1986 – Réseau Jean-Bernard

RÉSEAU JEAN-BERNARD- (A.A.A. MERCENARI MASOCHISTI CERCASI)

Traverso sopra il Pozzo Alain —200 (Foto P. Pezzolato)

Pubblicato sul n. 15 di PROGRESSIONE – Anno 1986
«,.,periremo ma gloriosi, e alle future genti qualche bel fatto porterà il mio nome» (Iliade, Libro ventiduesimo)
Il furgone di Mandriòl con gli under 30 e la macchina di Mario con gli altri; 9 persone più forse Riki (che ci dovrebbe raggiungere al Réfu­ge de Follis – Samoens, Alta Savoia).
Tutta qui la spedizione intergruppi (C.G.E.B. – C.A.T. – G.S.S.G.) all’abisso più profondo del mondo. Tutti consci di essere un po’ pochini per un’impresa di quella portata ma, si sa, a tavolino siamo tutti eroi. Un po’ meno quando, scaricate le auto alla base del sentiero, abbiamo visto che per portare tutti i materiali al rifugio ci sarebbero voluti almeno due viaggi a testa. Beh, poco male: «quel che no maza, in­grasa!».
Il tempo era bello e la neve scarsa, così sci e pelli di foca sarebbero rimasti in furgone. Lo Chalet du Follis ci fa da campo base e le pareti dei Criou, che dominano il sentiero verso l’in­gresso alto, non presentano ancora problemi di slavine. Possediamo un minirilievo dell’abisso, le relazioni contenute nel libro che parla dello stesso e basta. Di questo possiamo ringraziare i «Super-speleo-eroi» francesi che, alla nostra ri­chiesta di dati eccetera, hanno risposto picche. Anzi, ci hanno anche sconsigliato di procedere, poiché soltanto loro parrebbero degni di tali imprese.
Dal rifugio portiamo materiali e tenda al­l’ingresso del B21, dove prepariamo il campo 2 e torniamo giù. Il tempo peggiora e passiamo un paio di giorni allo chalet aspettando una schiarita. Nel frattempo festeggiamo il compleanno di Mario ed il graditissimo arrivo di Riki. Colossali partite di «gnagno» per vincere l’armo. Armo vinto da Pahor e Riki, incalzati da Mario e… sigh… me.
La mattina dopo abbandoniamo il simpati­co rifugio con la speranza di rivederlo quanto prima e, mogi mogi, ci avviamo al campo 2 (una Ferrino per 6). Finalmente la «trappola» si inco­mincia a chiudere e passiamo una notte inferna­le, in dieci schiena contro schiena, a tenere la tenda. La mattina cessa di nevicare e i primi due «vincitori» del gnagno s’apprestano ad entrare.
Dopo un’oretta cominciamo io e Mario ma, …sigh, …sigh, resto solo in breve tempo: il sig. Paponcio è ricacciato in malo modo da una strettoia che merita questo nome. Solo e con due «saccozzi», cerco di rag­giungere i primi due.
Scendo parlando da solo e giunto ad un bivio, inforco «malauguratamente» la strada giusta. Dico «malauguratamente» perchè i pri­mi senza esitare, avevano imboccato quella sbagliata. Vani dunque i miei disperati richiami e le mie imprecazioni quando mi trovo su un pozzo, armato con piastrine e maillon-rapide, ma senza ombra di corde.
Chiamo e aspetto, cerco e chiamo, chiamo e fumo, fumo, chiamo e bestemmio. Vuoi vedere che ho sbagliato strada??
Torno indietro e trovo Fox, Mandriol e Scarno, con nove sacchi, che mi vengono in­contro. Ahi, …ahi, la strada allora è quella giu­sta. Ma dove sono i primi?!
Accompagno gli altri fino al punto dove ero arrivato io. Scendiamo il pozzo per vedere se qualche macabra sorpresa ci attende alla sua base. Fortunatamente non c’è anima viva, nè… morta. Torniamo al bivio. Dietro un angolo e «logicamente» non in vista, troviamo i nomi dei nostri amici ed una freccia che ci affrettiamo a seguire.
