AGG. 2016 – Tribuna scientifica sulle glaciazioni Dolomitiche

Progressione 62 -TRIBUNA (Eresie e dintorni)

Foto n.1 – Panoramica versante SE con posizione della grotta della Conturines (foto F. Forti)

Progressione, rivista che porta nel sottotitolo “Attività e riflessioni della Commissione Grotte E. Boegan”, ospita da sempre soprattutto scritti dei suoi soci (da parecchi anni si è aperta anche alla collaborazione esterna di amici e studiosi che hanno usato questo mezzo di comunicazione per esporre le loro idee). Come ha giustamente scritto sull’ultimo numero il Direttore Responsabile, non è la voce ufficiale della Commissione Grotte, e tale non può essere non essendo la stessa un partito o una chiesa: la Boegan è fatta da cento teste, con cento diverse visioni del mondo, accomunate da un amore per le grotte cementato da una tradizione ben ultracentenaria. Ed è abbastanza normale che talvolta opinioni e percezione del mondo e della realtà possano essere diverse: per questo motivo gli Autori pongono la loro firma in calce agli scritti, di cui si assumono paternità e responsabilità.
Sul fascicolo 61 uno scritto di Fabio e Fulvio Forti ha suscitato delle perplessità in qualche ambiente accademico: l’ipotesi di lavoro avanzata dai due Autori – abbandonare il dogma delle glaciazioni – sembra sia stata percepita come un’eresia.
La Redazione non intende entrare nel merito: l’opinione di uno studioso può essere giusta o sbagliata, giusta oggi e sbagliata domani, sbagliata oggi e giusta domani. La Rivista è e vuole rimanere uno strumento serio di informazione (raccontando la nostra attività, e quindi il ”passato”) e, per quanto possibile, di formazione (operando sul “presente” del lettore).
Però, guardando al “futuro”, da alcuni anni ha attivato la rubrica “Tribuna”, spazio riservato a chi, sempre nell’ambito delle materie che fanno in qualche modo riferimento alla speleologia, vuole proporre suoi (nuovi) punti vista sull’attuale stato dell’organizzazione, della conoscenza, dei metodi di ricerca. Volendo quindi essere anche uno strumento proiettato nel futuro Progressione ospita in questo particolare contenitore anche opinioni di speleologi e studiosi (della Commissione e non ) che politicamente si direbbero “non allineati”, da un punto di vista religioso “eretici”.
L’idea che stava alla base dell’apertura di questa Rubrica presupponeva l’avvio di un dibattito, per cui, in attesa della pubblicazione del prossimo numero della Rivista, approfittiamo con piacere dello spazio concessosi dal sito per pubblicare l’intervento con cui Furio Finocchiaro, il geologo figlio del nostro più grande e amato Presidente, controbatte le tesi di Fabio e Fulvio Forti. E’ un intervento chiaro e lineare, che cerca di rispondere al quesito posto dai due Autori.
Al lettore di oggi un completamento dell’informazione sul tema. Ai posteri la sentenza.
                                                                      La Redazione di Progressione

L’URSUS SPELAEUS LADINICUS IN UNA GROTTA DELLE DOLOMITI

Nell’area dolomitica dell’Alta Badia (Parco Naturale Fanes – Sennes – Braies) nei pressi del Piz dles Conturines (3064 m), alla base della parete sovrastante la conca valliva fortemente detritica posta sul suo versante orientale, alla quota di poco inferiore ai 2800 metri, c’è il relitto di una cavità a galleria, dove si sono trovate ossa di almeno qualche centinaio di Ursus spelaeus ladinicus ……..Vai all’articolo

