Rio Sao Vicente

BRASILE 1989 – COMPLESSO DEL RIO SAN VICENTE

Pubblicato sul n. 23 di PROGRESSIONE – Anno 1990
Un fiume, non un ruscello, è «Rio Sao Vicente» che percorre l’omonimo comples­so carsico, nello Stato do Gojas, 500 chilo­metri a nord-est di Brasilia.
Abituati da sempre all’enfasi tanto a­mata dagli speleologi, che assegnano i no­mi più esagerati all’oggetto delle loro im­prese per cui, solitamente, il ARamo del fiu­me» è percorso da un rigagnolo di pochi litri al secondo, siamo rimasti sorpresi dalle dimensioni del Rio S. Vicente, Le notizie erano corrette: più di sette metri cubi al secondo in massima magra. Per noi è stato come ritornare alle esplorazioni delle gran­di grotte del Carso e della Carniola.
In Brasile, la speleologia, per quei po­chi fortunati che la praticano, è nella sua fase più originale, quella puramente esplo­rativa. Da noi, l’esaurirsi delle cavità da es­plorare ha prodotto una modificazione nel modo di praticare e di intendere la speleo­logia; in Europa, si parla di spit, di imbraghi, di tempi impiegati a percorrere un pozzo o un meandro. Per fare il solito parallelo con la montagna, gli speleologi sono diventati rocciatori, a volte addirittura sassisti, men­tre un tempo erano alpinisti. In Brasile la speleologia è, come un tempo, soprattutto geografia. I materiali e le tecniche esplora­tive sono da inventare o scoprire e, comun­que, sono secondari, dei semplici mezzi, mai un fine.
Non per questo una spedizione quale è stata la nostra, in collaborazione con il Clu­be Alpino Paulista di San Paolo, impostata con i tempi e i modi propri agli speleologi brasiliani, è risultata per noi priva di diffi­coltà, tutt’altro.
L’ambiente delle grotte è talmente di­verso da quello per noi tradizionale da ridi­mensionare qualsiasi sciocco senso di su­periorità che ci possa venire dalla nostra miglior conoscenza delle moderne tecni­che esplorative. In Europa le grotte sono povere di vita, fredde come sono ed è possi­bile incontrare animali di una certa taglia soltanto in prossimità degli ingressi. In Bra­sile, nelle grotte S. Vicente I e Il c’erano tracce di felini e cervi fino a migliaia di metri dall’ingresso. Nei frequenti attraversamenti del fiume, uno dei rischi più grossi era l’ap­prodo sull’altra sponda, spesso presidiata da ragni enormi o serpenti Jararaca, tra i più velenosi e aggressivi. Per tutto ciò, la collaborazione tra l’esperienza dei Brasilia­ni, veri scorridori della giungla e la nostra, è risultata ottima. Noi attrezzavamo i pozzi e le traversate in roccia, loro si occupavano dei fattori logistici, dell’orientamento e de­gli animali selvatici.
L’idea della spedizione è nata da Fabio Covacich, in Brasile da diversi anni. In feb­braio eravamo in nove in lista di partenza poi, come spesso accade, siamo rimasti in tre: Tullio Dagnello, Gabriele Ritossa ed io. Incidenti, malattie, Gorbacev e il maledetto Lavoro ci hanno ridotto ad un vecchio (io) e due bambini. Speriamo di essere meglio o, perlomeno, più rappresentati nei prossimi anni.
