IL “NONNO” RACCONTA… POZZO DI CIMA PARADISE

1944-1959. Quindici anni! Un lasso di tempo incredibilmente lungo per un giovane di diciott’anni. Un lasso di tempo incredibilmente breve per una persona che ha raggiunto la mia età.
Presso la Commissione Grotte sono ormai rimasti pochi i soci che sono a conoscenza dei fatti che sto per narrare. La reticenza nell’esternare tali fatti mi era stata consigliata dai consoci più anziani, quelli che avevano fatto la guerra, ben sapendo loro che certe pubblicità, certi resoconti, potevano provocare (in quei tempi) conseguenze imprevedibili e deleterie. Per questo motivo negli articoli comparsi sui quotidiani dell’epoca non figurava mai il nome della C.G.E.B., né tantomeno i nomi degli speleologi in tale vicenda coinvolti.
Sono passati cinquantadue anni da allora e non penso che questo mio racconto possa ancora urtare la suscettibilità e la “privacy” dei principali protagonisti rimasti sconosciuti e forse non più viventi.
Grazie alla documentazione fornitami dall’impareggiabile amico Pino Guidi, compagno di innumerevoli avventure speleologiche, ho potuto stilare questo articolo su una vicenda di cui mi era rimasto soltanto un barlume di memoria.
I giorni 15 e 16 settembre 1958, con l’autocarro militare messoci come sempre a disposizione dall’Esercito Italiano, abbiamo raggiunto la località Paradise sull’altopiano del Cansiglio per esplorare e rilevare una cavità individuata tempo addietro dai soci Sergio Duda e Dario Marini durante una loro battuta di zona. Leggendo le note in mio possesso ho provato un tuffo al cuore! Non me ne voglia la Redazione per lo spreco di spazio scritturale messomi a disposizione, ma i nomi dei partecipanti a quella lontana mini-spedizione li voglio proprio citare: Sergio Duda capogita, Giorgio Coloni, Mario della Valle, Adalberto Kozel, Matteo Boianovich, Luciano Filippi (Filipas) con un amico, Uccio Parisi, Livio Forti, Franco Gherbaz, Giovanni Scheriani (Nino Prete) e – ovviamente – io che scrivo. Quanti ricordi, quanti amici, Quelli ancora rimasti si possono contare sulle dita di una mano! Attingendo dalla relazione catastale di Franco Gherbaz la cavità in questione (un P. 35) “si trova presso un sentiero che costeggia il bosco, all’altezza del Can de Piera, sul declivio di una depressione doliniforme. Questo avvallamento è uno dei primi della lunga serie di doline che dal Can de Piera scendono verso l’orlo dell’altopiano sopra Sacile…”.
Raggiunta la depressione doliniforme citata poc’anzi ho notato che sul fondo della stessa era stato tagliato un gran numero di giovani abeti. Ho pensato che lo avessero fatto per procurarsi degli alberi natalizi.
Si è quindi provveduto ad armare la cavità e, da quello che mi ricordo, sono stato il primo ad effettuare la discesa. Un paio di metri sotto l’ingresso il pozzo si amplia notevolmente all’altezza di un aguzzo sperone di roccia sul quale ho notato uno straccio nero punteggiato di bianco. “Guarda un po'” mi son detto alquanto stizzito “persino in questo luogo sperduto hanno gettato dei rifiuti”. In breve sono arrivato sul fondo costituito da un groviglio di tronchi e ramaglie poggianti sui soliti detriti di base. Visitato il visitabile sono risalito, liberando dalla mia presenza il pozzo dalle pareti estremamente franose. Non mi rammento quanti altri siano scesi, due sicuramente: Franco Gherbaz per la stesura del rilievo topografico e Livio Forti, allora nostro valido e competente entomologo. Si deve a lui, qualche tempo dopo, la scoperta di una nuova specie di Orotrechus cui è stato dato il suo cognome latinizzato: “Orotrechus fortiis” (vedi Progressione 51, “Il nonno racconta…”).
È stato proprio Livio, rimuovendo il pietrame del fondo alla ricerca di animaletti cavernicoli. A fare la poco entusiasmante e macabra scoperta: un teschio umano! In realtà, come è stato appurato il 13 settembre dell’anno successivo, gli scheletri erano tre.