Replica di Furio Finocchiaro

Il prossimo ottobre saranno passati 40 anni da quando iniziai a studiare Geologia all’Università. Quando mi era nata la passione ? Probabilmente tutti i vecchi della Commissione hanno la risposta pronta: ovvio, con il Maestro come padre  !
Certo,  ma riguardando tra i suoi libri ho trovato due volumi che  devono avermi aiutato nella scelta. Il primo è di una divulgatrice americana Ruth Moore:  “L’avventura della Terra nel tempo”, pubblicato nel 1958, organizzato a capitoli, ognuno dedicato ad un grande delle geologia. Il settimo capitolo si intitola, lapidario: “Agassiz. Ghiaccio”. Molto interessante anche il sedicesimo “Wilson. Continenti che crescono.” Tuzo Wilson è considerato uno dei padri della tettonica a zolle, ma a metà degli anni ’50 non era ancora stata ..inventata.. e il libro non ne parla. Il secondo libro è un pilastro delle storia delle geologia: “La formazione dei continenti e degli oceani”, di Alfred Wegener, ’edizione Einaudi del 1943. Interessante il fatto che già a quei tempi  si ipotizzava un “Sima” fluido sui cui il “Sial” galleggiava. E la dimostrazione di questo fenomeno si basava proprio sul sollevamento post glaciale della Scandinavia, ben spiegato nel capitolo 2. Wegener non convinse i suoi contemporanei perché gli mancavano le forze in grado di spostare i continenti.. A quei tempi la forza centrifuga legata alla rotazione e le forze di marea apparivano troppo piccole, anche se recenti studi stanno modificando questa idea
Torniamo al 1975. Per l’esame di Geografia Fisica il prof. Vaia consigliava come testo un classico: il volume  sulla “Geodinamica esterna” (Dal Bianco, 1959)  del sen. prof. Michele Gortani. Certo è un testo superato, nessuno parla più di “”morene di accumulamento” e “morene di sospingimento”, nessuno elenca le glaciazioni esclusivamente con i termini introdotti da Penck e Bruckner più di 100 anni fa.  Ma a leggere con attenzione ci si accorge che rispetto ad un testo moderno sono mutati molto i termini, meno i concetti fondamentali. Interessante la pagina in cui Gortani spiega la genesi dei truogoli glaciali (valli con profilo a U) ipotizzando tre possibilità:  i ghiacciai scavano le valli  ex novo, i ghiacciai rimodellano il profilo di una valle già incisa da un corso d’acqua, i ghiacciai non sono in grado di scavare una valle. Dal testo si capisce che Gortani preferisce l’ipotesi intermedia. Io pure.
Due anni dopo il corso fondamentale: “Geologia generale” tenuto dal  prof. Giulio Antonio Venzo. Il Venzo usava un testo, il “Losacco”  adottato dall’Istituto Geografico Militare non molto grosso, per cui era affettuosamente chiamato il …testicolo. La seconda edizione, del 1970 (originariamente appartenuto a mia sorella Franca)  nel capitolo dedicato all’orogenesi tratta, sia pure in un modo che ora appare primitivo,  sia delle dorsali oceaniche che degli archi insulari. Insomma, pur partendo dalla teoria delle contrazione (…”oggi completamente abbandonata…”), passa attraverso Wegener e arriva all’infanzia della Tettonica a zolle. Il testo risulta meno aggiornato quando tratta dei depositi glaciali la maggior parte dei quali sembrano risalire al “Quaternario antico, epoca in cui le Alpi erano coperte da una grande calotta di ghiaccio”.
Questa lunga premessa per chiarire che la mia generazione ha vissuto l’affermarsi  della Tettonica a Placche, il suo veloce trasformarsi da ipotesi a teoria, il suo perfezionamento negli anni,  a scapito di altre teorie che sono state abbandonate Sono quindi abituato a seguire l’affermazione, l’evoluzione  e il progressivo cambiamento nel tempo di certe teorie geologiche.  Mi viene da aggiungere,.come tutti i miei colleghi all’Università.
Però quella che ho letto a pagina 11 di Progressione 61, in un articolo firmato da Fabio e Fulvio Forti, dal titolo “L’Ursus spelaeus ladinicus in una grotta delle Dolomiti”   è un’affermazione veramente categorica:
“Il cosi detto –periodo glaciale – che da due secoli di studi sulla geologia del nostro pianeta, imperversa in tutti gli insegnamenti, non è mai esistito.”
