OZTOTEMPA (Cronaca di un’illusione)

Pubblicato sul n. 20 di PROGRESSIONE – Anno 1989
Durante il trasferimento del campo dalla prima alla seconda zona di ricerca facemmo tappa a Chilpancingo (capitale dello stato di Guerrero) per rifornirci di viveri e poter fare una meritata e alquanto “necessaria” doccia. Nell’Hotel “El Greco”, che ci fece da momentanea dimora, stringemmo amicizia con Mario Arturo Alarcon, proprietario dell’albergo, fotografo per hobby e uomo di cultura.
Don Mario si dimostrò molto interessato alle nostre ricerche, ci parlò delle sue esperienze speleologiche in una grotta turistica nella quale aveva fatto un servizio fotografico, di grotte archeologiche, ecc. Ci diede anche delle utilissime indicazioni che ci permisero di conoscere le persone che favorirono le nostre esplorazioni nella seconda zona.
Fu Don Mario che ci parlò per la prima volta di Oztotempa: ne aveva solo sentito parlare, ma doveva essere un grande pozzo e per quel che ne sapeva era un pozzo “sacrificale”.
Questa notizia inaspettata ebbe in noi l’effetto di un elettro-shock e l’adrenalina cominciò a fluire abbondantemente in noi: dovevamo fare il possibile per saperne di più.
La nostra “guida” ci accompagnò a Colotlipa (70 km ad Ovest di Chilpancingo) nei pressi di una grotta turistica ove conoscemmo Andrea e Luigi Ortega Jmenez, due fratelli che assieme al padre gestiscono la grotta (6 km di gallerie dei quali solamente due sono attrezzati turisticamente). Parlammo del Sotano di Oztotempa e Luigi ci disse che si sarebbe interessato per farcelo esplorare. Luigi era amico di uno scrittore, studioso del folklore locale, che lavorava nel palazzo del governo ed era persona molto influente nella capitale del Guerrero.
Lasciammo al “Chivo” (soprannome di Luigi che significa capra) il tempo necessario per prendere i dovuti contatti e ci salvammo questa “ciliegina” come dessert alla fine delle altre esplorazioni.
Venne il giorno che finimmo la campagna esplorativa e rientrammo a Chilpancingo per conoscere questo “personaggio”. Lo scrittore, felice d’incontrarci e di ricevere un numero di “Progressione”, ci fece avere un permesso governativo e ci procurò gli appoggi necessari per giungere in loco senza problemi. Quella notte dormimmo nella sala della cultura di Chilpancingo ospiti del Comune e con piantone armato. Bevemmo parecchi Cubalibre (autocostruiti) e fantasticammo sull’imminente “calata”, sui possibili reperti che avremmo potuto recuperare e sulle ipotetiche foto da copertina.
Il giorno seguente giungemmo ad Atliaca (il paese più vicino al sotano) e mentre aspettavamo il commissario del “pueblo”, conoscemmo un giovane antropologo di Città del Messico in paese per motivi analoghi ai nostri. Lo studioso ci diede maggiori delucidazioni in merito e ci parlò di un antichissimo rito precolombiano. Il rito consisteva in offerte e sacrifici umani (soppiantati, con l’avvento del Cristianesimo, con sacrifici di animali), ci parlò di quattro giganti che sorreggono il mondo e che dimorano nel sotano, come pure alternativamente il sole e la luna, di un grande idolo (d’oro?) fatto precipitare nei baratro per non farlo cadere nelle mani dei Conquistadores.

Ma che cos’è realmente Oztotempa?
Alimentare la terra affinchè la terra alimenti l’uomo, dare per ricevere, sacrifici ed offerte sacre, astinenza e penitenza degli uomini, offrire agli dei per avere la loro benevolenza. Questa “Fiesta Campesina” è uno strano connubio di sacro e profano, di cattolicesimo e religioni preispaniche. La festa è un’espressione del dolore e del piacere, della tristezza e del giubilo, della sofferenza fisica e del benessere. Il cammino al pozzo di Oztotempa è un rito per propiziare la pioggia e conseguire abbondanti raccolti.