L’esplorazione principale ha toccato la Lapa da Ponte da Craibinna”, un pozzo che raggiunge il fiume S. Vicente qualche centinaia di metri prima della sua uscita in una voragine in cui, dopo circa 500 metri di percorso a cielo aperto, si inabissa nuova­mente nella grotta S. Vicente II. La grotta era nota e rilevata per un chilometro e mez­zo circa. Quest’anno abbiamo esplorato e topografato altri 4 chilometri, parte risalen­do il fiume in direzione della grotta S. Viconte I, la cui parte esplorata dista, a questo punto, due chilometri in linea d’aria. La pro­gressione è quasi sempre agevole ma peri­colosa, per la forte corrente, soprattutto quando il letto del fiume si restringe. Uni­che difficoltà i guadi e il superamento di piccole rapide, in arrampicata su pareti di sabbia e ghiaietto mal cementati. La tempe­ratura dell’acqua, limpida e potabile e dell’aria è di circa 23 gradi, L’acqua abbonda di pesci bianchi, alcuni sui 40-50 centimetri di lunghezza. Ci siamo fermati, per esauri­mento di inerzia, davanti ad un lago, ai piedi di una cascata di circa due metri, se ho visto bene. Siamo rimasti in tutto due settimane nella zona. Dopo la Craibinha abbiamo cer­cato, senza successo, il collegamento tra quest’ultima e la grotta Couro d’Anta, che si apre a pochi metri da dove l’acqua del fiu­me S. Vicente sbuca, tra massi, nella vora­gine della grotta S. Vicente II. La grotta Couro d’Anta, dopo un tratto di galleria a sezione regolare e con sabbia sul fondo, cambia aspetto e diventa un labirinto for­mato da strati di roccia crollati dalla volta, sovrapposti, con gallerie d’interstrato bas­se e larghe, l’una sopra l’altra. Abbiamo esplorato e rilevato circa duecento metri di cunicoli senza però trovare il passaggio.
Gli ultimi giorni li abbiamo passati in­vece sull’altopiano a cercare ed esplorare pozzi. Ce ne sono moltissimi. Tullio e Ga­briele ne hanno esplorato e rilevato cinque. Altri sono stati soltanto visti o esplorati par­zialmente. Alcuni arrivano quasi certamen­te al fiume, poichè ne esce una forte cor­rente d’aria. Il problema sull’altopiano è l’o­rientamento. Posizionare le grotte è difficilissimo in quanto mancano carte ade­guate e non ci sono riferimenti visibili. Il terreno è piatto e la vegetazione è fitta. Solo d’inverno è possibile muoversi su questo terreno in quanto l’estate piove e la vegeta­zione è composta prevalentemente di lati­foglie che impediscono la vista. D’inverno invece gli alberi sono spogli per la siccità. Curioso è il fatto che la popolazione locale chiama estate l’inverno, in quanto è questo il periodo in cui il tempo è stabilmente bel­ lo. Naturalmente mi riferisco alle stagioni australi.
Dopo una discesa nella grotta S. Vi­cente I, siamo andati a San Paolo per poi spostarci nella valle del rio Ribeira, la zona speleologicamente più nota del Brasile. La pioggia, fuori stagione, ci ha praticamente bloccati. Bellissimo il paesaggio, con giun­gla tropicale e un carsismo attivo che ha prodotto grotte meravigliose per concre­zioni e colori.
Partecipanti: Peter Slavez, Luiz Ber­nardino, Roberto Grandi, Marcello, Juan Foster, Fausto, del Clube Alpino Paulista e Tullio Dagnello, Gabriele Ritossa e il sotto­scritto della CGEB.
                                                                                                           Elio Padovan

 GRUTA DO CRAIBINHA

«Bel el campo base, no podeva durar tanto la pacchia. Bon muli, domani andemo in Caraibinha».
Prepariamo armi e bagagli e partiamo. Cominciamo a camminare costeggiando il fiume, ma la buona volontà non sempre viene premiata.
Per raggiungere la Craibinha dobbia­mo salire sull’altipiano; gli ostacoli non tar­dano ad arrivare, ci aspetta subito una rampa, che purtroppo dovremo ripetere per tutta la durata del campo. Dopo questo, un enorme sciame di api carnivore ci circonda, Elio ed io veniamo attaccati e divorati, solo Tullietto sembra immune, rantolando con­tinuiamo. Ci perdiamo dieci o quindici volte; è difficile muoversi in questo alti­piano, perché anche conoscendo la zona, la vegetazione cambia molto di anno in anno a causa del clima e delle notevoli pre­cipitazioni piovose. Arriviamo comunque all’ingresso. Entriamo subito, senza sapere cosa ci troveremo davanti. Scendiamo nel­la zona verticale della grotta e ci troviamo dinanzi ad una strana parete: si muove! Controlliamo bene e ci accorgiamo che questa parete è totalmente ricoperta da ragni; dopo questa constatazione, muo­viamo molto velocemente le gambe e an­diamo avanti. Ci troviamo poco dopo sul fiume, sì fiume vero, ben 7 mc al secondo. Cominciamo subito a risalirlo, gli ambienti non sono belli ma sicuramente straordi­nari; poche concrezioni, roccia scura e gal­lerie che presentano morfologia del tipo a «pressione», la cui larghezza varia dagli 8 ai 15 metri. preoccupante immaginare cosa succede qui quando il fiume è in piena.
