1983 – Cento anni di amicizia

CENTO ANNI DI AMICIZIA A SFONDO SPELEOLOGICO

Da sinistra: Augusto Digual (un emerito barabba porto il secondo …)

Pubblicato sul n. 11 di PROGRESSIONE – Anno 1983
Per felice coincidenza un privato argenteo anniversario si è sovrapposto al secolo della bisnonna CGEB, tra le cui sottane è cominciata del resto 25 anni fa l’amicizia di quattro ragazzi di borgata che non si sarebbero mai incontrati senza le grotte, scenario insostituibile davanti al quale si è dipanata una storia che è ogni giorno più bella.
Per far le cose in ordine occorre ricostruire l’epoca, il luogo ed il clima umano in cui tutto ebbe inizio per un convergere di rotte che diremmo fortuito se non fosse dimostrato che la casualità non esiste, accadendo ogni cosa in relazione a comportamenti dovuti alla nostra indole ed alle scelte conseguenti: quando la PASTA FISSAN mitigava i nostri primi dispia­ceri vi era già in noi un’impronta comune ed un corredo di latenti propensioni che più tardi ci avrebbero fatto prendere quella strada lungo la quale ci siamo imbattuti. Faber est suae qui­sque fortunae. E infine significativo che mentre da tale incontro è nata un’armonica e duratura cenòsi, altri semi finiti allora nel medesimo eutrofico substrato hanno dato piànte effimere o solitarie, più adatte ad impoverire il suolo che a dare frutti.
C’era una volta dunque in Via Milano un edificio d’angolo, squadrata costruzione tere­siana per mercanti cha badano al pratico, fac­ciate disadorne, ampia linda a far solecchio e parapioggia ai fondachi e magazzeni del pian-terra dalle volte nervate da cattedrali, odori stagnanti di droghe leggere (noce moscata, cannella, non altro), mastri velai che cucirono ancora per noi sacchi da grotte e gli scafandri di Sciacca, ultimi nell’arte perduta di far «piomba-dure» su cavi d’acciaio e funi per radance adatte ai moschettoni giganti da pompiere rossi e neri.
Qui al primo piano la Commissione stava dal 1936 e Boegan vi aveva assemblato l’estre­mo monumento al sacro fiume, sostituendo alle parole alate del divino Gabriele grafici e tabelle di una vita trascorsa ad interrogare con muli­nelli e galleggianti l’anima fluida del grande sepolto. Qui nacquero alla grotta l’ignaro Del­fino Carlo, Ciano l’enfant prodige, l’efebico Walter, Giulio il floreale e l’acherontico Kluno con l’osso de persùto (guai a voi, gioventù de merda). Qui si presentarono per la seconda volta monturati teutoglotti in cerca dei rilievi già emigrati a Lòngera e sventolarono i tricolori della nuova redenzione (o caro Giòni co’ ti te son partì…), ma a questo punto la narrazione passa in diretta perchè ormai c’ero anch’ie, ragazzetto molto serio con gli occhiali cerchiati d’oro che entrava in punta di piedi nelle austere stanze sperando di vedere Eugenio intento alla Valsecca di Castelnuovo o Battaglia con la mandibola della 3869. Dalla soffitta precipita­vano cordoni per la tromba delle scale e la polvere d’argilla si infiltrava nello stambugio dove il prence Gargiulo studiava l’anatomia dei troglobi e di altri organismi superiori (nela note misteriosa anche i bacoli…). Il GARS nostro potente dirimpettaio dominava e quale castigo ad un lancio di pipistrelli il povero Ucio Vianello finì in 40 m di corda dentro al cesso, con simbo­lica calata d’acqua (e tiremo la cadèna fin che l’ultimo sarà).
I tempi erano come si suol dire felici, ognuno aveva papà, mamma e anche quattro nonni, gli antagonisti della speleologia (lavoro, morose, mogli e fiòi) nemmeno in vista, mentre la quasi totale mancanza di denaro era compensata da una incredibile stabilità economica, grazie alla quale un piatto di pastasciutta costò per molti -anni sempre 150 lire. Il nostro resi­dence era il fienile sopra le vacche di Milic e un piatto freddo in comune rappresentava il com­penso per un giorno di lavoro alla Gigante, che allora andava a carburo. L’abisso Bertarelli era storia recente e vari personaggi leggendari erano presenti, soprattutto Gianni Cesca che ci seguiva con la sua fatale VW, guantiere di pastine ed occhio d’amore per i continuatori della tradizione. Noi avevamo un grande ri­guardo per questi mitici vecchi e ascoltavamo attenti i racconti delle loro avventure, perfetta­mente comprensibili perché gli attrezzi e le tec­niche erano sempre gli stessi: attacco su tronco incastrato, carrucola in bronzo da 6 kg, altime­tro Bus de la Lum 1924, fotocamera Nette] a lastre, bussola d’ottone in scatola di legno. Ogni seconda domenica un camion della guer­ra d’Etiopia (gomme piene) ci prelevava a notte fonda e l’alba verso Monfalcone mostrava corpi inerti riversi su canotti ROYAL AIR FORCE e mucchi di trornbini (lassa star i stivài alti del Maestro!); davanti si apriva un Friuli immenso e misterioso come il West, presto l’asfalto finiva e quando la sponda cadeva a Pradis o in Cansi­glio ne rotolava fuori un’orda abbrutita di pol­vere e nafta la cui tracotanza si spense solo nel gelo del Polidori. Sulle vie dei rientro dal Carso (Scala de le vache, Monte Spacà, Valico de Trebic, Scala Santa) la comitiva – pesanti sullo zaino – si sgranava tipo sette nani per oscuri «Idànz» il cui fondo diseguale rompeva l’armo­nia di cori già alterati dal vino (ne la plaza de toros de Seviglia…) ed ai primi lampioni subur­bani si faceva la verifica dei mancanti, infratta­tisi con qualcuna delle prime «mule», le quali ad un certo punto ci snobbarono per formare una squadra tutta femminile, nostro primato asso­luto (1956) piuttosto trascurato.
