1989 – Inizio di una storia sul Canin

 

14 LUGLIO 1963, INIZIO DI UNA STORIA – QUELLA PRIMA VOLTA SUL CANIN

Luglio 1963, ma il prolungato rimbalzare dei sassi non ci impressiona un gran che… (Ab. Davanzo – Foto Marini)

Pubblicato sul n. 20 di PROGRESSIONE – Anno 1989
Ci vorrebbe davvero una vita intera per conoscere a fondo il mondo di favola del Canin (J. Kugy: A. Oitzinger, vita di un alpinista)
Questa è una storia che ho già raccontato molto tempo fa e nessuno la ricorda più, tranne noi tre che abbiamo vissuto quella giornata particolare, fatidica per la speleologia triestina quale inizio di una lunga stagione ricca di momenti esaltanti ed anche tragici. Credo sia raro saper indicare la data esatta della scoperta di una zona speleologica, ma per il Canin ciò è possibile e ne scrivo di nuovo proprio perché sono trascorsi venticinque anni da quel memorabile 14 luglio 1963, quando -come disse Antonio Berti per Grohmann e le Dolomiti – aprimmo con entrambe le mani la porta di un’area carsica tra le più importanti del mondo, nella quale i figli avrebbero continuato l’opera dei padri, lasciando a loro volta spazio bastante per un’altra generazione di esploratori. Erano già quattro anni che “battevamo” le zone montane delle Carniche e delle Giulie alla ricerca di risorgive e si andava quasi sempre in luoghi vergini o al più visti dal vecchio CSIF tanto tempo prima. Quel giorno eravamo saliti per vedere dove poteva esser assorbita l’acqua scaricata dal Fontanon di Goriuda, nel quale stavano lavorando da qualche anno i nostri sub, uno dei quali -Berti Kozel – era assieme a me e a Pino Guidi in quella brumosa mattina. A onor del vero non nutrivamo grandi speranze di trovar cose interessanti, il Canin era frequentato dagli alpinisti da quasi cento anni e nessuno aveva mai segnalato la presenza di grotte, De Gasperi – l’unico ad aver preso la zona in seria considerazione – aveva visto nel 1913 solo qualche fenditura cieca, mentre due gruppi di Trieste dopo aver disceso alcuni miseri pozzetti non erano più tornati, giudicando la zona sterile.

Luglio 1963 – alla base di un’alta parete stupendamente scanalata ( Foto Marini)