Ben presto arriviamo al «by pass», parola che suscita molto timore dalle no­stre parti, ma io e Tullietto ci guardiamo e pensiamo che il nostro timoresia infondato vista l’enormità della grotta. «Pensavimo ben, inveze» era uno strettissimo meandro lungo 20 metri. Bazzeccole! Il problema era che con noi avevamo i nostri stupendi zaini Karrimor stracolmi; così il tutto si tramutò in un lungo e severo meandro.
Sorpassato quest’ostacolo, fu poca co­sa arrivare al posto prescelto per il campo. Questa zona, situata a circa 1500 m dall’in­gresso, è molto grande, ma anche ricca di frane. Dal campo facciamo una breve pun­tatina e rileviamo 800 metri, in questo tratto si intuiva che la morfologia stava cam­biando. Le frane tendevano a sparire e si cominciavano a vedere delle stupende con­crezioni. Ritorniamo al campo per un «re­bechin».
La seconda punta ci porta in zone stu­pende, il fiume scorre lento in ambienti
molto grandi ricchi di concrezioni di tutti i generi. Questa volta ci fermiamo davanti a un guado: attraversare un fiume di questo genere non è cosa da poco.
Ritorniamo al campo e festeggiamo con un banchetto a base di scatolette, un bel bagno e poi a dormire. BAGNO sì ho scritto bene, qui non è un problema visto che l’acqua ha 23 gradi.
Al risveglio, e dopo una abbondante colazione si comincia di nuovo questo eterno gioco, che è l’esplorazione. Di corsa verso il guado, passiamo senza problemi fissando una corda da una parte all’altra. Se fino a qui la grotta era grande, da qui in poi diventa enorme, le gallerie variano dai 30 ai 50 metri, il fondo è sabbioso e sparsi qua e là, enormi gruppi di concrezioni con forma­zioni aragonitiche. Questo fa salire l’entu­siasmo alle stelle. Dopo poco tutta la nostra euforia viene placata dalla scoperta di due tarantole. Ci chiediamo come in questa zona (a 4 km dall’ingresso) si possano tro­vare delle bestie, il ritrovamento di queste e di altre fa supporre che qui ci siano degli ingressi.
Ben presto la grotta assume una mor­fologia a canyon, e la progressione diventa difficile: ci troviamo sotto una cascata dura da risalire e decidiamo di ritornare indietro. Questa punta è stata molto proficua: rile­viamo circa 3 km di grotta nuova.
La Gruta do Craibinha resta comunque una cavità con notevoli possibilità esplora­tive, dato che noi abbiamo seguito sola­mente il ramo attivo. Restano circa 2 km in linea d’aria con la Gruta do Sao Vicente 1 e altri 2 km per arrivare alla Gruta do Passa Tres. Nell’ultima parte esplorata abbiamo trovato un arrivo dalla parte destra del fiume, come si poteva prevedere pensando ad una possibile giunzione con Passa Tres. Rimangono inoltre tutte le zone fossili.
Ci sono buone speranze che questa grotta diventi uno dei complessi più grandi del Brasile.
Un grosso ringraziamento vada a tutti gli amici brasiliani, sperando che questa collaborazione continui.
                                                                                        Gabriele Ritossa (Puntina)

1991: UNA STORIA BRASILIANA

Ultimi preparativi (Foto S.Savio)

Pubblicato sul n. 26 di PROGRESSIONE – Anno 1992
“Guarda, guarda: el sta de novo gio­gandose co la valvola” mi prendevano in giro gli amici riferendosi alla mia abitudine di giocherellare nervosamente al momen­to del decollo con una valvola cardiaca artificiale che portavo appesa al collo.
“Te ga paura, Jumbo?” – “Ma no, i ae­rei xe i mezi de trasporto più sicuri!” ri­spondevo senza grossa convinzione, consapevole solo del fatto che gli aerei sono fatti di metallo, sono pesanti e che quindi è assurdo possano volare. Nono­stante queste teorie in Brasile ci siamo arrivati, la spedizione è stata coronata da successo, ci siamo fatti una bella vacanza e siamo pure rientrati in Patria.
