GIORGIO BORTOLIN – Trieste 1936- Trieste 10.9.2011
E’ stato socio della CGEB dall’anno 1957
Aveva cominciato ad andare in grotta con la Commissione nel 1956, entrandovi l’anno seguente. Forte esploratore, partecipò a tutte le uscite dell’Alpina (come era conosciuta allora la “Boegan”), sul Carso e nel vicino Friuli, organizzate sul finire degli anni ’50 dalla Squadra della Muerte, il forte gruppo di esploratori della Commissione creato e coordinato da Luciano Saverio Medeot, mitica figura di speleologo d’ante guerra. Assieme a Guido Toffolini, Giorgio si era specializzato nella “sicura”, parte della tecnica esplorativa che in quei anni risultava essenziale per la buona riuscita delle escursioni sotterranee in cavità caratterizzate da grandi pozzi: il loro supporto nella risalita delle verticali di cento e più metri verrà ricordato per anni quale esempio di forza e sensibilità. Fra le varie esplorazioni del 1956 c’è quella nell’Abisso della Volpe, 155 VG, un baratro di 180 metri interrotto a -60 da un ripiano franoso; nel 1957 diventa l’uomo di punta nelle esplorazioni alle Stufe di san Calogero; l’anno dopo lo vediamo sul Carso all’abisso II di Gropada, 1720 VG, nel Friuli all’Abisso Polidori, 478 Fr, e all’Abisso del Col della Rizza, 410 Fr, in Veneto partecipa alla spedizione alla Spluga della Preta, 1 V, in Sicilia nuovamente alle Stufe, nella spedizione che collauda le prime tute rinfrescate da aria insufflata attraverso un complesso sistema di tubi collegati con un grosso compressore sistemato all’esterno. Nel 1959 è di nuovo all’Abisso Polidori con la squadra che ne raggiunge il fondo.
Dal Catasto si ricava come fra il 1957 e il 1858 abbia collaborato alla stesura dei rilievi di grotte del Friuli (Cansiglio, Bernadia, Pradis) e del Carso triestino; per un anno – nel 1959 – fece parte del Direttivo della CGEB, in rappresentanza dei giovani.
Ma nella Commissione il suo ricordo è legato soprattutto alle grotte vaporose di Sciacca. Come detto, partecipò alle spedizioni del 1957 e del 1958; nella prima fu scelto, in virtù della sua preparazione atletica e psicofisica, per scendere per primo il pozzo interno delle Stufe di san Calogero ove percorse quella che sarà poi chiamata “Galleria Di Milia” scoprendovi i grandi vasi preistorici.
Impegni di famiglia e di lavoro gli fecero abbandonare la Commissione nel 1960, al pari di buona parte di quella squadra che nella seconda metà degli anni cinquanta risollevò le sorti di una Commissione Grotte provata dalla guerra e dalla defezione, nei primi anni di quel decennio, di alcuni validi esploratori.
Pino Guidi
Giorgio Bortolin. I miei ricordi
Ero poco più di un ragazzo quando, nella sede sociale – sita in quei tempi in via Milano – dove ero giunto negli ultimi scorci dell’anno 1957, ho conosciuto Giorgio Bortolin. Di primo acchito la sua presenza mi metteva alquanto a disagio, vuoi per il suo aspetto serio e severo, vuoi per la differenza di età: era più vecchio di me di ben quattro anni! In seguito, conoscendolo meglio, mi sono reso conto che si trattava di un ragazzone simpatico, alla mano, ma non sempre era disposto a tollerare gli scherzi goliardici degli altri consoci. Certo è che era piuttosto portato a brontolare, sia a ragione che a torto e, per questo motivo, storpiando il suo cognome, gli era stato affibbiato il soprannome di “Brontolin”.