Ovviamente io ritengo che in questi termini il contenuto dell’affermazione è nettamente  sbagliato.. E se avrete pazienza proverò a spiegarvi il perché. Non entro, per ora, nel merito dell’articolo, paragrafo per paragrafo, ma faccio delle considerazioni più generali
Su alcuni punti i Forti hanno ragione: volendo essere precisi non dovremmo mai parlare di fasi glaciali e interglaciali descrivendo le variazioni climatiche del Carso triestino.  Ed infatti i ricercatori che si occupano dei cambiamenti climatici in aree tropicali ed equatoriali e delle conseguenti variazioni di livello dei grandi laghi africani parlano di alternanze di periodi secchi e umidi o comunque di variazioni nella piovosità (Burnett et al., 2011; Fritz et al, 2004; Lyons et al, 2011.)  Oppure  si parla di contrapposizione tra periodi caldi e piovosi in contrapposizione a fasi fredde/secche, poi semplificando le fasi fredde diventano fasi glaciali. Posso essere d’accordo che questa semplificazione terminologica, in Carso è errata.
Che  il ghiacciaio del Tagliamento si estendesse in pianura per ben 80 km, fino al mare  lo credevano Taramelli e Pirona alla fine dell’800. Certo, Martinis (1993) riporta il dato, come fatto storico, ma chiunque legga con attenzione la dozzina di pagine che questo Autore dedica al glacialismo quaternario in FVG  si può convincere che Martinis  (insieme a Gortani, Carraro, Petrucci) riteneva che la massima espansione glaciale sia arrivata alle colline lungo l’allineamento San Daniele, Fagagna, Tricesimo. Quello che tutti gli autori chiamano “Anfiteatro morenico tilaventino”. Negli ultimi 20 anni è in atto una discussione scientifica (Venturini, 1988; Zanferrari et al., 2008), sulla genesi del colle di Udine e sui grandi massi ritrovati nel sottosuolo della pianura  ancora qualche km più a sud della città. L’ipotesi di Venturini è che quei massi rappresentino un avanzamento maggiore rispetto alla posizione della cerchia più esterna dell’anfiteatro. Quindi al massimo 20-25 km a sud dei rilievi alpini. Ma nessuno più pensa ad avanzamenti da 80 km. Anche perché il massimo avanzamento di una ghiacciaio alpino viene testimoniato, come ho appena detto,  da un anfiteatro morenico. Ovvero da serie di colline di forma semicircolare costituiti da sedimenti molto mal classati: massi, ghiaie, sabbie e fanghi mescolati insieme a struttura massiva, ovvero praticamente privi di stratificazioni interne ben diversi dai depositi alluvionali o fluvioglaciali. Oppure dalla presenza di massi di  dimensioni (> 1 m3) cosi grandi da non poter essere trasportati da acque torrentizie o fluviali:  i massi erratici. E di questo genere di depositi a sud di Campoformido, non c’è traccia
Nell’articolo si citano Penck e  Bruckner (1909)  e Milankovic (1930 circa).  Senza dubbio è la bibliografia fondamentale per il Quaternario, per uno studioso cha abbia operato tra le due guerre mondiali, E dopo ?  a leggere la bibliografia dell’articolo pare che la geologia si sia fermata parecchie decine di anni fa, esclusi ovviamente gli articolo di Fabio…Se si vuole criticare la teoria glaciale, no peggio che criticare proprio cancellare la teoria glaciale, non si può ignorare  che nel giro di 20 anni  o poco  più  nella seconda metà  del secolo scorso nasce una nuova disciplina: la geochimica isotopica. Le variazioni degli isotopi stabili dell’ossigeno sia sui gusci di alcuni organismi marini sia soprattutto nei ghiacci dell’Antartide e della Groenlandia  hanno portato nuova  luce  sui cambiamenti del nostro pianeta. Non posso fare una breve sintesi della teoria e dei postulati della geochimica isotopica, proverò a sintetizzare alcuni concetti fondamentali. L’acqua di mare ha un certo rapporto fisso tra  16O, 17O e 18O, i tre isotopi stabili dell’ossigeno. I processi di evaporazione tendono a privilegiare gli isotopi più leggeri per cui il vapore acqueo è più..leggero dell’acqua di mare. Ma i processi di condensazione tendono a privilegiare invece gli isotopi più