Tutto è cominciato nell’autunno del 1990 quando, dopo la felice conclusione della spedizione dell’89 e in seguito agli accordi presi con il Gruppo Speleo di San Paolo, si è cominciata a programmare una nuova uscita in terra brasiliana per cerca­re di completare la congiunzione del com­plesso delle grotte del rio Sao Vicente nel­lo stato di Gojas. lo, che profondista non sono mai stato, sentendo parlare di grotte orizzontali, calde, senza strettoie, ho dato subito la mia adesione; unica perplessità la assalita presenza in quelle grotte di ser­penti velenosissimi, insetti mordaci, ragni velenosi e grandissimi (tutti conoscono la mia repulsione per i ragni, chiedere a Fufo).
Nei mesi seguenti vengono stabilite le date e prenotati i voli, preparato il mate­riale, firmate le ferie; Elio Presidente parte una decina di giorni prima per fare una prospezione in Mato Grosso alla ricerca di una zona nuova per i prossimi anni; io faccio una folle lotta col sacco e la bilan­cia per riuscire a rimanere nell’ambito dei fatidici 23 chili di franchigia del bagaglio e alla fine opto per un bagaglio a mano, svin­colato dai limiti, pesantissimo; finalmente, dopo una notte passata di guardia in o­spedale completamente sveglio, nel primo pomeriggio del 16 agosto si parte.
Il buon Ferluga, forse per ricordare un momento quando anch’egli scapolo e sen­za figli a carico partiva per le spedizioni nel continente americano, ci dà uno strappo con il capace Ducato del Soccorso sino al­l’aereoporto di Venezia. Sbrigate le forma­lità di imbarco (che significa: a) convincere l’addetto alla bilancia che pesato un sacco, ovviamente l’unico che rientra sicuramente nel peso concesso, tutti gli altri sono uguali e che quindi non è necessario pesarli; b) spiegare al poliziotto che facciamo parte di una spedizione speleologica e che quin­di è normale viaggiare con al seguito mo­schettoni, chiodi, lampade a carburo, bloc­canti, ecc.), si>parte.
Volo Venezia-Parigi-Rio-Brasilia senza storia (ciò, ma te se rendi conto: semo a 13000 metri de alteza, a 700 Km all’ora, fora xe un fredo can, -600, e par de eser in poltrona a casa davanti a la TV). A Brasilia riunione con Elio e con gli altri componenti la spedizione: gli speleo brasiliani (dai nomi tipicamente locali: Prandi, Slavec, Klinke, ecc.) e quattro francesi.
Preso possesso del furgone (poverac­cio) noleggiato da Elio, partenza immedia­ta verso nord, verso il paese di Sao Domingo, il centro abitato più prossimo alla zona di esplorazione. Sulle carte sembra vicino ma le carte non tengono conto della pessima qualità delle strade (buche gigan­tesche, lunghi tratti di sterrato), per cui il paese viene raggiunto, dopo alcuni errori di percorso, nella tarda serata. Cena e per­nottamento.
Il giorno dopo preparazione dei mate­riali, divisione delle squadre (Spartaco, Gui­do e Tullietto a Sao Vicente 1 in discesa; Elio, Tolo, Crocerossa e io a Sao Vicente 2 in risalita), saluti e quindi avvio alle rispetti­ve zone; dopo una polverosa pista, i mezzi vengono lasciati in una fazenda; i materiali a dorso di mulo e noi a piedi con una piacevole scarpinata, raggiungiamo l’ingresso della grotta Sao Vicente 2.
Attraversiamo un ambiente strano, un bosco abbastanza rado e completamente secco e spoglio, ben diverso da quello che immaginavo (i brasiliani mi assicurano che durante la stagione delle piogge la natura si risveglia e il bosco assume l’aspetto del­la foresta); l’aria è calda ma molto secca e limpida per cui non è opprimente e la visi­bilità è eccezionale; mi colpiscono e mi af­fascinano i giganteschi alberi bottiglia; l’in­gresso della grotta è imponente, costituendo, con un altissimo portale, il mar­gine inferiore della profonda valle di Li­gagao; in essa scorre, per circa un chilo­metro, il rio Sao Vicente tra pareti a picco alte circa cento metri.