Il pozzo sacro si trova sulla montagna più alta alle spalle del villaggio di Atliaca (50 km a SO di Chilpancingo) e sull’orlo vi sono una cappelletta e numerose croci. I pellegrini possono raggiungerla solo dopo aver osservato uno scrupoloso cerimoniale ed aver estenuato il corpo e l’anima con danze, canti, penitenze, agua ardiente” e probabilmente marjuana. Le offerte al pozzo, gli animali vivi, gli alimenti, le candele, il vestiario, i monili, ecc., ritorneranno al popolo in numero maggiore (come la moltiplicazione miracolosa dei pani e dei pesci).
La festa serve a rompere lo spazio temporale, trasportare in un’altra dimensione e creare un punto d’incontro fra uomini e divinità; inoltre è l’occasione per riunire la popolazione Nahuas (antica popolazione locale discendente da quella Azteca). I Nahuas di questa regione ritrovano la loro identità in questi riti d’origine precolombiana che il Cristianesimo non ha potuto sostituire o trasformare radicalmente. Le regole di partecipazione alla cerimonia sono da secoli ben definite e alla festa partecipano uomini e donne, giovani e vecchi, bambini, in un connubio di sacro e profano.
Durante il rito non esiste il singolo individuo, ma un’unica identità collettiva; può esistere il sacerdote e lo sciamano, però la sua azione è solamente un veicolo fra la gente e gli dei: il soggetto è il gruppo e l’attore principale il popolo. La forza religiosa vince l’egoismo e l’individualismo, non ci sono possibilità di dispersione, sacrifici e riti sacri sono la comunione degli uomini. L’unità estrema e un potente sentimento di solidarietà e fratellanza hanno il loro culmine nel solenne atto di adorazione al Dio.
Il pozzo è considerato come la manifestazione della forza e del potere divino ed è perciò trasformato dal popolo in “Tabù”.
La tradizione orale dice che si formò con il precipitare dei fiumi nel suo interno, che contiene metà dell’acqua di tutto il globo e che rappresenta l’ “ombelico” del mondo. Approssimativamente ha un diametro di un centinaio di metri ed una profondità di 100 – 150 mt.
I giganti ed i demoni che dimorano all’interno hanno bisogno di nutrimento e così, il 2 maggio di ogni anno, i pellegrini suonano e cantano sull’orlo del pozzo per svegliare gli antichi dei dal loro letargo ed avvisarli della loro presenza; da quel momento ha inizio il rito e la bocca del pozzo divora tutto ciò che le viene offerto.
Etimologicamente Oztotempa significa (in lingua Nahuatl) “bocca della grotta”, da “Oztotl” grotta e “Tempa” bocca.
Il pozzo è tabù, deve essere preparato per il rito secondo schemi ben precisi ed è assolutamente vietato accedere al suo interno o scattare fotografie (anche se solamente delle zone limitrofe). Se la popolazione s’accorge della presenza di stranieri, il rito viene sospeso e rifatto dall’inizio.
Questa cerimonia dura due giorni e accomuna circa quattromila individui che accorrono con i loro “sciamani” o maggiordomi da tutti i villaggi della zona. All’inizio degli anni ’60 una turista, che si era “sporta” troppo sul bordo del pozzo, precipitò nel suo interno; tre giorni dopo due indigeni furono calati con grossi canapi per recuperare la salma sospesa su un terrazzo e, a recupero ultimato, uno dei due cominciò a parlare di quello che aveva visto al suo interno: morì misteriosamente, perchè aveva violato il “tabù”.
Ci vogliono tre ore di marcia da Atliaca al “sotano” ed è un cammino molto duro; i maggiordomi dei vari villaggi aprono la strada, seguiti dalla popolazione che trasporta le offerte benedette precedentemente, le croci di Cristo si mescolano con i simboli pagani ed il nostro Dio con gli dei precolombiani. anche una festa d’iniziazione per i giovani che hanno compiuto i 15 anni e passano, secondo antichi rituali, dalla pubertà allo stato di uomini adulti.
