solco antistante l’ingresso della caverna Pocala presso Aurisina. Si notino i principali tipi di sedimenti: a – argille o terre rosse; b, c – argille e sabbie silicee gialle concrezionate al fondo, d, e, f, g – banchi calcitico-argillosi rossastri e calcitico sabbiosi giallastri (da Andreolotti: Atti e Memorie 1965)

Analisi degli studi

Molti sono gli Autori di “cose carsiche” che si sono interessati dei sedimenti pre­senti nelle grotte e, per la parte di indagine conoscitiva che ci interessa, tratteremo so­lamente di alcuni di questi Autori che han­no evidenziato con maggior precisione l’argomento. Forse fu proprio G. KYRLE (1923) a considerare i riempimenti delle grotte come una vera e propria fase del ciclo spe­leogenetico. Infatti divide la “vita” delle grotte in quattro fasi:
– Formazione di cavità – Ampliamento – Riempimento (Raumerfullung) – Decaden­za.
W. MAUCCI (1951-52) ed anche in altri lavori successivi, imposta la sua famosa “ipotesi dell’erosione inversa”, proprio in ba­se ad una critica sui lavori del KYRLE, ma sorvolando completamente l’importanza dei sedimenti nei vari momenti della storia di una grotta.
Curiosamente, una decina d’anni prima, fu un’altro Autore “triestino”, A. MARUSSI (1941), a considerare invece i depositi di riempimento per formulare addirittura un’ipotesi speleogenetica, compiendo però un errore temporale, abbastanza grossolano. Il MARUSSI infatti basò la sua “teoria” sul rinvenimento nei pressi delle Grotte di S. Canziano (Slovenia), del relitto di una ca­vità riempita di ciottoli arenacei e calcarei, definiti o meglio datati dall’Autore come pa­leofluviali, legati cioè alle fasi iniziali del car­sismo del Carso Classico. Molti anni dopo, S. BELLONI e G. OROMBELLI (1972), su suggerimento del MARUSSI indagarono su tale tipo di depositi, senza portare però al­cun contributo pratico, se si esclude una classificazione cromatico-dimensionale pri­va di un interesse pratico.
H. TRIMMEL (1960), tradotto dal VIANEL­LO (1963), considera “il riempimento natura­le delle cavità, che in qualche fase della evoluzione delle grotte ha uno sviluppo no­tevole, pone alcuni punti fermi sull’età delle grotte”. Il TRIMMEL seguendo il concetto di cavità o meglio di “vuoto”, nel caso di riem­pimento, divide questi “depositi” in due ca­tegorie: fissi e mobili. Tra quelli “fissi”, un posto quasi assoluto nelle grotte è dato dal concrezionamento calcitico, che talvolta può occupare completamento il “vacuo”, cioè lo spazio vuoto nella roccia dovuto alla disso­luzione carsica. Per quanto riguarda i sedi­menti mobili, vanno considerati tutti gli altri tipi di materiali “non cementati”. Un’altra os­servazione, assai interessante del TRIMMEL è: “il riempimento delle cavità può aver luo­go in ogni tempo e non soltanto in di­pendenza dello sviluppo paleoclimatico o regionale, ma anche e per una notevole quantità delle condizioni locali”. Non è che i depositi di riempimento delle grotte non fos­sero conosciuti e studiati, ma non in quanto tali. Vennero sempre e solamente conside­rati quali “sedi” di ritrovamenti più interes­santi, ossia dei reperti paleontologici e pa­letnologici, che la maggior parte delle cosiddette “grotte a galleria” conserva. E’ così che molto spesso, se un determinato deposito non conteneva alcunchè di inte­ressante dal punto di vista archeologico, veniva considerato “sterile”.