pesanti, per cui le precipitazioni, attraverso i fiumi e  le acque di scorrimento superficiale raggiungono il mare e rapidamente ripristinano l’equilibrio inziale. Questo vale in condizioni di minimo volume delle calotte polari. Se la temperatura media dell’atmosfera del pianete tende a diminuire, il volume dei ghiacci polari aumenta, rallentando il ritorno delle acque dolci agli oceani e cambiando i rapporto isotopico dell’acqua di mare. In questo modo le variazioni isotopiche dell’acqua di mare e dei gusci dei foraminiferi che usano l’Ossigeno sono in correlazione con i volumi delle calotte polari e, in ultima analisi, con il clima. Altre informazioni sull’argomento si possono trovare in Stenni, 2003 e 2008 e nel libro di Smiraglia, utilissimo.
Quello che sappiamo,  sulla base dei dati  di geochimica isotopica (sia su depositi marini che sui ghiacci antartici e della Groenlandia; Orombelli, 2005; Petit et al., 2009, Epica, 2005) è che negli ultimi 2.6 milioni di anni la temperatura media dell’atmosfera è cambiata al massimo di alcuni gradi (8-10 °C) per  molte volte e che alcune di  queste oscillazioni hanno portato a sensibili variazioni di volume delle calotte polari, modificandone la loro estensione areale e volumetrica.
Contemporaneamente il moltiplicarsi di indagini paleoclimatiche su ghiacci, sedimenti marini, sedimenti lacustri, speleotemi, ha portato un arricchimento delle informazioni, ma paradossalmente a complicare il quadro delle informazione stesse. In effetti non è più pensabile  uno schema semplice, che valga per l’intero pianeta, con il clima che si raffredda sulla globalità del pianeta, tutti i ghiacciai che avanzano per passare ad una fase calda, globale, con un ritiro generalizzato su ambedue gli emisferi.  Si parla di “bipolar see-saw” di altalena tra i poli, proprio a sottolineare che i fenomeni di raffreddamento sembrano essere iniziati nell’emisfero settentrionale, per poi..spostarsi in quello meridionale. Ma se è ovvio che nelle aree polari e nelle zone montuose delle medie latitudine queste variazioni climatiche si esprimono attraverso un aumento dell’estensione e del volume dei ghiacci, nelle zone equatoriale l’effetto è un’alternanza di periodi secchi e piovosi. Addirittura  certe variazioni nella composizione isotopica vengo interpretate come variazioni nei percorsi e/o nelle aree di provenienza delle perturbazioni. Pensate come sono diverse le perturbazioni e le precipitazioni sulla nostra regione a seconda se il maltempo sia dovuto ad un fronte di origine atlantica o di origine polare.
Quindi qual è stato il clima nel passato  da noi sul carso e sulle Alpi. ? il problema degli effetti locali delle variazione climatiche alle medie latitudini  è aperto e può darsi benissimo che  nelle cavità carsiche siano più evidenti gli effetti geomorfologici e sedimentologici dei periodi interglaciali piovosi rispetto a fasi fredde/secche che magari hanno occupato intervalli temporali più ampi. Questo è un problema scientifico da risolvere, così come è un problema ancora più complesso capire che ci facevano gli orsi a quote molto elevate sulle Dolomiti. E su questo tema c’è ampia bibliografia, non facile da recuperare. Io ho trovato un articolo di Fiebig e Pacher del 2006 che riporta altri 9 articoli in bibliografia e un altro dall’interessante titolo  “Was the middle Wurmian in the high Alps warmer than today ?” i cui si discutono i dati relativi a 10 caverne in ambiente alpino con resti di orsi databili dai 65.000 a 30.00 anni fa, compresa la caverna  sulle Conturines  In bibliografia sono citati altri  42 lavori. Datemi il tempo di studiarli, con attenzione, ma nei ritagli di tempo, e poi, se vorrete ne riparliamo.
Ma non mettetemi in dubbio l’esistenza delle glaciazioni.  Sarebbe come mettere in dubbio che la terra gira intorno al sole. Io al sistema eliocentrico ci credo ! anche se ogni giorno vedo il sole sorgere ad est e tramontare ad ovest.
                                                                                      Furio Finocchiaro

