ANCORA DISQUISIZIONI DI UNO SPELEOLOGO A PERDERE
“Sai” mi ha detto l’amico Pino mentre riempivo d’acqua e di carburo la lampada “è partita la crociata anti luce ad acetilene tramite un consistente articolo su Speleologia che denigra l’uso di tale illuminazione ed un altro che invece esalta gli impianti con i LED”.
“Bene” gli ho risposto “fammi avere questi due scritti in modo che possa controbattere nel prossimo numero della nostra rivista Progressione!”.
Avute le fotocopie degli articoli in questione ho notato che il primo aveva come titolo “Un requiem”, e non era certo quello incompiuto di Mozart, ma portava la firma del non meno noto – speleologicamente parlando – Giovanni Badino. L’altro scritto “Io vado a LED!” era firmato da Maui Perissinotto della Federazione Speleologica Veneta.
Scrivendo le note che seguono , era mia intenzione lanciare a Badino qualche amichevole e divertente frecciata in merito alle lampade a carburo che, a conti fatti, hanno illuminato per quasi due secoli la speleologia triestina e quella campagnola. Letto più volte “Un requiem”, mi sono però dovuto ricredere: quello che l’Autore ha scritto sui difetti di questo vetusto sistema di illuminazione non fa una grinza, in quanto io stesso, nella mia lunga carriera speleologica, li ho constatati di persona. Certamente non mi è mai successo che una lampada mi scoppiasse fra le mani, forse perché ho sempre avuto cura nel pulirla minuziosamente ogni volta dopo averla usata. Nonostante questo, però, parecchie volte funzionava meglio sporca nelle prove casalinghe che pulita in grotta.
Non mi sono mai arrabattato tanto come Badino (che non ho ancora avuto il piacere di conoscere di persona) per progettare e fabbricare un impianto di illuminazione ad acetilene perché nella nostra provincia, da tempi remoti, si trovavano in commercio in qualsiasi negozio di ferramenta, le ottime lampade “Stella” (le ultime dotate di un lucida e confacente parabola), il relativo carburo e vari tipi di beccucci.
Verso il finire degli anni Cinquanta, quando sono approdato nella “Commissione Grotte”, per essere alla pari degli altri grottisti (speleologi diventeremo dopo) mi sono deciso di sostituire il vecchio impianto elettrico di emergenza fissato sull’elmetto (di plastica – sigh – Made in USA, già in dotazione alla Military Police, che allora usavo) con un altro più “moderno” e infinitamente migliore: il fanale di una bicicletta la cui lampadina micro-mignon era alimentata da una batteria da 4,5 Volt. Dio, che bella luce sprigionava! Con il suo fascio luminoso potevo rischiarare volte di caverne poste a trenta metri di altezza. Ancor oggi, in pieni tempi moderni, mi viene voglia di sostituire l’impianto LED cinese con il già sperimentato e anacronistico fanale di bicicletta.
Per muoversi in grotta, tutti i vecchi speleologi lo sanno, la lampada a carburo veniva portata appesa con il gancio di cui era dotata, tra il pollice e l’indice della mano, oppure durante le discese e le risalite dei pozzi, agganciata tramite un moschettone al classico cinturone da pompiere (solitamente rinforzato con un cavetto d’acciaio). Dopo il cinturone era venuto di moda il famigerato cordino in vita, quindi più tardi gli imbraghi che man mano si sono perfezionati permettendo alla fine una comoda progressione su corda. Comunque anche questi imbraghi hanno qualche inghippo, a volte mortale, che anni addietro è stato descritto.