Ma è stato un’al­tro triestino, S. ANDREOLOTTI (1965, 1966, 1970), uno studioso di estrazione paletno­logica che, per la prima volta, propose una classificazione sistematica dei depositi di riempimento del Carso, inquadrando anche sulla base degli eventi deposizionali, una successione cronologica, teorica ma abba­stanza concreta, sull’andamento dell’attua­le “Ciclo carsico”. L’Autore, ha cercato di stabilire, in riferimento alle numerose osservazioni effettuate sul terreno, nelle grotte, nelle doline, nei “relitti di cavità”, ecc., i tipi di riempimenti più comuni, presenti sul Carso Triestino e soprattutto ha cercato di stabilire la loro successione stratigrafica Nella maggior parte dei casi si tratta di de­positi presenti nelle ‘grotte a galleria’, in cui sono stati rinvenuti i riempimenti più pro­fondi costituiti da potenti depositi stalagmitici, meglio definibili come “banchi di con­crezione calcitica” sicuramente di origine molto antica (Pliocene?). A questi seguono dei depositi sabbiosi ed argillosi giallastri, simili alle molasse plioceniche del bacino danubiano. In tali sedimenti, spesso sono stati trovati notevoli accumuli di ciottoli are­nacei e calcarei, talora cementati, di indub­bia origine fluviale.
Si tratta di quei “depo­siti ciottolosi” definiti dal MARUSSI paleofluviali, che come si vede tali non sono, perchè chiaramente sovrapposti ad altri de­positi, i crostoni stalagmitici. E’ evidente che questi ciottoli rappresentano uno o più eventi pluviali succedutisi sul Carso, in un’epoca successiva, forse di alcuni milioni di anni, a quei depositi paleofluviali che comunque non sono mai stati trovati. Del resto, C. D’AMBROSI (1963), chiarì che l’assenza di materiali di origine paleofluviale sulle attuali superfici carsiche è dovuta al fatto che le antiche superfici mioceniche e plioceniche sulle quali scorrevano le acque appartenenti alla fase del carsismo iniziale, sarebbero state di parecchie centinaia di metri al di sopra dell’attuale superficie carsica.
E’ sta­to infatti ampiamente dimostrato in nume­rosi lavori di F. FORTI ed in particolare in due studi prodotti in collaborazione con F. CUCCHI, S. STEFANINI & F. ULCIGRAI (1985), che la consumazione media delle rocce carbonatiche del Carso Triestino nel­le attuali condizioni climatiche è pari a 0,027 mm/anno. Questo valore significa che in soli 10 MA l’abbassamento medio delle superfi­ci del nostro Carso è stata di 270 m, imma­giniamoci ora dove possono essere finite le grotte ed i depositi paleofluviali, entrambi completamente cancellati!
Continuando nella classificazione, alle sabbie, argille gialle e ciottoli, seguono i depositi di argille e “terre rosse”, ac­compagnati spesso da brecce e da un concrezionamento calcitico. Infine ci sono i depositi più recenti ed attuali, terre rosse e brune, più o meno ricchi di sostanza orga­nica, nonchè cumuli detritici (grize carsiche) sciolte e cementate. In quest’ultima succes­sione stratigrafica dei depositi di riempimen­to delle grotte del Carso, sono presenti i grandi crolli, sia di massi rocciosi delle vol­te e pareti delle gallerie, sia delle stalagmiti e di interi “cieli” stalattitici.
F. FORTI (1974, 1981) ed in vari altri lavori, trattò anche diffusamente dei depositi di riempimento, ma con un occhio rivolto in particolare, al problema dell’evoluzione geo­morfologica ed idrogeologica del nostro ter­ritorio.