Si trattava sicuramente di persone gettate nel baratro – infoibati, come genericamente si dice – durante la guerra di Resistenza o Civile come viene chiamato quel tragico periodo della nostra storia. Solo allora ho capito a cosa era servito quel taglio di abeti che crescevano sul fondo della depressione: altro che per festeggiare il Natale, lo scopo era di occultare i resti di quei tre disgraziati. Lo straccio da me notate sullo spuntone sotto l’ingresso non era un rifiuto, ma apparteneva al vestiario di una delle tre vittime.
Avvisate le autorità competenti del macabro rinvenimento e confermata la nostra disponibilità per il recupero dei miseri resti siamo rimasti in attesa di essere convocati.
12-13 settembre 1959
Per la nostra pietosa opera di recupero il camion militare ci era stato negato dal Comando Territoriale. Presumo che, per vie traverse, alle autorità competenti per la concessione del mezzo sia giunto alle orecchie il motivo della nostra richiesta (recuperare i resti di quelli che potevano essere stati dei fascisti uccisi dai partigiani) per cui hanno ritenuto opportuno non immischiarsi: erano passati soltanto quindici anni dai fatti descritti e gli animi di certe persone erano ancora in subbuglio, anni in cui parlare di foibe e di infoibati non era considerato “politicamente corretto”.
Siamo partiti sabato 12 settembre alle ore 15 con due macchine private sulle quali avevano preso posto i sottoscritti amici e conosci: Gianni Cesca, speleologo degli anni Venti, Aldo Bobek, Augusto Diqual, Franco Gherbaz, Gianni Vescovi, Sergio Duda, Enrico Davanzo e – naturalmente – lo scrivente. Leggendo la documentazione recuperata da Pino nel Catasto Storico della Commissione Grotte, ho scoperto che l’autista della vettura in cui avevo preso posto era Enrico Davanzo.
Come stabilito dalle Autorità locali, alle ore 7 del 13 settembre ci siamo incontrati in località Crosetta con il Procuratore della Repubblica e con il medico legale di Polcenigo, accompagnati dai carabinieri; quindi siamo partiti unitamente al seguito giudiziario verso il pozzo di Cima Paradise, conosciuto dagli abitanti del luogo come “Buse della Sperlonga”, anche se, probabilmente, questo nome si possa riferire a un’altra cavità.
Alle ore 10 siamo arrivati alla depressione e, dopo aver armato il pozzo, sono scesi Diqual, Bobek e Duda. In base ai dati in mio possesso, più tardi sono sceso anch’io, anche se di questo non ho memoria. Per poter eseguire l’opera di recupero e di ricomporre pietosamente i miseri resti è stato necessario un faticoso lavoro di accatastamento di tutto il materiale fattovi precipitare (tronchi e rami di abeti) nonché del pietrame. Finalmente i macabri fardelli sono stati issati all’esterno, alla luce del sole dopo quindi anni di buio. Dopo le prime sommarie constatazioni da parte del medico legale e del magistrato, i resti sono stati presi in consegna dai carabinieri, per un futuro e più attento esame. Con le povere ossa sono venuti in superficie alcuni oggetti appartenuti alle vittime: un temperino, una matita, un fornello di pipa, un fondo di tabacchiera forato da una pallottola, una catenina con immagine sacra.
Concluse dopo tre ore le operazioni all’interno e all’esterno della cavità e dopo aver ricevuto le congratulazioni ed i ringraziamenti delle Autorità, abbiamo fatto ritorno a Trieste.
Sul giornale “Il Gazzettino” del 18 settembre si leggerà che è stato identificata una delle vittime: Mario Azzolin, classe 1892, gestore di un distributore di benzina a Belluno. Doveva passare un’allegra serata con degli amici. Non è più rientrato a casa.
Sono passati ben 67 anni da quel tragico 1944 e presumo che i responsabili dell’uccisione di quelle persone siano deceduti. Le loro anime finalmente rappacificate con quelle delle loro vittime hanno potuto raggiungere assieme l’empireo celeste.
Se per qualche divino impedimento ciò non fosse stato possibile non si dovrebbero compiangere. Esse sono ormai felici e tranquille, continueranno a vagare tra le splendide foreste del Cansiglio e le abetaie di Cima Paradise che non a caso porta questo nome.
Natale Bone