Ora non vorrei apparire un retrivo, ossia una persona che odia il progresso e le sue innovazioni, però un lancia in favore della luce ad acetilene la voglio proprio spezzare, senza per questo sminuire la luce a LED, molto pratica e conveniente, anche se a volte non può competere con quella a carburo, più luminosa e romantica. Mi ricordo che tanto tempo fa, quando si andava in grotta con le scale ad esplorare qualche gelido abisso sulle montagne della nostra regione, se non facevo parte della squadra di punta, mi dovevo fermare sull’imbocco di un pozzo per fornire la sicura agli amici che vi scendevano, aspettando poi per ore ed ore il loro ritorno, da solo ed infreddolito. La lampada mi teneva compagnia con la sua vivida fiammella e mi riscaldava le mani con il calore prodotto dal carburo in disfacimento. Quando la fiamma cominciava a languire aggiungevo in fretta e furia altro carburo su quello esausto e con un peretta cercavo qualche pozza d’acqua per colmare il serbatoio. Altri tempi, altri modi di pensare e andare in grotta. Per te, cara lampada ad acetilene, dovremmo erigere un monumento.
Ci sono, diciamo, due tipi di grotte e, se vogliamo, due maniere di fare speleologia. Se mettiamo a confronto questi due – chiamiamoli così – esempi, potremmo paragonarli a due (a mio avviso non edificanti) attività: la caccia e la guerra! Nel primo caso al cacciatore per uccidere è sufficiente la normale doppietta; nel secondo caso invece il soldato per uccidere deve essere dotato di armi più potenti e precise, vedi mitragliatrici, cannoni, mortai e via di seguito. Non si può armare oggigiorno il soldato con uno schioppo, come è impensabile fornire al cacciatore le armi date al soldato, anche se in cuor suo ne sarebbe contento.
Adesso vedrò di chiarire questi miei concetti, anche se i lettori più perspicaci li avranno già capiti.
Le grotte paragonate alla guerra sono senza dubbio cavità di tutto rispetto, rappresentate da morfologie abissali con pozzi profondi, gallerie, caverne e meandri a volte difficilmente percorribili e nella gran parte dei casi invasi dall’acqua. E’ ovvio che per esplorare o semplicemente visitare tali sistemi ipogei si rendono necessarie parecchie decine di ore di permanenza al loro interno, se non di giorni. L’equipaggiamento perciò dovrà essere ridotto al minimo e fornire il massimo rendimento e, nei limiti del possibile,essere poco ingombrante. L’ingombro che più osteggiava gli speleologi nella fese di avanzamento era la lampada ad acetilene con la relativa pesante scorta di carburo (se non pure dell’acqua…) sistemato in vari contenitori di plastica o salsicce di gomma. Come giustamente scrive l’Autore di “Un requiem”, sbatacchiare i vasi di carburo infilati nel sacco speleo lungo pareti lambite dall’acqua non è certamente il massimo della sicurezza. Con l’avvento dell’illuminazione a LED questi ingombri, fatiche e pericoli sono stati eliminati. E qui spezzo una lancia a favore del LED.
Le grotte paragonate alla caccia, invece, sono le cavità, anche loro degne di rispetto, ubicate sul Carso triestino, monfalconese, goriziano e quello sloveno. Non sono grotte tanto profonde, di rado superano i trecento metri di dislivello per cui la permanenza al loro interno raramente oltrepassa la decina di ore. Pertanto la problematica dell’ingombro, dell’intralcio e della pericolosità dell’impianto a gas acetilene in queste grotte è drasticamente ridotta. Quindi io, che in queste grotte sono stato svezzato, cresciuto e invecchiato, non abbandonerò mai la mia fedele “Fisma” (che ormai da qualche decennio ha rimpiazzato la “Stella”), seppure a volte ero sul punto di sostituirla con una più moderna, lusingato dallo slogan pubblicitario che recitava così: “Pesa di meno la mia lampada piena che la tua vuota”! Chissà, forse un po’ retrivo lo sono davvero.
Se la lettura di “Un requiem” e quanto ho scritto mi ha messo di buon umore, altrettanto non posso dire del secondo articolo intitolato “Io vado a LED”. Questo tipo di illuminazione, come detto più sopra, per praticità e durata è senza dubbio più conveniente della lampada a carburo che si vorrebbe a tutti i costi soppiantare. Quale dei due sistemi dia luce migliore però è un argomento ancora tutto da discutere. Mi hanno invece stupito i quattro punti scientifici che l’Autore dell’articolo ha messo in evidenza:
1° Diminuisce drasticamente (il LED) l’inquinamento termico …;
2° Risolve il problema del nerofumo, causa dell’annerimento e del degrado delle concrezioni;
3° Evita il deposito ed il fissaggio di particelle carboniose, residui della combustione del carbone, sulle pareti di grotta a bassa energia (cosa sono?);
4° Evita la produzione di carburo esausto … ancor oggi abbandonato in grotta da speleologi poco coscienziosi.