I RIEMPIMENTI FISSI E MOBILI DELLE GROTTE

Vengono di seguito trattati solamente alcuni dei tanti argomenti che costituiscono la base per una valutazione, diversa dagli schemi consueti e più consona per lo stu­dio dell’evoluzione del processo del Carso e delle nostre grotte. Iniziando dai depositi cosiddetti di fondo, ossia dai grandi banchi di concrezione calcitica, noti anche con il nome industriale di alabastro calcareo (sta­lattite gialla e rossa), presenti anche in af­fioramento, a causa della completa demo­lizione o meglio dissoluzione della grotta a galleria in cui si erano depositati. A titolo di esempio vanno ricordati i banchi di concre­zione agli ingressi delle grotte: Ercole, Pocala, Azzurra di Samatorza, Caterina. Sono stati sempre definiti come concrezione cal­citica deposizionale analoga geneticamen­te, alle attuali concrezioni di colate calciti­che e stalagmitiche. Ma da un’attenta osservazione risulta che questi banchi zo­nati giallo-rossastri sono fortemente inqui­nati da sostanze argilloso-siltose e quindi assai diversi. Sono stati interpretati come il risultato di una “fase climatica” caldo-umi­da, che come noto favorisce il concreziona­mento calcitico. Recentemente a RIMOLI (1982), ci ha fornito una versione genetica originale, sebbene un po’ problematica. Af­ferma che il carbonato di calcio di detti se­dimenti, stupendamente zonato, si è formato per “precipitazione del Ca e della CO2 in eccesso in una cavità con livello freatico sospeso. L’eccesso di Ca e CO2 proveniva dall’attacco del calcare sovrastante da par­te di acque di percolazione ricche di H2SO4. Queste ultime derivavano a loro volta da processi di ossidoriduzione dei minerali delle argille’. Questo “concetto” di non facile com­prensione, viene giustificato dall’Autore, con una nuova proposta carsogenetica che effettivamente contiene delle “verità inedite”. RIMOLI concepisce dopo una fase di sedi­mentazione delle rocce carbonatiche che costituiscono l’ossatura del nostro Carso, un’altra di orogenesi e di peneplanizzazio­ne. Sollevamento dunque del blocco carbonatico, ma con forte spianamento operato dalle acque marine. Successivamente si sa­rebbe impostata una fase di tipo lagunare con larga deposizione di argille palustri con abbondante presenza di pirite e gesso pri­mari. Nella fase successiva, con il solleva­mento del blocco roccioso e quindi nella vera e propria “fase emersiva”, si è impo­stato il carsismo.
Questo è stato largamen­te favorito dai fenomeni di ossidoriduzione, dovuti appunto alla pirite e gesso che libe­rano una rilevante percentuale di 1-12504 innescando un processo di corrosione chi­mica accelerata sui sottostanti calcari. Se­condo il RIMOLI “la corrosione del calcare da parte delle acque di percolazione arric­chite in H2SO4 libera a sua volta una note­vole quantità di CO2 e di Ca; la CO, acce­lera ulteriormente la corrosione mentre una parte del Ca si combina con SO4 per for­mare gesso secondario che resterà dispo­nibile per una ulteriore produzione di H2SO4. Inoltre la percentuale di Ca e CO2 in ecces­so può combinarsi nuovamente in zona frea­tica, od in altre condizioni di pressione e di temperatura (quali i vuoti originati dal pro­cesso), per formare un precipitato di CaCO3 del tutto simile alla stalagmite, se non per le strutture e la genesi che sono differenti, talora di dimensioni rilevanti al punto da es­sere oggetto di estrazione a scopo orna­mentale”. Comprendiamo bene che quanto affermato dal RIMOLI non è di facile comprensione, però dobbiamo fare uno sfor­zo per uscire una volta per tutte dai luoghi comuni, dalle teorie “spiega-tutto” ma che, in effetti lasciano completamente in sospe­so i principali teoremi del carsismo.
RIMOLI ci dice che esiste un “ipercarsisrno” e che questo è stato condizionato dalla presenza della pirite e gesso, come noto largamente presenti negli ambienti lagunari, quindi tut­ta la complessa problematica carsica che questo Autore ci ha proposto va comunque attentamente considerata.
