CAMBIARE E’ NECESSARIO?
Darwin ci insegna che per sopravvivere ogni creatura deve adattarsi all’ambiente in cui si trova a vivere. Adattamenti che comportano piccoli ma continui cambiamenti, fisici e mentali – comportamentali – che finiscono per trasformare la creatura in qualcosa di diverso. E’ l’evoluzione.
Nel nostro ambiente, dopo un secolo di lenti cambiamenti dei materiali utilizzati per visitare le grotte, cambiamenti che non avevano intaccato mentalità e modi di essere del grottista, l’avvento della tecnica su corda ha prodotto un’accelerazione nell’evoluzione della speleologia esplorativa, venendo a provocare una svolta decisiva nella mentalità dell’essere speleofilo. Il grottista dei vecchi tempi speleosociali, legato alle spedizioni pesanti in cui era fondamentale la coesione del gruppo ove convivevano attività e interessi diversi, è finito in uno dei rami secchi dell’evoluzione, destinato a scomparire entro poche generazioni.
Un tempo era il Gruppo a conseguire il risultato dell’attività, la persona ne era una cellula, essenziale fin che si vuole, ma sempre soltanto una componente, situazione che lungi dall’essere riduttiva forniva appagamento e soddisfazione a tutti: essere del Gruppo significava partecipare delle sue vittorie e sentirsi compartecipe dei risultati. Il cambiamento degli anni ’70 del passato secolo è stato traumatico: sono molti i grottisti degli anni ’60 e ’70 che, non volendo accettare le (allora) nuove tecniche, hanno abbandonato il mondo delle grotte, lasciando quindi il loro posto ad un nuovo modello di grottista, lo speleo individualista.
Prima di allora, nei due/tre anni in cui veniva formato, il neogrottista apprendeva dal gruppo non solo la tecnica esplorativa, ma anche la cultura ed i valori che stavano alla base della sua vita. Cultura formata da modi di vestire e di gestire, da un repertorio di canti che spesso accompagnavano le esplorazioni e sempre chiudevano le immancabili serate conviviali. Valori costituiti dal senso profondo di amicizia che non ti faceva pesare lasciar spazio nelle esplorazioni al socio in quel momento più preparato, dalla consapevolezza di essere parte di un organismo, dall’amore per il Gruppo, dal sentire il territorio che si esplorava un mondo esclusivo, da amare, da vivere, da difendere.
Il rapido passaggio dalle scalette alle corde ha in breve resi inutili i Gruppi Grotte e, soprattutto, il periodo di “apprendistato” cui venivano sottoposti i neofiti. Che quindi, non avendo potuto assorbire, assieme alla tecnica, anche lo spirito della speleologia di allora, hanno costituito una cesura alla tradizione che aveva caratterizzato la speleologia dei decenni precedenti. Si sono così venuti a confrontare due mondi ben distinti, aventi in comune solo l’oggetto della loro attività: la grotta. I due modi di sentire il rapporto con essa non sono migliori o peggiori, sono solo diversi e perfettamente adeguati ai loro fruitori. I cambiamenti, lo si era già intuito ma lo si è visto soltanto dopo, non sono stati soltanto tecnici ma soprattutto mentali: annacquato di molto lo spirito di gruppo, oggi presente ormai specialmente ai raduni enogastronomici, la speleologia – almeno quella di punta – è diventata appannaggio dei fisicamente e tecnicamente migliori, dei più forti. Come nell’alpinismo è il singolo (o al massimo la coppia) che apre la via e le dà il nome, così in speleologia sono ora i singoli che legano il loro nome alle imprese. Singoli che collaborano fra di loro in occasione di difficoltà operative, spostandosi da una regione all’altra, da uno stato all’altro. A fronte dei grossi risultati esplorativi che vengono ottenuti c’è però il rischio concreto dello smarrimento dell’amore per la propria terra, il disinteresse per la conoscenza approfondita delle singole zone carsiche: indifferenza per le cavità minori, per il folklore, per la biospeleologia e così via.
Ma la caratterizzazione della nuova speleologia non si esaurisce nelle grandi imprese esplorative dei singoli, c’è anche la gran massa degli altri. Che, persa la possibilità di ottenere risultati esplorativi significativi – con l’inflazione dei meno mille ora la corsa all’abisso ha meno senso di una volta – si dedica più di tutto allo speleoturismo.
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Gli studi in campo psicologico mettono in evidenza come invecchiando tendano a diminuire gli impulsi positivi – entusiasmo, capacità di relazionarsi con il prossimo, di progettare per il futuro – e ad aumentare quelli negativi – misantropia, chiusura in se stessi, rifiuto di accettare le innovazioni – fattori che fatalmente portano all’emarginazione. Si può invecchiare rimanendo se stessi e riducendo al minimo l’emarginazione; nel numero precedente Bosco Natale Bone, giunto sulla soglia dei 70 anni, ci ha presentato un saggio/testamento spirituale, a coronamento dei suoi sessant’anni di vita speleologica, iniziata con scalette di legno e che prosegue tuttora (abisso Kralj docet) con le attuali tecniche esplorative, ma con il cuore e l’entusiasmo di allora. Non è cambiato, dentro, dal Bosco degli anni ’50, come non sono cambiati chi scrive e buona parte (se non tutti) quelli che ignorando il responso del calendario continuano nell’attività di ricerca, scavo ed esplorazione di cavità in questo bistrattato Carso.
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Secondo Darwin chi non cambia, adattandosi al nuovo mondo, cioè ai nuovi modi di pensare ed agire, è destinato a scomparire. Ma, per noi, se adattarsi al nuovo mondo richiede l’abbandono non solo di tecniche e materiali – scalette, lampade a carburo – ma anche del modo di vedere e concepire il rapporto con la grotta, degli ideali che in gioventù ti ci hanno avvicinato, allora la risposta può non essere affermativa.
Se è stato facile sostituire, negli anni ’70, le scalette con le corde (e poi i Dressler con i Gibbs e successivamente questi con i Croll) e attualmente l’acetilene con i Led (almeno in parte…), non per tutti è stato possibile sostituire la mentalità del vecchio grottista con quella dello speleo del 2000 che ha davanti a sé cinque continenti da visitare e un’infinità di grotte in cui scendere.
Entrare in un mondo non proprio e integrarvisi – cambiare cioè – significa abbandonare la propria cultura, i propri costumi, il proprio passato. L’alternativa, e la storia lo insegna, è entrare in una riserva (oggi si preferisce dire “nicchia ecologica”) ove però c’è il rischio di scomparire.
Siamo sopravvissuti già a due generazioni di nuovi speleo, divertendoci (non si va in grotta per soffrire…) e contribuendo alla conoscenza geografica del mondo sotterraneo in tanti modi ma soprattutto con l’apertura di tante nuove cavità e con la loro descrizione sulla stampa del settore.
A noi vecchi grottisti, frammenti di un mondo ormai perduto, rimane la soddisfazione di vivere questi ultimi anni nella nicchia ecologica che ci siamo scavato, alla ricerca del mitico fiume che forse – sotto sotto – auspichiamo di non raggiungere troppo presto.
Pino Guidi