Fazenda Costa (Foto S.-Savio)

Ritengo opportuna a questo punto una breve descrizione del complesso che sia­mo venuti ad esplorare: il rio Sào Vicente entra nella grotta Sao Vicente 1, già esplo­rata in discesa per circa 2 Km sino a una imponente rapida e meta dell’altra squa­dra, ritorna alla luce sgorgando tra i massi di un enorme crollo nella valle di Ligagao; infruttuoso si è rivelato ogni tentativo di tro­vare un passaggio in questa frana per ac­cedere alla grotta in salita; il fiume, dopo un percorso di circa un chilometro, entra nella grotta Sao Vicente 2 al termine della quale un sifone preclude ogni continuazio­ne; il fiume riemerge definitivamente al­l’aperto a breve distanza in un paesaggio idilliaco. Gli speleo francesi alcuni anni or sono, effettuando una prospezione esterna sul presunto percorso della Sao Vicente 1, hanno trovato a breve distanza dalla valle di Ligagao, in una vallecola, una cavità (grotta di Craibinha) che con una serie di brevi saltini ha permesso loro di raggiun­gere il fiume sotterraneo a monte della fra­na; si è aperto così un nuovo capitolo nel­l’esplorazione del complesso: nel 1989 una spedizione mista (CGEB – Brasiliani) risale il fiume sotterraneo per circa 5 Km arre­standosi davanti a una cascata; un paio di chilometri li separa dalla rapida del tratto in discesa; lì inizierà il lavoro della nostra squadra.
Sistemato il campo esterno all’ingresso di Sao Vicente 2, visitiamo la prima parte della cavità, anche per renderci conto della temperatura e della morfologia che troveremo in Craibinha.
Il giorno seguente finalmente si comin­cia; sudata mostruosa per risalire, con tut­ta l’attrezzatura da esplorazione, da bivac­co, fotografica, ecc,. la valle di Ligayao; di positivo, rispetto alle spedizioni precedenti, la pressoché totale assenza di insetti, per cui risulta inutile la zanzariera che mi ero costruita e che aveva causato notevole ila­rità. Attimi di panico e incazzatura perché non si trova la grotta, ma fortunatamente la si raggiunge e si entra: caldo infernale, ben diverso dai nostri climi ipogei. Il fiume, pur con una portata notevole (stimata in circa 7 mc/sec.), non sembra creare grossi im­pedimenti anche nei punti in cui va guada­to con l’acqua che arriva alle spalle; impo­nente la galleria principale che seguiamo, ora sulle spiaggette, ora tra ciclopici mas­si, ora sguazzando nell’acqua (la si ama per il refrigerio che dà). Orizzontale si, ma comunque faticosa, sia per la lunghezza, sia per i continui saliscendi, sia per il cal­do, ma soprattutto per il peso degli zaini. Memore dei racconti dei precedenti visitatori mi muovo guardingo: immagino serpen­ti, ragni, animali pericolosi nascosti dap­pertutto e pronti a ghermire; dopo un pò mi accorgo che così non è e, affascinato dalla bellezza degli ambienti, comincio ad esse­re più sciolto.
Dopo non so quante ore di cammino, si pianta il campo interno su un’ampia spiag­gia sabbiosa ai margini di una gigantesca caverna laterale alla galleria principale; la dura natura granitica della roccia, che co­stituisce le pareti laterali, crea non pochi problemi per la sistemazione delle amache. Incredibile comunque il fatto di poter bivac­care, di stendersi sulla sabbia a riposare, di preparare il cibo sempre in costume da bagno.
Dopo alcune ore di riposo ci dividiamo: Elio, Tolo, Crocerossa e alcuni brasiliani raggiungono il limite precedente e pro­seguono l’esplorazione; il francese, gli altri brasiliani e io andiamo a vedere alcuni rami laterali (che purtroppo terminano) e rilevia­mo dei tratti di galleria che risultavano ine­satti e incompleti. Le caverne laterali sono adorna di notevoli concrezioni calcitiche abbellíte da grappoli di candide infiorescenze di eccentriche. Troviamo alcune tracce di animali (ossa) ma per fortuna di pericoli neanche l’ombra; un posto insomma tran­quillo, caldo e bello.
La squadra di punta di ritorno dall’esplo­razione racconta di essersi fermata sotto un alto pozzo-cascata la cui risalita appare impossibile e di aver lasciato delle tracce ben visibili (due cordini) per la squadra in discesa. I brasiliani decidono pertanto di anticipare il ritorno al campo esterno men­tre noi ci soffermiamo ancora due giorni per cercare di raccogliere un’accurata do­cumentazione fotografica e per tentare di forzare dall’interno il passaggio verso la val­le di Ligacao (tentativo fallito).