Il secondo sedimento di origine anch’es­sa piuttosto complessa e alquanto misterio­sa, è dovuto alla larga presenza di sabbie quarzose, silt argillosi ed argille gialle, con agglomerati sferoidali cementati, chiamati
localmente (Istria), ‘bambole di saldame”. Anche su tali sedimenti molto si è discus­so. Tutti gli Autori che si sono occupati dei problemi connessi con le varie fasi del “ci­clo carsico”, hanno interpretato la loro pre­senza nelle grotte come accumuli alluvio­nali determinati da intense fasi pluviali, ma non sono affatto d’accordo con la datazio­ne dell’evento. Per parte mia cerco di formulare un’altra ipotesi. É universalmente noto che il Pliocene è caratterizzato all’ini­zio da movimenti trasgressivi del mare in vaste regioni, specialmente mediterranee, alla fine del periodo si ebbe poi una regres­sione, sicchè nel “bacino mediterraneo” il Pliocene corrisponde ad un completo ciclo sedimentario. Tra i sedimenti caratteristici di questo periodo, in particolare nella sua parte superiore, sono note le cosiddette “sabbie gialle” astiane, di facies nettamen­te costiera. L’Italia è la terra classica del Pliocene, in quanto, essendo stata in buo­na parte sommersa dal mare in questo periodo, i depositi marini pliocenici sono sul suo territorio abbondantemente rappresen­tati. Ora, è estremamente curioso che tutti gli Autori che si sono occupati della geolo­gia del Carso hanno sempre negato la pre­senza del Pliocene in queste nostre terre, perchè non ne hanno mai trovato delle trac­ce. Si sa che i terreni carsici un po’ alla volta assorbono tutto ciò che si trova sulle loro superfici, ma si è sempre dimenticato di studiare i fondi delle depressioni carsi­che (doline) ed i sedimenti presenti nelle grotte. È altresi noto che vari studiosi, in particolare della ex Jugoslavia, che hanno compiuto ricerche sull’Istria, hanno segna­lato la presenza di “terrazzi marini” a quote variabili dai 40 ai 140 m sull’attuale livello del mare. Lo stesso RIMOLI ci avverte che: “Nelle depressioni del suolo comunemente denominate “doline”, sotto un primo strato superficiale di “terra rossa” ritenuta da tem­po il residuo insolubile dei calcari, esistono svariati metri di argille brune, gialle, verdi e bianche di origine palustre….”.
Da quanto sopra esposto, non si com­prende perché se nel Pliocene vi è stata una vasta trasgressione marina, come mai proprio il nostro Carso non ne è stato inte­ressato? D’altra parte sembra che il RIMOLI abbia trovato delle tracce di spiagge costie­re da lui definite però “quaternarie” ad una quota ben precisa nel nostro penepiano car­sico, comprovate dalla forma dei ciottoli, da Foraminiferi marini, da placers di minerali pesanti, da argilliti con mud-cracks e rippe­mark.
Il terzo ed il quarto livello dei depositi di riempimento, ossia le argille e terre rosse, i detriti cementati, le concrezioni calcitiche recenti ed attuali ed infine le terre brune ed i grandi crolli, appartengono sicuramente al­l’intervallo Pleistocene Olocene e compren­dono il complesso sistema di tutte le varie glaciazioni che si sono succedute in questo arco di tempo, ma che sul nostro Carso possiamo tranquillamente considerare come dei periodi pluviali alternati a periodi più sec­chi, ossia assai meno piovosi.
Fermiamoci per ora a considerare sola­mente alcuni aspetti globali dei depositi di riempimento di tipo alluvionale rinvenuti in varie situazioni ambientali sul nostro Carso e, per parte mia, posso aggiungere una se­rie di osservazioni raccolte in oltre qua­rant’anni:
– DOLINE: i depositi argillosi di riempi­mento in esse contenuti denotano un’attua­le tendenza allo svuotamento. Sui cosid­detti piatti di fondo di quasi tutte le doline del Carso triestino, si osservano degli im­buti di assorbimento, ossia delle zone su­perficiali in netta fase di depressione, do­vuta all’assorbimento delle sottostanti cavità dei materiali argillosi arrivati in surplus nel corso degli eccessi climatici pleistocenici. Va osservato che doline presenti a quote superiori ai 400 m s.l.m., ad esempio quel­le che si trovano nell’area del M. Lanaro, mostrano delle profonde strutture di assor­bimento nei rispettivi piani argillosi di fon­do. Spesso si rinvengono fino a tre ordini di terrazzi che ci indicano delle fasi di più o meno intenso svuotamento. Sempre nel­l’area del M. Lanaro vi sono delle valli, un tempo fortemente alluvionate da enormi quantità di materiali terroso-argillosi. Attual­mente sui fondivalle sono presenti degli im­buti di assorbimento del diametro di alcune decine di metri e profondi circa una decina. La loro forma è simile a quella di una do­lina, ma morfologicamente rappresentano un evento diverso, ossia il risultato di un inten­so sottoassorbimento dei materiali argillosi da parte di strutture drenanti (cavità carsiche) che nei periodi corrispondenti agli ec­cessi climatici non erano in grado di assor­bire completamente il surplus di detti materiali. Nella fase climatica attuale, av­viene invece un richiamo delle sostanze ar­gillose presenti addirittura sulle superfici carsiche.