Nella notte della “fiesta” vengono rappresentate leggende locai ed il popolo partecipa con costumi tradizionali e maschere lignee; nel frattempo uomini travestiti da scheletri danzano tutta la notte, in precario equilibrio, su funi tese fra gli alberi. L’efficacia del rito propiziatorio dipende assolutamente dalla perfetta organizzazione della cerimonia e se a distanza di 20 giorni dalla festa non dovesse piovere, vuol dire che c’è stato un fallo nell’organizzazione: qualcuno non è stato all’altezza del proprio compito o c’è stata qualche presenza “straniera”.
Bisogna pensare che è una popolazione prettamente agricola e perciò strettamente legata alla terra ed alle condizioni atmosferiche; scarsi raccolti porterebbero alla fame centinaia di famiglie.
Ora ne sapevamo di più, ma il nostro entusiasmo e le nostre speranze esplorative scemavano ad ogni parola dell’antropologo.
Finalmente arrivò il commissario e spiegammo il motivo della nostra presenza; capi i nostri scopi, ci organizzò un incontro con “maggiordomi” e “sciamani” e ci pregò di riporre le macchine fotografiche, per non rubare l’anima al popolo (ahi, ahi!).
Le nostre possibilità di discesa si facevano sempre più scarse. Ci riunimmo in una “tendita” di mattoni di paglia e argilla, bambini seminudi ci guardavano da dietro le tende e qualche ragazza corse a nascondersi.
Sedemmo in circolo come nei vecchi films “western”, noi da un lato accanto a mucchietti di mais ed una decina di maggiordomi dall’altro. Uno di loro, presumibilmente il più importante, parlò in spagnolo (fra loro parlano solamente Nahuatl) e ci fece spiegare per filo e per segno gli scopi che ci avevano portato lì ed il metodo di ricerca che avremmo adottato. Per noi parlò Mario, che ha parecchia padronanza della lingua, e fece notare l’enorme interesse scientifico che avrebbe avuto l’esplorazione, i vantaggi che avrebbe avuto la popolazione se avessimo trovato l’acqua, il nostro permesso governativo e bla, bla, bla. Lo sciamano spiegò ai suoi accoliti le nostre richieste ed i loro sguardi stupiti ci fecero intuire la loro risposta. Alla fine il capo ci disse che avevano capito il nostro problema, che eravamo persone serie perchè avevamo richiesto il loro consenso e che per loro, al limite, non ci sarebbero problemi ma il popolo non avrebbe capito. Il popolo ci tiene troppo e non permette agli stranieri nemmeno di avvicinarsi ai “sotano” e perciò, per evitare spiacevoli inconvenienti a noi ed agli stessi maggiordomi, il consenso ci veniva negato. Scambi di convenevoli e saluti cerimoniosi, sorriso sulle labbra e “cuore infranto”. Misera fine dei nostri sogni di gloria, altro che scendere il sotano: neanche vederlo!
D’altra parte, anche se deluso dal loro divieto, non riuscivo in fondo a dar loro torto. Più mi avvicinavo al furgone lungo la strada polverosa, più mi sentivo a disagio con i “super scarponcini”, guardando tanti piedi nudi intorno a me.
Ce ne andammo sotto gli occhi curiosi delle donne riunite intorno al pozzo dell’acqua che faceva da gineceo.
Più pensavo al sotano e più davo ragione ai sacerdoti ed ero contento del loro rifiuto: al loro posto avrei fatto lo stesso. Cercai conferma negli occhi dei miei compagni: sì! Era giusto così. L’unica ricchezza di quella gente è la loro fede, e forse sono più ricchi di noi.
Come avevamo potuto pensare di distruggere in un attimo millenni di credenze popolari? Far crollare un mito? Sfatare un “Tabù”? Fra qualche decina d’anni, con il progresso che si fa largo a colpi di bulldozer anche loro cambieranno mentalità e qualcuno più fortunato di noi potrà scendere il sotano.