Bibliografia

  • Burnett A.P., Soreghan M.J., Scholz C.A., Brown T.E., 2011. “tropical east African climate and its relation to global climate: a record from lake Tanganyka, tropical east Africa, over the past 90+kyr.” Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, 303, 155-167.
  • Döppes D.,  Rabeder G., Stiller M., 2011 “Was the middle Wurmian in the high Alps warmer than today ?. Quaternary International, 245, 193-200.
  • EPICA community members, 2005. “Eight glacial cycles form an Antarctic ice core” Nature, 429, 623-628
  • Fiebig M.,  Pacher M., 2006  “Alpine Cave bears anc climate in marine isotope stage 3”, Sceintific Annals, Aristotile University of Thessaloniki, special. volume 98, 251-256.
  • Fritz S.C et al., 2004. Hydrologic variation during the last 170,00 years in the southern hemisphere tropics of South America”. Quaternary Res., 61, 95-104.
  • Lyons et al., 2011. “Late Quaternary stratigraphic analysis of, the lake Malawi Rist, East Africa: an integration of drill-core and seismic-refleciton data” Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, 303, 20-37.
  • Orombelli G., 2005. “Cambiamenti climatici” Geograf. Fis. Dinam.Quat., suppl. VII, 15-24.
  • Petit J.R. et al., 2009. “Climate and atmospheric history of the past 420 000 years from the Vostok ice core”, Antarctica. Nature, 399, 429-436
  • Smiraglia C, 1992. Guida ai ghiacciai e alla glaciologia, Zanichelli, 240 pg.
  • Stenni B., 2003. Applicazioni degli isotopi stabili in paleoclimatologia: le carote di ghiaccio. Studi Trentini Sci.Nat., Acta geol., 80, 17-27
  • Stenni B, 2008. “La cassaforte del clima terrestre”, Darwin, gen.feb 2008, 50-55.
  • Venturini C., 1988. “L’anfiteatro morenico del Tagliamento: evdenze di archi wurmiani sepoli nelle alluvioni dell’alta pianura friulana e relative implicazione glaciali e neotettoniche.” Gortania, 10, 65-80.
  • Zanferrari et al. 2006. Note illustrative delle carta Geologica d’Italia Fglio 066 Udine F.066. APAT,176.P

NOTA. Molti di questi articolo si trovano facilmente su internet, di quasi tutti ho il file pdf, se vi interessano, chiedete pure.