È stato anche osservato che alle quote “medie” del nostro Carso, ossia at­torno ai 250 – 280 m s.l.m. ci sono sola­mente esempi di imbuti di assorbimento piut­tosto localizzati sui piani di fondo delle rispettive doline, qui mancano invece completamente i terrazzi. Alle quote più bas­se delle superfici carsiche, 50 – 100 m s.l.m., per capirci nella zona di Duino – Aurisina, le doline, anche quelle di grandi dimensioni, non presentano imbuti di assorbimento. Questo fatto differenziale sulla presenza de­gli imbuti, sta a significare che più ci si al­lontana dal livello di base carsico del mo­mento, più intensa ovviamente è la fase drenante ad opera delle strutture carsiche ipogee.
– GROTTE, in particolare quelle a galle­ria, presentano molto spesso tracce di an­tichi riempimenti, talora obliteranti completa­mente il sistema delle gallerie. Attualmente in quasi tutte queste grotte la fase assor­bente di detti materiali è in netto progresso. Per citare solamente qualche esempio as­sai classico, viene indicata la Grotta Ercole o Grotta di Gabrovizza, in cui evidenti trac­ce di limiti stadiali di depositi per lo più sab­biosi, si rinvengono un po’ a tutte le altezze del suo piuttosto ampio sistema di gallerie. Un evidentissimo canale di volta è perfetta­mente visibile perfino nella grande caverna finale. Ciò sta a significare che malgrado la considerevole altezza di circa 60 m di tale caverna, il riempimento un tempo arrivava fino sulla volta. Un altro grandioso esempio ci viene dato dalla stessa Grotta Gigante in cui tracce di un antico livello sabbioso di riempimento è presente quasi sulla volta di questa immensa cavità. Ma se vogliamo considerare degli esempi di riempimenti totali di enormi sistemi carsici, RADINJA D. (1967) ci illustra con dovizia di particolari il completo alluvionamento della Valle di Vre­me (Timavo Superiore) e quindi il probabile pieno intasamento di tutte le immense gal­lerie delle famose Grotte di San Canziano.
RADINJA ci dice ancora che il fenomeno del sovralluvionamento è di età pleistoceni­ca. L’attuale soglia d’accesso del Timavo nelle Grotte è di 330 m s.l.m. Il livello massimo del più alto terrazzo alluvionale, alla soglia di Divaccia, è posto alle quote 450-460 m s.l.m., quindi più di 120-130 m di dislivello. Ecco con ciò spiegata l’origine dei famosi ciottoli ritrovati dal MARUSSI in un relitto di cavità nella zona. In questa area il RADINJA ci segnala ancora la presenza di ben 5 terrazzi alluvionali, che con tutta pro­babilità rappresentano delle fasi stadiali di questi enormi riempimenti alluvionali. Da altri studi apprendiamo che anche il grandioso sistema delle Grotte di Postumia è stato, forse più volte, completamente riempito da materiali alluvionali, in larga parte sabbiosi. Anche qui nel bacino della Piuca Superiore sono stati trovati i relitti di ben 4 livelli di terrazzi fluviali.
Trascurando di trattare singolarmente tutti i tipi di depositi che hanno in gran par­te caratterizzato l’evoluzione delle nostre grotte, passiamo infine ad esaminare un’al­tra curiosità o meglio singolarità di tali de­positi, ossia i grandi crolli. Non vi è grotta del Carso triestino e di quello cosiddetto “Classico” in generale, (ma anche di altre regioni), in cui non siano presenti tracce di imponenti rovesciamenti di colonne, di gran­di stalagmiti, di crolli di banchi di concrezio­ne calcitica, di enormi massi rocciosi, fa­centi parte di volte di caverne e gallerie e talora anche di tratti di pareti. Curiosamen­te questo importante argomento morfologi­co che dà un’impronta fondamentale al cosiddetto paesaggio carsico, in particolare a quello ipogeo, è stato trattato solo di sfug­gita da tutti gli Autori che si sono occupati di “cose carsiche”. Eppure questi grandi crol­li rappresentano un evento assai particola­re che, con molta probabilità, geneticamen­te non ha alcuna relazione con l’evoluzione del carsismo. L’origine potrebbe essere e­sterna e riguardare anche altre aree non interessate dai fenomeni carsici.