In fin dei conti “Oztotempa” sarà sempre là……e ci sarà anche la “Commissione”.
P.S. Le notizie su Oztotempa sono state ricavate da uno scritto di Miguel Angel Gutierrez.
Guido Sollazzi

T9 – SOTANO DEL GRANCHIO
La cosa più bella per uno speleologo è l’esplorazione e se si può farla in una zona vergine (e magari anche lontana dal mondo) il tutto diventa molto più affascinante.
A Tlalistlaulucah, un paese che si collega con la “civiltà” con un’ora e mezza di macchina su uno sterrato a dir poco massacrante, dove non arriva nemmeno la luce elettrica e le “case” sono vere e proprie capanne, siamo stati ospitati dagli abitanti del pueblito, nell’unica casa di pietra e mattoni: la prigione.
Era il nostro campo base per dieci giorni, dal quale ogni mattina noi, baldi speleo, partivamo per nuove avventure ed alla sera ritornavamo senza niente di nuovo.
Eravamo proprio ben piazzati, la pensione era accogliente ed il secondino (a turno uno di noi) si dava da fare nelle faccende domestiche, ci preparava degli ottimi manicaretti, di cospicua varietà: verdura, insalata, insalata, verdura…, scacciava i ragni dalla dispensa, spazzava gli scorpioni, arieggiava la cella, insomma era proprio una brava casalinga e al nostro ritorno era seduto sulla soglia dell’uscio in impaziente attesa.
Il giorno dopo, cambio del secondino e… tutto di nuovo. Questa volta sono in squadra con Lazzaro e, come da programma, continuiamo l’esplorazione del T9. Se avete già visto rilievo e descrizione e vi siete fatti un’idea, per un attimo dimenticate tutto, mettete in moto la vostra fantasia e cercate di immaginare il letto di un torrente che nasce dal niente e scende marcando sempre più sul suolo la sua presenza fino a sprofondare in un Sotano, per poi ricomparire in fondo valle.
La prima cosa che vi salta in mente, è di aver trovato l’abisso. Infatti è quello che ho pensato anch’io e, armato fino ai denti, parto all’esplorazione.
Il primo pozzo – un susseguirsi di ripiani e arrampicate – ha una morfologia che lo fa sembrare dieci volte più fondo; una volta giù, una sala, le cui pareti salgono tanto da non vederne la fine. Una galleria ascendente, in frana, che non finisce mai è la via scavata dall’acqua e che continua tra i massi: insomma una meraviglia della natura… o una meravigliosa immaginazione?
Seguiamo la via dell’acqua che ci porta sulla sponda di un laghetto: sifone!!? Macchè sifone, è l’accesso alla parte più bella della grotta, un susseguirsi di laghi e laghetti, traversi, arrampicate, colate calcitiche, concrezioni a non finire e, man mano che si scendeva, il tutto era sempre più grande e sempre più bello. Sembrava proprio di essere arrivati nella miniera di diamanti dei sette nani. Ve lo ricordate il film? Quelle gallerie piene di luccichii emanati dalle pietre preziose? Bene, aggiungeteci i laghetti e siamo al T9 (non è proprio così). Il massimo che abbiamo trovato, e credo non succeda spesso, era in un passaggio tra un lago e l’altro.
Insomma, Lazzaro stava comprimendosi in una delle strettoie ed io ero dietro che lo distoglievo con discorsi cretini, quando ad un tratto…
lo: “Lazzaro”
Lui: “Si?!”
lo: “Ti te sà come xe fate le masinete?” Lui: “Le ghe somiglia a ti…!”
lo: “Grazie”
Lui: “Perché?”
Io: “Perché drio de ti xe una”
Forse per rispondermi meglio, o chissà per qual motivo, Lazzaro si gira e… “Porc…”, a quaranta centimetri dal viso un granchio, perplesso, che guardava Lazzaro con aria curiosa e, che dopo aver dato il nome alla grotta, si allontana verso posti più tranquilli.