Come grottista era un esploratore di prim’ordine: competente, attento, mai temerario! Il suo equipaggiamento ipogeo, come allora i tempi imponevano e/o permettevano, consisteva in una tuta da meccanico, serrata in vita da un cinturone da pompiere sui cui anelli pendevano numerosi moschettoni in acciaio di varie grandezze e forme, la classica lampada a carburo di marca “Stella” (che, come tutti i grottisti, durante le esplorazioni teneva appesa nell’incavo tra il pollice e l’indice), scarponi da montagna, un bellissimo elmetto italiano della Grande Guerra (che tanto gli invidiavo) verniciato di nero e sul quale era montato un fanale di bicicletta la cui lampadina “micro mignon” veniva alimentata dalla solita pilla quadrata da 4,5 Volt. A completare tale corredo l’accessorio più importante era il fischietto “Balilla” che andava tenuto appeso al collo e serviva a dare i segnali necessari agli amici, piazzati sull’orlo dei pozzi, addetti alle manovre di sicura: un trillo “ferma”, due trilli “lasca” (lascia andare, molla, allenta), tre trilli “recupera”. Guai a non avere con sé quel piccolo e squillante strumento: una volta che non l’avevo con me, Giorgio mi ha vietato di scendere in una grotta fino a quando me lo sono fatto prestare da un compagno. Logicamente quella mia mancanza è stata “punita” con il pagamento di qualche litrozzo di vino nel dopo grotta in osteria.
Durante le mie prime uscite sul Carso con la Commissione Grotte, sono sceso nel Pozzo II presso Borgo Grotta Gigante, 2691 VG. In quella occasione era presente anche Giorgio ed io mi sono sentito “grande” e grottista maturo in quanto nel calarmi nel pozzo esterno di 60 metri, ho avuto il privilegio di scendere in “tandem” con lui (per le generazioni post anni ’70 dell’altro secolo: nelle grandi verticali si scendeva in due, distanziati sulla corda di sicura di cinque-sei metri). Il motivo ella nostra piccola spedizione in quella grotta consisteva nell’allargamento di una micidiale strettoia situata sul fondo del pozzo principale, a ridosso di una parete. La strettoia in oggetto era segnalata, ancora intonsa, a pagina 175 del libro “Il Timavo” di Eugenio Boegan. Per i lavori di allargamento in quei tempi non esistevano ancora i mezzi di cui oggi si dispone, ma soltanto punta e mazzetta. Durante i lavori, con il corpo disteso in un’ingrata posizione e probabilmente per un falso colpo d’occhio, Giorgio si è menato una gran martellata sul dito pollice della mano sinistra, mettendo l’amico “fuori servizio” per alcune settimane (vedi Progressione 51, “Il nonno racconta…”).
Tanti anni dopo quel doloroso “infortunio” glielo ricordavo quando ci incontravamo in qualche bar a berci “un’ombra”.
Il suo modo ironico, forse alquanto dissacrante verso se stesso, l’ho potuto constatare nella Grotta di La Val, 340 Fr, allorquando eravamo impegnati nell’esplorazione di quell’interessante complesso ipogeo di Pradis nelle Prealpi Carniche. Lo sentivo a qualche passo davanti a me che armeggiava e sacramentava con la lampada a carburo nel tentativo di svitarne il beccuccio intasato: “guarda tu” mi ha detto “se una persona della mia età (aveva 24 anni…) debba venire in questi luoghi a beccarsi i reumatismi o peggio. Si vede proprio che qualche rotella in testa non gira nel verso giusto.” Forse è stato allora che mi è sorto il sospetto che io e gli altri speleologi siamo eroi della deficienza mentale.
Pure Giorgio in seno alla “C.G.E.B.” ha avuto i suoi momenti di plauso e gloria, scoprendo per primo i grandi vasi preistorici nelle grotte vaporose del Monte Cronio a Sciacca, durante le prime e pericolose esplorazioni in quell’ostica cavità, dove la temperatura raggiunge i 38° con il 100% di umidità. Alcuni anni fa il giornalista Ugo Salvini del quotidiano “Il Piccolo”, in occasione del cinquantenario dell’impresa, lo ha intervistato come veterano esploratore di quei lontani recessi sotterranei, dedicandogli un bell’articolo con tanto di foto nella rubrica “Storie di Trieste” (Il Piccolo, 4 dicembre 2006).
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All’inizio degli anni ’60 dell’altro secolo Giorgio ha smesso la sua attività speleologica e ben presto, purtroppo, il suo nome non compariva più nell’elenco dei soci della Commissione Grotte, alla quale comunque restava sempre affezionato. Il motivo del suo distacco non mi è noto, e neanche ho cercato di scoprirlo. Forse per via del lavoro (era ferroviere, come me), oppure per aver conosciuto Mariuccia, una bella e simpatica ragazza con la quale ha condiviso le gioie e i dolori che la vita gli ha riservato.