Un’alba radiosa vede tutta la squadra riunita al campo esterno; improvvisamente dall’alto del sentiero un indigeno scende verso di noi; si presenta come il Sehor Costa della fazenda Agua Fria (posta al­l’ingresso di Sao Vicente 1), di essere ve­nuto fino a noi, attraversando tutto l’alti­piano da solo, per portarci un messaggio dell’altra squadra; rapida lettura (“colgo l’occasione per comunicarvi il ritrovamen­to di un cordino edelrid bianco…ecc…”) e immediata esplosione di gioia: è fatta, il collegamento è realtà, gli altri sono scesi fino al punto da noi raggiunto in salita, si
sono conclusi oltre dieci anni di esplorazioni.
Il campo viene sbaraccato, si ritorna alle macchine, veloce puntata alla risor­genza del Sao Vicente per una rinfresca­ta, bevuta ciclopica di birra fresca nel vil­laggio che si attraversa e poi riunione di tutti a Sao Vicente 1.
“Ciò, savè che stavo per darghela co son finì soto la cascata, bon che Spartaco iera pronto col paranco; e Tulieto dormiva. Ste atenti ale zecche che qua xe pien: 92 ghe go tirado via ieri a Spartaco”.
Questo è il benvenuto di Guido. Comunque siamo felici per il risultato positivo della spedizio­ne. Disarmo della grotta, ancora alcuni rul­lini di foto e poi si ritorna a So Domingo.
Si festeggia ma penso anche che un sogno è finito, è divenuto realtà e spesso un sogno dà maggior felicità, maggior sti­molo della realtà. Si è concluso un lungo periodo di ricerche e di esplorazioni e sem­bra quasi di aver rotto un giocattolo: e ora cosa faremo? La spedizione speleologica è così terminata e ora incomincia una vacan­za, breve per alcuni, lunga per altri; arrive­derci tutti a Trieste.
Umberto Tognolli

NELLA CRAIBINHA, SU PEL SÀO VICENTE

L’ingresso del rio Sao Vicente (Foto S.Savio)

Scendendo per la grotta che porta al fiume sotterraneo siamo forse un pò delu­si: tutto quel viaggio da Trieste per poi ritro­varci in una grotta del tutto simile a quelle che abbiamo sul nostro Carso. Ma prose­guendo, qualcosa si fa sentire in lontanan­za e via via che procediamo un rumore diventa sempre più forte, cosa inusuale per noi che siamo abituati al silenzio dominan­te quasi ovunque nelle cavità dalle nostre parti.
Più avanti lo scroscio è chiaro e distin­guibile, la grotta cambia: siamo arrivati su un fiume sotterraneo. Davanti ai nostri oc­chi uno spettacolo affascinante: un torren­te con una portata che in periodo di magra, come quello in cui ci troviamo, è piuttosto notevole.
Nostro compito è di risalire il fiume cer­cando di installare il campo più avanti pos­sibile per quindi proseguire l’esplorazione di ulteriori gallerie. Procediamo per un gior­no intero, l’ambiente che ci circonda è uni­co, grandioso, a volte terrificante, si susse­guono spiagge, rapide, salti, sifoni e molti sono i punti dai quali precipitare in acqua risulterebbe fatale, tanto più che siamo ap­pesantiti e resi goffi nei movimenti dagli zaini. Ci impressiona in modo positivo la temperatura: noi siamo abituati al massimo agli undici gradi del nostro Carso mentre qui abbiamo una temperatura più che dop­pia, per cui appena è possibile ci buttiamo volentieri in acqua in cerca di refrigerio, anche se anche questa risulta piuttosto cal­da.
Proseguiamo in questi ambienti a noi nuovi per diverse ore e superiamo man mano le varie difficoltà adottando un siste­ma rapido, comodo e nel contempo sicuro ma che soprattutto ci porta a fraternizzare con i nostri compagni brasiliani e francesi superando le barriere linguistiche: la cate­na umana. In pratica affrontiamo ogni gua­do senza usare corde, ma tenendoci a vicenda per mano, consapevoli che l’inco­lumità di ognuno è legata alla fermezza di tutti gli altri. Questo modo di procedere è forse la cosa che più di ogni altra resterà nei nostri ricordi: la forza e il calore di quelle strette che danno e nel contempo cercano sicurezza, i cenni d’intesa e il compren­dersi con uno sguardo nel fragore delle ra­pide dove comunicare a voce è impossibile.