Ancora un paio di granchi e di laghi ed eccoci al sifone terminale, che per noi speleo normali, chiude l’esplorazione. Peccato. Fuori bussola, cordella metrica e via col rilievo.
Come ogni spedizione, per motivi di tempo e mole di lavoro, non tutti i componenti della gita riescono a fare tutte le grotte esplorate, le prossime spedizioni non andranno certo a perdere tempo per visitare grotte già fatte, i messicani in grotta quasi non ci vanno, e così chissà se e quando qualcuno ritornerà al T9, ma se ci andrà rimarrà sicuramente affascinato come lo siamo rimasti io e Lazzaro.
Grazie per la vostra attenzione
Spartaco Savio
IO, TU E I VAMPIRI
Dopo un paio di giorni dal nostro arrivo a Mexico City, ci troviamo ad installare il campo all’interno della scuola di St. Vicente, un pueblito non molto distante da Huacalapa (dove nei mesi di marzo e aprile 1986 un’altra spedizione della C.G.E.B. aveva battuto zona).
E così una mattina di buon’ora dopo una frugale colazione, Guido ed io assieme a Leonard, un vecchio del villaggio che la sera precedente ci aveva raccontato che si ricordava dell’esistenza di una cavità nei pressi della sommità del Cerro Pietro. Così presi i nostri zaini con un paio di corde e con le altre solite cose necessarie c’incamminiamo attraverso un sentiero tra stupende pinete; unico nostro incontro sarà quello di un’anziana signora con il suo gregge mentre stava appendendo della carne essicata. Scomparsa questa stupenda immagine, Leonard ci fa ritornare lungo i nostri passi con racconti di caccia quando ancora questa sierra era abitata dai leoni di montagna, e così dopo circa tre ore di cammino ci troviamo all’ingresso della grotta che purtroppo si rivelerà nient’altro che un riparo sotto roccia. Meditando a qual miglior supplizio dovremmo sottoporre la guida, di idee ne sforniamo in quantità esagerata. Ma prevarranno le nostre buone coscienze, e così decidiamo di ripiegare a vedere un resumidero che avevamo visto i primi giorni di campagna. Ci congediamo da Leonard “noto conoscitore di grotte della zona”, e dopo un’ora abbondante (per fortuna questa volta in discesa) giungiamo all’imboccatura della cueva, ove già dall’inizio scopriamo con nostro sommo stupore un discreto deposito di guano con muffa; che sia histoplasmosi? In un battibaleno (degno di una finale olimpica dei 100 m) raggiungiamo l’uscita e decidendo sul da farsi; tra un “cichin” e l’altro decidiamo di inabissarci sperando che il tutto finisca subito ed infatti per scaramanzia non portiamo con noi nessun materiale.
Superiamo il punto che avevamo prima raggiunto ed arriviamo ad un angusto passaggio, attraversato da decine di pipistrelli impauriti dalla nostra presenza, ma sicuramente all’inizio eravamo più spaventati noi (della serie “semo omini o picarini?”). Proseguiamo lungo una piccola e breve galleria che ci porta sopra un salto. Ci guardiamo sconsolati e ritorniamo sui nostri passi per prendere un po’ di materiale ed una boccata d’aria. Passata una mezz’ora, con il possente Dogui trasformato in un nut, scendo il pozzo ed esploro la caverna. Con somma gioia scopro che il tutto finisce in un piccolo sifone; lancio un fischio a Guido che inizia a scendere il salto imprecando contro un paio di Stukas che gli stanno velocemente arrivando in picchiata. Una volta arrivato iniziamo rapidamente a rilevare e scattiamo un paio di foto ed in breve tempo raggiungiamo l’ingresso dove ci disinfettiamo con una bottiglia di tequila che il buon Scrat ci porge ridendo pensando alle disavventure che ci sono appena capitate!