Poi hanno iniziato a tormentarlo varie malattie che sono riuscite a stroncare la sua pur forte fibra. Una settimana prima del suo decesso sono andato a trovarlo nell’ospedale di Cattinara, dove da qualche tempo era stato ricoverato. Gli ho portato l’ultimo numero della nostra rivista, Progressione 57: credo ne sia stato contento.
Quanto sia stato attaccato al mondo delle grotte lo dimostra il fatto che le sue ceneri, per suo espresso desiderio, saranno sparse nella voragine della grotta Noè, 90 VG, la prima da lui visitata.
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Caro Giorgio, se è vero quanto dicono, un giorno ci incontreremo ancora e parleremo della martellata sulle dita, di Sciacca, dell’Abisso Polidori e di tante altre cose, magari in compagnia di un buon bicchiere di vino.
Ciao, ti saluto!
Bosco Natale Bone
BORTOLIN, un uomo tranquillo.
Volgeva l’anno 1957, in una fredda e ventosa serata dell’ 8 gennaio alla stazione di Sciacca mi trovavo con Tinè ad accogliere gli amici Medeot e Coloni in arrivo con il locale trenino a scartamento ridotto; con loro tre giovanotti che non conoscevo. Provenivano da una esplorazione in Puglia; causa un interminabile e disagiato viaggio le loro condizioni erano piuttosto pietose: stanchi morti e sporchi all’inverosimile.
Non rivedevo l’amico Medeot dal 1947, quando ci eravamo salutati per trasferirci ambedue in terre lontane, con la promessa però di ritrovarsi un giorno per andare ad esplorare quella calda fumosa grotta siciliana, della quale avevamo iniziato discutere già nel lontano ‘42.
I tre giovani erano: Tommasini, Candotti e Bortolin, quest’ultimo allora il più mingherlino ma senza dubbio il più resistente. Ripuliti e riposati, tutti subito al lavoro; si comincia con la sistemazione delle scalette in quel maledetto viscido pozzo, col corpo ricoperto dal quel suo disgustoso caldo fango. Scendeva sempre uno da solo e con la sicurezza, mentre gli altri facevano manovra nella parte più alta; le comunicazioni erano mantenute a voce urlando più non posso.
Sistemato l’ultimo spezzone, quando sembrò il fondo fosse raggiunto, parte Bortolin, e qui comincia la grande avventura. Intravede la continuazione oltre una strettoia; intelligentemente, non fidandosi molto di noi che eravamo al posto di manovra, assicura la corda ad un masso e procede; non lo sentiamo più e così passa una diecina di interminabili minuti, la sicurezza è bloccata, si sarà sentito male; Coloni si precipita nel pozzo ma per fortuna subito cominciamo sentire le sue parolacce. Stava scaricando, prendendosela con lui che stava iniziando tranquillo la risalita, tutta la preoccupazione accumulata. Fresco come una rosa appena ci scorge “… la soto xe pien de vasi…” e noi “…andemo fora al fresco, sentite calmo, xè efetto del tropo sudore, te pasarà…”: ma lui apre la mano e mostra un’ansa di vaso. Non era stata una allucinazione, era tutto vero, e con grande semplicità, serafico come fosse la cosa più normale del mondo, comincia raccontare quello che aveva visto la sotto.
Ci siamo rivisti alla successiva spedizione del ’58 e poi a casa mia cinquant’anni dopo quando, lui sempre schivo, ho dovuto insistere per fargli fare una intervista in occasione dei 50 anni dalla scoperta. Questo era Bortolin e così ha continuato sino all’ultimo ad essere.
Sono ormai rimasto l’ultimo, mi piacerebbe essere ricordato come viene ricordato lui. A presto rivederci antichi cari amici d’avventura.
Giulio Perotti
Ulteriori notizie su Giorgio Bortolin si possono trovare in:
Perotti G., 2008: All’inseguimento di un sogno. Trieste 2008, pagg.88
Salvini U., 2006: Lo speleologo che riportò alla luce reperti di 4000 anni fa, il Piccolo, Trieste 4 dic. 2006