Dopo aver percorsi circa due chilometri del tratto già noto ad Elio, che vi era stato durante la precedente spedizione, giun­giamo ad una spiaggia dove allestiamo il campo, mangiamo qualcosa e decidiamo il programma per il giorno seguente. Prima di dormire visitiamo i dintorni e andiamo a vedere un cavernone che sta alle spalle del campo, bellissimo, strano ed impres­sionante per il soffitto perfettamente piatto come il pavimento.
Osservando meglio comprendiamo come si è formato: un bel giorno, tanto tem­po fa, uno strato roccioso di notevole spes­sore con del vuoto sottostante decise di separarsi da quello che gli stava sopra, e così fece provocando probabilmente un enorme boato che deve aver risuonato for­temente in quelle sale e in quelle gallerie sotterranee. Il risultato fu un cavernone di m 120 per m 50, alto dai tre ai cinque metri, con delle cortine di stalattiti e colonne che si formarono in corrispondenza delle fessure presenti nello strato superiore.
L’indomani (vista la relatività del tempo sottoterra, quello che noi abbiamo deciso essere l’indomani), Louis, Roberto, Elio, Croce Rossa ed io (tre brasiliani e tre trie­stini), partiamo per l’esplorazione. Risalia­mo il fiume superando laghi e rapide e in un lago scopriamo qualcosa di inaspettato: una incredibile forma rocciosa creata dal­l’acqua, difficile a descriversi, ma tenterò di farlo. Cercate di immaginare un grande elefante che sta in bilico su una tavola da surf messa di taglio; quello che è ben più difficile da spiegare è come questo monu­mento roccioso stesse in piedi. Arriviamo quindi ad un grande lago con l’acqua nera e calma; raggiungiamo la sponda destra e lo costeggiamo con me in testa. Ad un trat­to, dopo aver superato una quinta di roc­cia, qualcosa guizza dall’acqua e io, preso alla sprovvista, faccio un salto indietro. Elio mi chiede se sono matto, io gli spiego il motivo del mio scatto e lui afferma che ciò dimostra quanto male faccia il bere troppa acqua. Mi sorpassa e prosegue, ma dopo tre metri è lui, stavolta, a fare un salto in­dietro, e ora mi crede. li lago è abitato da pesci che essendosi adattati all’ambiente sono completamente bianchi.
Giungiamo ad una grossa rapida che Elio aveva già superato nella spedizione precedente arrampicando sulla destra in un aereo traverso su rocce estremamente fria­bili. Percorriamo la stessa non facile stra­da e proseguiamo risalendo il torrente. Ad un certo momento Elio si ferma; siamo nel luogo dove si era fermata la precedente spedizione, abbiamo davanti una cascata alta almeno otto metri, imponente, e in que­sto posto impressionante decidiamo. Cer­cheremo di passare, senza però rischiare troppo poichè un errore qui non sarebbe rimediabile.
Tocca a me: provo sulla sinistra, ma la roccia con pochissimi appigli è molto friabi­le e completamente marcia, per me impos­sibile. Roberto mi assicura dal basso e pro­vo sul lato destro, dove vedo roccia migliore, più asciutta e in parte concrezio­nata. Ognuno ha con sè un coltello da usar­si qualora la corda che ci unisce dovesse essere tagliata. Trovo alcuni punti che sem­brano buoni e cerco di convincermi che ter­ranno, metto delle protezioni che, in caso di caduta, dovrebbero evitare di farmi arri­vare sul fondo. Salgo ancora, ora il rumore impedisce ogni comunicazione a voce; sono solo, ma la corda leggermente tesa mi in­fonde sicurezza e mi fa percepire la pre­senza degli altri all’altro capo di essa, men­tre la cascata sotto di me riempie tutto col suo rombo e il suo bianco spumeggiare. Alla fine sono sopra la cascata, oltre il sal­to, è fatta. Lancio alcune grida ma gli altri non mi sentono, allora assicuro la corda e segnalo con dei forti strattoni il “via libera”.
Mi giro e guardo: vedo una galleria che continua, sono molto curioso e vado avanti a vedere, avanzo per un pò ma sono solo e ciò non è prudente. Torno indietro e trovo che gli ultimi stanno terminando la sali­ta; ci abbracciamo e stringiamo la mano: anche questa difficoltà è superata e la grot­ta, ciò è importante, continua.