Alberto Lazzarini
MESSICO 1988 – DATI CATASTALI
Riteniamo utile riportare, come già fatto in precedenza, (Progressione 16, pag. 18), i dati essenziali delle cavità visitate e rilevate in Messico nel corso della campagna 1988, con il cenno che i risultati delle quattro spedizioni (rilievi e descrizioni, succinte) si trovano pubblicati tutti su Atti e Memorie (23, pagg. 17-45; 26, pagg. 15-37; 27, pagg. 15-38).
Anche se nel corso delle quattro campagne effettuate non sono state scoperte cavità di profondità eccezionale, ogni spedizione ha conseguito qualche risultato esplorativo degno di nota in quanto fra le oltre 130 grotte rilevate in questi anni ve ne sono due che superano i 300 metri di profondità (Hoya de,Puleo, – 375; Cueva Arroyo de Tenejapa, -317) e quattro profonde oltre 200 metri (Sotano de Guacamaya, – 283; Resumiderode Ixtemalco, -245; Sotano delle Liane, – 238; Cueva Negra, -233), oltre a parecchie altre di notevole sviluppo e bellezza.
NOME | SITUAZIONE | SITUAZIONE | quota | prof. | lungh. | RILEVATORE |
Cueva de Aclitengo | 99″08’48” | 17°29’07” | 1350 | 5,8 | 36 | Bianchetti – Vascotto |
Cueva de Teposonalco | 99°07’25” | 17°29’15” | 1630 | 3 | 27 | Sollazzi – Vascotto |
Cueva dei Szinclan | 99°06’52” | 17°27’57” | 1720 | 71 | 138 | Sollazzi – Savio |
Cueva del Puma | 99°41’32” | 17°32’45” | 2660 | 94 | 310 | Savio – Lazzarini- Vascotto |
Cueva Sacrificale | 99°07’53” | 17°29’03” | 1620 | 14 | 100 | Savio – Lazzarini |
Gr. a S del Cerro Prieto | 99°39’49” | 17°31’28” | 2585 | 30 | 55 | Bianchetti – Vascotto |
LP 1 | 99°39’04” | 17°31’07” | 2450 | 16 | 8,8 | Sollazzi |
Resumidero de l’Agua | 99°39’56” | 17°31’46” | 2580 | 180 | 375 | Bianchetti – Vascotto |
Resumidero dei Vampiri | 99°40’01” | 17°30’45” | 2390 | 16 | 145 | Sollazzi – Lazzarini |
Resumidero del Mescal | 99°38’32” | 17°30’38” | 2210 | 41 | 105 | Sollazzi – Lazzarini |
Sòtano del Granchio | 99°06’52” | 17°28’02” | 1690 | 197 | 700 | Savio – Lazzarini |
Sòtano delle Liane | 99’06’45” | 17°28’37” | 1710 | 238 | 492 | Sollazzi- Bianchetti |
T 1 | 99°06’15” | 17°29’03” | 1670 | 17 | 48 | Sollazzi |
T 12 | 99°06’57” | 17°27’48” | 1700 | 19 | 13 | Savio |
T 13 | 99°08’02” | 17°29’32” | 1545 | 39 | 10 | Savio |
T 14 | 99°06’51” | 17°27’44” | 1740 | 26 | 8 | Sollazzi |
T 16 | 99°06’04” | 17°27’37” | 1700 | 19 | 9 | Savio |
T 18 | 99°06’52” | 17°27’58” | 1740 | 70 | 228,5 | Bianchetti – Vascotto |
T 2 | 99°07’52” | 17°29’03” | 1620 | 5 | 16 | Sollazzi – Lazzarini |
T 3 | 99°06’57” | 17°28’59” | 1630 | 23 | 245 | Bianchetti – Vascotto |
T 6 | 99°07’50” | 17°29’04” | 1630 | 11 | 20 | Sollazzi – Lazzarini |
T 7 | 99°06’55” | 17°28’02″ | 1660 | 30 | 12 | Bianchetti – Vascotto |
T 8 | 99°07’30” | 17°28’57” | 1635 | 3 | 49 | Sollazzi – Lazzarini |