F. FORTI (1989), trattò questo argomento in un lavo­ro compiuto in memoria del collega Rado GOSPODARIC, con il quale nelle parti più interne del complesso carsico delle Grotte di Postumia ebbe modo di confrontare idee ed ipotesi. Significativi progressi non sono stati ancora fatti, poichè da parte di vari Autori vi sono molti dubbi sulle cosiddette “cause scatenanti”.
L’Istituto di Ricerche Carsiche di Postu­mia, proprio tramite RADO GOSPODARIC, condusse una serie di radiodatazioni sulle neostalagmiti, cresciute dopo l’evento crol­lo. Tutti questi studi ci dicono che il crollo è avvenuto simultaneamente per tutti i casi esaminati, circa 12.000 anni fa. Allo stesso risultato ero comunque giunto dopo lunghi studi ed osservazioni condotte in moltissi­me grotte, semplicemente considerando la posizione stratigrafica dei rispettivi crolli.
Recentemente anche F. CUCCHI & P. FOR­TI (1989) hanno eseguito una datazione assoluta su di una stalagmite del Carso triestino (Grotta Gigante) ed il risultato è evidentissimo, ossia che lo speleotema, come è stato definito dagli AA., è caduto tra i 15.000 ed i 12.000 anni a.C. In tutti i casi considerati, risultava dunque assai chiaro che l’evento era avvenuto in epoca reletivamente recente, perchè i crolli pog­giavano sempre sui materiali alluvionali po­stglaciali, o meglio postpluviali. La caratte­ristica comune di tutti i crolli, sia stalagmitici, sia dei massi rocciosi è quella dell’istanta­neità ed enorme intensità dell’evento. Cer­tamente il normale processo carsico disso­lutivo non c’entra in alcun modo e le cause vanno sicuramente ricercate al di fuori dell’ambiente. Analogamente, chi percorre le nostre montagne dolomitiche e non solo, avrà potuto facilmente osservare ai piedi dei grandi massicci rocciosi ammassi di enormi blocchi, talora di intere torri dolomiti­che. L’età di tali eventi è la stessa, perchè assai spesso si può notare che detti mate­riali poggiano su morene e materiali fluvio­glaciali.
Finora nessuno è stato in grado di dare una ragione a questo evento colossale per intensità e diffusione areale. Le cause ipo­tizzate sono due:
– Un evento sismico di particolare inten­sità e violenza;
– Il risultato dell’impatto contro la nostra Terra di un grosso meteorite o di un aste­roide.
Ovviamente queste sono solamente del­le ipotesi, il tema è affascinante ed aperto a tutte le possibilità di soluzione.
Quanto sopra illustrato non è che un saggio di quanto in realtà è stato osservato ma forse ancora assai poco studiato. Biso­gna sfruttare di più l’arte di saper vedere ossia quella facoltà, tutta umana, di coglie­re con lo sguardo e subito dopo con il pen­siero i segni che madre natura ci ha abbon­dantemente lasciato nelle nostre grotte. Purtroppo, il più delle volte tali segni non li vediamo o, se li vediamo, non siamo capa­ci di dare un significato, perchè in quel mo­mento siamo presi da altri problemi, chia­miamoli esplorativi per cui la nostra attenzione è sempre attratta verso l’immediato.
Le grotte conservano ancora tante e tan­te tracce di trascorse fasi evolutive del no­stro Carso, bisogna pertanto che lo speleo­logo o più semplicemente l’esploratore delle grotte, le sappia con pazienza scoprire, ve­dere ed interpretare. Il contributo che si può dare al progresso delle scienze carsiche, molto spesso lo si può trovare anche nella apparentemente più semplice e banale ca­vità.
Rivolgo pertanto un invito a tutti coloro che “vanno per grotte” a prestare quella mi­nima attenzione ai problemi apparentemente nascosti che possono portare un contributo alla risoluzione degli ancora numerosi que­siti che le nostre grotte gelosamente con­servano.
                                                                                                             Fabio Forti

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