Dopo una breve sosta per mangiare avanziamo di circa duecento metri, finchè Elio ritiene la sponda sinistra troppo diffici­le e mi chiede di provare quella opposta. Assieme a Croce Rossa risalgo, la volta è a circa mezzo metro sopra il pelo dell’acqua. Il fondo non si tocca e la corrente si fa sentire, non forte ma molesta; ad un tratto perdo il contatto con la roccia, ho paura a tenermi per le fragili stalattiti e, d’accordo con Croce Rossa, temendo che al di sotto ci sia una caverna sommersa, dove potrem­mo finire se presi dalla corrente, desistia­mo. Torniamo dalla parte di Elio, riprovia­mo e superiamo la difficoltà.
Proseguiamo ora per spiagge ora in am­mollo con la volta che va dai venti metri ai cinquanta centimetri sopra di noi, cosi per circa 800 metri. Poi la grotta cambia, sia­mo in una specie di condotta che risaliamo a destra fino a trovarci di fronte ad una finestra dalla quale esce fragorosamente l’acqua. Proviamo alcune volte ad arrivar­ci, ma senza risultato. Neanche Elio, che pure sa arrampicare, ce la fa, allora deci­diamo che lui mi assicurerà ed io, che sono il più leggero, cercherò di raggiungere la sponda opposta. Tento alcune volte, ma la corrente è molto forte e al centro della gal­leria, dove all’improvviso il fondo si ab­bassa, non si riesce a resistere. Gli chiedo di darmi corda. Ci guardiamo, lui capisce e non mi sembra tanto d’accordo, ma intanto mi lancio e quando riemergo dopo alcuni secondi sono dieci o quindici metri più a valle. Non ricordo come, ma in qualche modo nuotando e slanciandomi afferro la roccia della sponda opposta e tenendomi su quel che trovo risalgo fino a trovarmi di nuovo di fronte ad Elio. Ci guardiamo e sorridiamo tutti: Mah! Di certo non siamo del tutto a posto mentalmente.
Trovo due stalagmiti e sistemo dei rin­vii, Elio dalla parte opposta mi tiene assi­curato, arrampico un paio di metri ma devo ridiscendere continuando poi la salita con l’acqua al torace. Arrivo ad un punto dove la roccia, che qui è granito, diviene stra­piombante per cui sarebbe necessario at­trezzare una artificiale, cosa alquanto diffi­cile (se non impossibile) da farsi in quelle condizioni.
Ritorno e lascio un cordino ancorato alle concrezioni e delle scritte con la vernice su quella sponda, raggiungo gli altri e lascia­mo gli stessi segni da questa parte, augu­randoci che la squadra che scende e con la quale intendevamo ricongiungerci li tro­vi. Siamo contenti per ciò che abbiamo esplorato ma anche profondamente delusi per la rinuncia davanti a quell’ostacolo.
Facciamo partire gli altri e restiamo in­dietro Roberto e io per rilevare. Chi cono­sce le gioie del normale rilievo ipogeo po­trà certamente immaginare la nostra felicità nell’adempiere a quel compito immersi nel­l’acqua fino alle spalle con gli immaginabili problemi che si hanno nel leggere gli stru­menti e trascrivere i dati stando in acqua.
Torniamo al campo dove relazioniamo ai compagni rimasti lì per fare foto e topografare alcuni rametti laterali, mangiamo e dormiamo. Al risveglio i brasiliani e i fran­cesi si avviano all’uscita per primi, mentre noi restiamo indietro per esplorare, rilevare e fotografare un ramo vicino all’ingresso e quindi usciremo il giorno dopo. Il ramo in­feriore della grotta, invece, lo ricorderemo non tanto per la sua bellezza quanto per l’instabilità delle sue frane finali.
Usciti dalla grotta incrociamo i nostri compagni usciti il giorno prima che vanno a battere zona alla ricerca di nuove cavità. Noi torniamo al campo base a lavarci, asciugarci e finalmente a mangiare qualco­sa di buono come verdure e frutta, cose semplici ma senz’altro migliori dei cibi liofi­lizzati che avevamo con noi, frutto della tecnologia moderna. Dopo tanta acqua e oscurità niente sembra più bello del sole e dell’azzurro del cielo sopra di noi.
                                                                                Tolo (Alessandro Tolusso)