Caverna ossifera delle Cunturines e il problema del glacialismo pleistocenico

A ulteriore contributo della tribuna scientifica che si è aperta sull’argomento Mario Galli replica in data 8 febbraio  2016 con il seguente testo:
Non posso essere d’accordo con l’editoriale che precede queste note, nel quale tutto viene ricondotto nella categoria delle opinioni (giuste oggi e sbagliate domani o viceversa). Progressione non è una rivista scientifica, ma una rassegna di attività e di “riflessioni”; è però anche il biglietto da visita della Commissione Grotte verso il mondo esterno, per cui se vi si affrontano argomenti scientifici di tanta rilevanza  (“il periodo glaciale non è mai esistito”) è imprescindibile un’impostazione rigorosa nella loro trattazione e non è possibile sorvolare su vari temi che impongono invece un’analisi approfondita. La redazione doveva pertanto invitare gli autori ad effettuare sull’argomento un “supplemento di indagine” e a prendere in esame almeno una parte, per la loro discussione ed eventuale confutazione, delle pubblicazioni ora citate da Furio Finocchiaro, oltre alle Note illustrative della nuova carta geologica d’Italia al 50.000; il reperimento di questo materiale non era per niente difficile coinvolgendo il direttore responsabile della rivista, professore di geologia all’Università di Trieste.
Beninteso, una revisione delle conoscenze sul glacialismo pleistocenico sarebbe quanto mai auspicabile, integrando i dati delle recenti ricerche paleo-ambientali con lo studio dei depositi di riempimento delle grotte – come proposto dagli autori – ma la strada da percorrere è ancora lunga, prima di giungere ad un attendibile inquadramento cronologico dei fenomeni.
Nel merito dell’articolo di Fabio e Fulvio Forti e della replica di Furio Finocchiaro, mi sembrano dunque opportune alcune precisazioni.
Per quanto riguarda la “coltre compatta di ghiaccio” che avrebbe coperto tutte le nostre Alpi, Torquato Taramelli in realtà aveva sempre parlato di ghiacciai vallivi ed aveva accennato ad uno spessore di ghiaccio di 700 metri non sopra le cime ma al di sopra del fondovalle; per citare con precisione le sue parole, egli  aveva scritto nel 1870 che il ghiacciaio del Tagliamento “scese con un massimo spessore di 700 metri fino a 80 chilometri dalla origine di quel fiume”, cioè fino alla cerchia esterna dell’anfiteatro morenico, e non per 80 chilometri nella pianura. Negli anni seguenti egli aveva bensì sostenuto che il ghiacciaio del Tagliamento in una più antica fase di massima espansione “scendesse nel mare”, formulando tale opinione in base al ritrovamento di massi erratici di roccia porfirica sui colli di Buttrio e sul Carso isontino ed all’assenza di cordonate moreniche fino all’attuale linea di costa.
Sorprende inoltre l’affermazione degli autori che nelle Dolomiti “torri, torrioni e pinnacoli sono morfologie derivate esclusivamente da eventi piovosi, dissolutivo-erosivi … tipici esempi di erosione selettiva attuati da un’intesa piovosità, condizionati dalla litologia delle singole località”. Questo può valere infatti nelle fasi morfogenetiche iniziali in cui vengono “sbozzate” grossolanamente le forme del rilievo, mentre è opinione acquisita che siano stati principalmente i crolli, avvenuti lungo le superfici di fratturazione della roccia, ad avere modellato pareti e guglie della montagna dolomitica. Indubbiamente “è difficile credere che tali torrioni si siano formati nell’arco degli ultimi 12 mila anni” (il periodo del raffreddamento olocenico ipotizzato dai due autori), ma sono sicuramente più antiche anche tutte le morfologie dell’alta montagna che testimoniano espansioni glaciali del passato molto maggiori dell’attuale (per esempio le soglie glaciali “lavorate” dal carsismo superficiale).
L’affermazione che tutto il Pleistocene sia stato caratterizzato da periodi temperati e caldo umidi contrasta inoltre con le risultanze delle analisi polliniche e paleobotaniche, delle datazioni radiometriche e delle indagini isotopiche (Marine Isotope Stages) sui carotaggi eseguiti negli ultimi venti anni nei sedimenti della Pianura friulana, sondaggi CARG in particolare. Da questo complesso di studi emerge una successione ciclica di fasi forestali di clima temperato caldo con altre di clima oceanico e fresco, in alternanza con fasi steppiche di clima continentale e arido. Del resto cicli climatici della durata di centinaia di migliaia di anni possono essersi avvicendati più volte nell’arco dei due milioni di anni del Pleistocene.
Inoltre, senza voler sottovalutare gli effetti delle violente fiumare pleistoceniche, riesce difficile da immaginare come queste avessero potuto trasportare per grandi distanze massi erratici come quello di una cinquantina di metri cubi di dolomia segnalato nel 1861 da Giulio Andrea Pirona nella zona tra Fagagna e Martignacco, sulla cordonata più esterna di quella cerchia di basse colline da allora considerata l’anfiteatro morenico del Tagliamento. Riesce anche difficile da immaginare come la stessa costruzione di tale anfiteatro possa essere avvenuta per la sola azione delle “correnti diluviali” – per quanto catastrofiche – tanto lontano dagli sbocchi vallivi.
Per la materia io non possiedo gli interessi “professionali” di Furio Finocchiaro. A me basterebbe sapere come sono arrivati, se non trasportati da un ghiacciaio, i blocchi di roccia quarzosa che avevo visto agli stavoli di Costalunga sopra Roveredo e sul pendio dello stavolo Breisi, a 7-800 metri di altezza sul fondovalle. Ardito Desio (1927) li aveva definiti “puddinga quarzosa carbonifera”  – proveniente dalla dorsale di Pramollo – e segnalati in molti altri luoghi sulle pendici del Canal del Ferro.
                                                                                                            Mario Galli