Al venerdì la congrega officiava riti propi­ziatori per la scoperta dell’abisso senza fondo, sorta di pietra filosofale che il destino ci aveva chiamato a trovare, e manipoli partivano in treno o in lambretta a verificare divinazioni ispi­rate dal richiudersi di isoipse su opportune strutture geologiche. Si viveva in un’esaltante atmosfera di bohème-goliardia-filibusta a sfon­do atletico, il concetto del disastro era tanto estraneo da rendere divertenti situazioni che avrebbero spaventato qualsiasi persona nor­male.
Alla legione sotterranea si univano sempre nuovi elementi della più varia specie ed indole: simpatici cialtroni, faccendieri senza scrupoli, eroi degli abissi, pseudostudiosi, mistici fuor­viati e disadattati sociali, ma nemmeno il più evidente lazzarone veniva respinto a priori, perchè tra l’uomo di punta ed il «servis» che portava i piatti in tavola c’era una grande varietà di ruoli ed ognuno poteva essere utile. La selezione spontanea veniva dopo, molti capivano di non essere tagliati per le grotte, altri si vedevano negato lo spazio che credevano di meritare, mentre i rimanenti restavano finchè non erano vittime di uno dei citati rivali della speleologia. In questo continuo ricambio l’ac­coglienza dei neofiti si svolgeva senza formalità o particolare compiacimento e gli addetti alla récèption eravamo io e Marino Vianeilo quali coordinatori delle attività catastali ed esplora­tive, ai fini delle quali si sperava sempre in qual­che soggetto più capace e durevole. E fu così che in poco tempo ne arrivarono tre, tanto durevoli che sono qui da 25 anni.
Si era alla fine del 1957 quando — indiriz­zato dalla CIT della stazione FS — giunse il primo, un ragazzo dallo sguardo azzurro che attorno alla natale Aurisina non aveva più grotte fattibili con poche scale. Per fortuna la XXX – sigla vista su vari ingressi – non aveva la sede nella via omonima, dove una ricerca risultò quindi infruttuosa. Qualche mese dopo un emerito barabba portò il secondo, frutto deiscente di uno Speleo Club in disarmo, ed infine approdò l’uscocco vagabondo, il quale da un sacro testo aveva saputo come in quest’ul­timo porto grotte dal 1883 era Commissione. Destino volle che ogni volta fui io a scortare i nuovi ospiti nella stanza del gran tavolo verde, mai pensando che questi tre – non diversi da tanti altri – sarebbero stati con me per il resto della vita. Pur nella svagatezza dei 18 anni non tardammo a preferirci d’istinto tra molti, ma quel primo 1958 fu inadatto a perfezionare il rapporto di simpatia perchè una serie di impor­tanti esplorazioni ci separò e distolse. Non starò a raccontare quello che è accaduto nel seguente quarto di secolo, nel quale vi furono inevitabili periodi di stasi e lontananza, ma il filo che ci univa non poteva più rompersi. Per la strada abbiamo perso centinaia di compagni, tanti senza rimpianto, alcuni invece in uno dis­tacco improvviso e tragico; altri ai quali ave­vamo dato amicizia se ne sono andati con una indifferenza che ci ha fatto male. A rinsaldare il nostro sodalizio vi è dunque anche il senso di solidarietà che unisce i pochi superstiti di una navigazione lunga ed avventurosa, orientata sulla stella della CGEB, alla quale abbiamo dato tanto senza chiedere nulla. Se molti sono i leganti della nostra unione, la Commissione resta tuttavia l’insostituibile catalizzatore, la bandiera che ci piace sventoli su ogni nostra opera, anche al di fuori della speleologia.
La foto che accompagna questo articolo è risultata senza premeditazione emblematica: quattro ragazzi d’annata, una grotta millenaria, materiali da museo, un antico strato calcareo. Tutta roba vecchia insomma, ma ancora buo­na, sicura, durevole. Anche se non compare è percepibile l’elemento più importante, la con­tentezza dei quattro di essere un’altra volta insieme sopra ad un pozzo superato con la stessa bravura del 1958. Senza il grigio nella barba e gli spit per terra potremmo credere di aver trovato fl segreto per fermare il tempo e restare eternamente così, forti, inseparabili, protetti dal campo di forza della nostra amicizia dalle ansie – vere o fittizie – che affliggono gran parte dell’umanità.
                                                                                                                                                                                                                                         Dario Marini