Allora la via l’abbiamo sbagliata noi, non può essere altrimenti, perchè loro hanno la relazione! Dopo varie peripezie e parecchie ore in un meandro degno di tale nome, fatto in compa­gnia di 11 sacchi, troviamo con nostro grande piacere non i nostri compagni, ma altri 3 sacchi. AHHHGgg!!?! Angoscia tremenda. Della famo­sa serie: El mondo ne crola ‘doso!
Tralascio volutamente di narrare del recu­pero di quei 14 sacchi in quattro, scriverei per niente, perchè qualche censore amputerebbe comunque il racconto. Usciamo dalla grotta all’alba, dopo 43 ore di punta. Simpatica visione: soltanto un metro di tenda sbuca dalla neve.
Cambio di indumenti fradici con altri solo bagnati e veloce discesa verso il rifugio, consci della preoccupazione degli altri che ci attende­vano invano all’ingresso intermedio (V4).
Sfidiamo le slavine che potrebbero stac­carsi da un momento all’altro (non per coraggio o incoscienza, ma solo per necessità) e raggiun­giamo gli altri. Baci ed abbracci e piccola dis­cussione. Ormai abbiamo perso troppo tempo e sal­ta l’integrale; entreremo dal V4 facendo «solo» un —1000. Attendiamo due giorni nella speranza che il tempo migliori e per riposare, gustando i ma­nicaretti della Pacia. Molte ore spese con le carte da briscola ed i cartoni di Tavernello.
Decidiamo di entrare il 31 mattina: o ades­so, o mai più!
Già mi pregusto il vicino Capodanno, ap­peso ad un frazionamento. Salutiamo ed invi­diamo Riki che deve tornare a Trieste per lavo­ro. Così in mattinata, dopo un altro «mazzo» per arrivare all’ingresso intermedio (V4), ci ac­cingiamo a rientrare nella grotta più profonda del mondo, su corde da 8 mm.
Noi immaginavamo qualcosa tipo Canin, ma non è così. A —300 siamo impestati di fango e gli armi e la progressione necessitano di molto tempo. Questo sistema ipogeo non è complicatissimo, ma neanche dei più semplici, perciò nei mean­dri sospesi e fangosi si ha un bel da fare per trovare tracce che indichino la corretta quota di progressione. Così la mezzanotte di transi­zione fra un anno e l’altro ci sorprende in una cavernetta senza «storia» e brindiamo all’anno nuovo con… frutta secca. Malediciamo noi stessi e lo sciocco entusiasmo che ci ha portato qui. «Quel che xe ciapà, xe ciapà e… ciol quel che te poi».
Così continuiamo la discesa in tempi lun­ghissimi, fermandoci solo al vecchio campo a —1000 (calcolando dall’ingresso alto, a —700 dal V4). Un tè caldo e un po’ di frutta secca, poi le «magiche» buste Salewa, omaggio del buon Papi. Qualche sigaretta ed un paio di risate e siamo subito investiti da una nuova carica d’en­tusiasmo. O fondo, o mortel (…se sò).
Lungo la strada troviamo delle corde da 7 mm lasciate in loco dalla precedente spedizione spagnola; usiamo quelle per non aprire i nostri sacchi… sempre più «furbi».
Il signor «Shorty» fionda giù per un pozzo di otto metri mandando in para i presenti. Per sua fortuna la Dea bendata è dalla sua: solo paura e lividi, ma niente di grave. Proseguiamo tutti insieme verso il fondo. Cominciamo a cal­colare i tempi e veniamo alla conclusione che non ci sarà possibile essere a valle il 2 gennaio, come lasciato detto in paese. Benissimo… man­deranno su il Soccorso!
Ci ridiamo sopra, ma siamo consapevoli di non poter rischiare una cosa del genere. Dal momento che «el Curto» comincia ad accusare dolori vari, decidiamo di farlo uscire accompa­gnato dal buon Vasko: penseranno loro a tranquillizzare i valligiani sulla nostra sorte.