Unica nostra esperienza di grotte alpine era l’Abisso Polidori, un fenomeno anomalo quanto isolato, sicchè ignoravamo del tutto sotto quali aspetti ed in quali posizioni avrebbero potuto presentarsi le cavità, ammesso che ce ne fossero. I vecchi ci avevano insegnato che si doveva guardare in fondo alle valli chiuse, regola puntualmente verificata da poco sugli Alburni, per cui osservando i luoghi dalla Sella Canin si era argomentato che l’unica zona promettente era l’ampia conca tra la base dei ghiacciai ed il Col delle Erbe; decidemmo tuttavia di arrivarci facendo un giro attraverso una plaga rocciosa che stava sulla destra sotto il Bila Pec, che già da lontano appariva rotta da un reticolo di fratture. Il luogo da vicino mostrò una selvaggia bellezza, i banchi marmorei erano traforati da strane escavazioni alternate a crepacci in tutto simili a quelli dei ghiacciai, alcuni valicabili con un passo, altri tanto larghi da costringerci a laboriosi aggiramenti. Era un mondo per noi del tutto nuovo, quasi irreale e vagamente inquietante per il senso di completo isolamento e l’impressione di inoltrarsi in un terreno mai prima calpestato da piede umano: tanta desolazione costellata da mille bocche scure faceva meno assurda la credenza dei valligiani sulla infernale natura dell’altopiano, dal quale Dante avrebbe tratto sicura ispirazione per un altro girone.
Passammo a monte di quello che sarebbe divenuto l’Abisso Gortani e poco oltre capitammo sul “Davanzo”, ma il prolungato rimbalzare dei sassi non ci impressionò un granchè, persuasi di aver trovato solo una fenditura più profonda delle altre; se qualcuno ci avesse detto che stavamo camminando sopra chilometri di gallerie lo avremmo creduto pazzo. Affacciandoci dalle ultime balze del Col delle Erbe, l’ideale andamento delle isoipse fece convergere i nostri occhi alla base di un’alta parete stupendamente scanalata dove solchi di ruscellamento sulle ghiaie serpeggiavano verso un orifizio tagliato di netto in un banco affiorante: una volta ancora i vecchi avevano avuto ragione, l’inghiottitoio era là, puntuale e logico come lo scarico sul fondo di un lavandino. Altri meno compassati avrebbero giubilato, mentre noi ci dirigemmo con falsa indifferenza a certi vicini imbuti insignificanti, sogguardando in tralice l’oggetto della nostra brama, che ad un approccio troppo diretto avrebbe potuto chiudersi o arcanamente sparire.
Ed era stato saggio non esultare, perché da presso l’Abisso Boegan si presentava in modo deludente, un breve pozzo da scendere solo per vedere meglio una fessura in parete che dal lancio di pietre pareva impraticabile. Quello che accadde in seguito è abbastanza noto e bisogna dire che per parecchio tempo tutti credettero che le uniche cavità del Canin degne di tale nome fossero il “Boegan” ed il “Novelli”, la fessura soffiante che il Conte di Brazzà voleva minare già nel secolo scorso.
La notizia delle nostre scoperte si diffuse in breve e gente di pochi scrupoli si diede da fare per “soffiarci” le grotte, avendo persino l’impudenza di sostenere una assurda priorità. Evidentemente molti erano rimasti scornati nell’apprendere che i grandi abissi cercati in lontane regioni erano là a due passi da casa e qualcuno di questi non era proprio un gentiluomo; facendo il loro nome daremmo forse una soddisfazione a questi inetti cercatori di gloria, dei quali – come è giusto – è svanito anche il ricordo.
Voglio rievocare ancora brevemente quel giorno del 1963 , il cui significato – alla luce delle  seguenti vicende – basterebbe da solo a gratificare la vita intera di una persona che ama il sottosuolo. Il tempo era cattivo, folate di nebbia toglievano ogni tanto la visibilità ed a tratti cade­vano spruzzi di pioggia; mentre io e Pino proce­devamo di conserva per motivi fotografici, Berti Kozel – soggetto di natura solitaria ed indipen­dente – andava per conto suo ed a volte lo perdevamo di vista per scorgerlo di nuovo in lontananza, una figurina profilata sul fastigio di qualche bancata, zaino vuoto e mani in tasca. Ci ritrovammo in cima al Col delle Erbe e la foto di tre amici in una delle loro tante ricognizioni è ora un’immagine che mi piace definire storica, perchè è bello essere protagonista vivente in una storia certo minore, che però conta in quel mondo dove abbiamo scelto di esistere. Scendendo per l’antica mulattiera verso una Nevea ancora solo Rifugio e malga era­vamo doppiamente soddisfatti per aver veduto nella pietra il segno del supremo architetto e per aver attuato un’idea maturata in base ad un accorto esame delle carte, alle notizie dei locali e ad una semplice deduzione di ordine idrolo­gico, incuranti dei responsi negativi di chi ci aveva preceduto. Adesso che il Canin è diventato l’empireo della speleologia – mille grotte catastate, speleologi e bivacchi dappertutto – mi sento come un Colombo che ritornasse oggi in America, incredulo di aver dato avvio a tutto questo e di poter passare ugualmente inosservato, un anonimo viandante come tanti altri. Nell’anno dell’anniversario abbiamo voluto ripercorrere la strada di allora, mancava però Kozel, il terzo uomo, fattosi marinaio e tutti gli altri del “Boegan” 1963, certi emigrati, altri invischiati nelle pieghe di Trieste, alcuni proprio morti. Niente festa quindi nella nostra condizione di sopravvissuti, ma solo un’ineffabile malinconia da questo pellegrinaggio all’assurda ricerca degli stessi passaggi e pensieri di quel giorno in cui si andava ignari sopra sotterranei interminabili. Cinque lustri, pochi micron di pietra in meno, un paesaggio immutato, una generazione sparita e noi due ancora qui, dubbiosi se della nostra sorte di ingrigiti superstiti ci sia poi di che rallegrarsi, senza tuttavia saper dire se avremmo preferito in questo momento esser da un’altra parte. Certamente non è barattabiie il merito di aver intuito qui quello che agli altri era sfuggito, pur se al privilegio di giungere primi era legato il destino di essere gli ultimi e di dover soffrire per questo.
                                                                                                            Dario Marini