Campo —600 (Foto P. Pezzolato)

Noi cerchiamo di scendere il più veloce­mente possibile, ma bisogna armare meglio i vari pozzi, dal momento che siamo in 8 mm ed i francesi non armano poi così bene.
Scendiamo splendidi e comodi meandri neri con striature bianchissime e, di salto in salto, superando cascate e «bibiezi» vari, arri­viamo ad una trentina di metri (secondo il rilie­vo) sopra la quota del sifone. Alla meta manca­no una serie di pozzetti e circa 300 m di «bigoli» orizzontali impestati. Siamo dentro da circa 40 ore ed abbiamo ancora poco carburo. Se anche la risalita ed il disarmo necessiteranno di parec­chio tempo, facendo il fondo rischiamo di usci­re dalla grotta in «Braille». Decidiamo a malin­cuore di abbandonare l’idea.
Benedetto sia il Canin e tutte le sue grotte, altro che questo letamaio. …Chissà il tempo fuori? Speriamo bene.
Scarno prende un sacco e in compagnia della Pacia comincia a guadagnarsi l’uscita, mentre Mario, Fox, Pahor e me …ci guada­gnamo il disarmo. Ormai la strada la cono­sciamo bene e siamo al campo a —1000 in breve tempo; troviamo del cibo lasciato in loco dai polacchi 5 anni prima e lo trangugiamo avi­damente: speriamo bene.
Siamo fuori all’ora di pranzo del 2 gennaio, dopo 47 ore. Beati coloro che ne avevano già 43 sulle spalle, della punta precedente. Ad accoglierci tanta neve fresca, nebbia e una mezza bufera.
Con le ginocchia che cedono e le spalle che non capiscono più se stanno portando uno zaino o l’intera montagna, cerchiamo di rag­giungere il rifugio il più velocemente possibile. Per tutta la pista ci accompagna una nenia, che raccoglie tutti gli scongiuri anti-valanga possibi­li. Arriviamo finalmente al tanto sospirato rifu­gio e ci lasciamo cadere sulle panche.
Tutti «senza vita» e con sporadici abbozzi di sorriso, cerchiamo di preparare qualche co­sa da mangiare, il sonno però, può più dell’ap­petito. La mattina dopo sbuchiamo malvolen­tieri dai sacchi a pelo, ci aspetta l’ultima fatica: portare a valle tutti i materiali, possibilmente in un unico viaggio.
Rinfrancati da una abbondante colazione e soddisfatti delle nostre «gesta», carichiamo gli zaini all’inverosimile e con i sacchi al guinzaglio e le «ciaspe» ai piedi, affrontiamo l’ultima cam­minata. Non dimentichiamo di salutare le pareti del Criou che ci sovrastano: «andè a remengo voi e chi che no ve manda e arrivederci.., a mai
Partecipanti alla spedizione:
C.G.E.B.:Bianchetti Mario, Grieco Angelo, Pezzolato Paolo, Sollazzi Guido, Squassino Patrizia, Va-scotto Gianpaolo
C.A.T.:Segarich Riccardo, Tomè Roberto
G.S.S.G.:Pahor Roberto, Sussan Paolo
Un sentito «grazie» agli amici francesi che, dietro nostra richiesta, ci hanno tempestato di dati inerenti l’abisso (…compreve el libro!).
Tutti i traversi sono armati con cavi fissi, esattamente come dice la relazione del libro (…«saluda» come le schede d’armo.! cavi c’era­no ma, …a penzoloni per i pozzi). La spedizione è stata effettuata nel perio­do che va dal 21/12/85 al 3/1/86.
                                                                                           Guido Sollazzi
P.S.: Ottime le relazioni e le schede d’armo (…«te saluda»)