Non ho nulla da obiettare su questi quattro punti, ma permettetemi di dire che si vuole portare all’esasperazione un problema che nelle grotte si diluisce, si va fuori strada. Sono un vecchio speleologo e considero le grotte per quello che in realtà sono, ossia dei buchi nella pietra scavati dall’acqua. Non sono creature viventi per le quali basta una minima variazione dell’habitat naturale a metterne in forse l’esistenza. Mi chiedo quale inquinamento termico concreto possono provocare non uno o due, bensì una decina di speleologi con lampade ad acetilene che transitano saltuariamente in una cavità. Se i nostri dieci esploratori sostassero per diverse ore in qualche tratto non molto ampio della grotta, la temperatura aumenterebbe di qualche decimo di grado, per tornare poi ai valori normali dopo l’allontanamento degli speleo. Non credo che l’aumento di temperatura avrebbe causato il crollo della volta della caverna ove sostavano i nostri dieci eroi, ne tanto meno avrebbe danneggiato la fauna sotterranea.
Per rispondere ai punti 2 e 3 confermo quanto detto sopra: cosa volete che inquinino alcune squadre di speleologi che scendono nella stessa grotta due o tre volte all’anno? Voglio citare un esempio: la nostra associazione gestisce da quasi novant’anni la ben nota “Grotta Gigante”. Dal 1908, data in cui è stata resa accessibile al pubblico, per illuminarla nel modo più soddisfacente possibile sono state usate centinaia di torce, di bengala, migliaia di candele, enormi riflettori ad acetilene che hanno consumato tonnellate di carburo. Poi, nel 1957, veniva installato l’impianto elettrico che faceva funzionare tante lampade al neon, lampade comuni ed a vapori di mercurio con le quali si è potuto finalmente rischiarare l’immensa volta della caverna. Sono sceso nella Gigante per la prima volta nel 1958 e sembrerà strano che la volta della grotta, dopo aver subito per cinquant’anni gli inquinamenti termici, di nerofumo, di particelle carboniose, si presentasse ricca di concrezioni bianchissime, per niente deturpate dalle emissioni nocive delle varie fonti di illuminazione un tempo in uso. Se in tal luogo, torno a ripetermi, dopo quel lungo lasso di tempo, non si sono riscontrati danni degni di nota, cosa volete che danneggino con le loro lampade a carburo le squadre di speleologi che scendono nella stessa grotta due o tre volte nel corso di un anno.
Nessuna critica al punto 4! E’ giusto che il carburo esausto cominci ad essere portato fuori dalle grotte, ma non per nasconderlo poi tra i cespugli o in qualche compiacente frattura. Ho potuto notare anche questo; c’è chi predica bene e razzola male. Io, lo confesso, il residuo della lampada nella gran parte di casi l’ho occultato in grotta, avendo però cura di seppellirlo in profondità coprendo poi la “fossa” con terriccio e pietre. L’inquinamento ambientale, come viene chiamato, cessa dopo breve tempo con la solidificazione dello spurgo. Posso essere biasimato per questo mio vecchio modo di agire perché i gas ancora presenti nel materiale sepolto possono uccidere la fauna cavernicola: questo però mi pare poco probabile in quanto ho rilevato che, depositando nuovamente il carburo esausto nello stesso posto ho visto dei Titanethes passeggiare sul precedente spurgo non ancora solidificato. Vorrei far osservare che tali animaletti ipogei, nella gran parte dei casi, muoiono nelle boccette contenenti segatura intrisa di etere dei vari entomologi (o presunti tali), oppure nei barattolini con esche abbandonati in grotta.
Concludo questo scritto in cui – a ragione o torto – ho espresso le mie idee rallegrandomi che almeno per il momento, l’uso del LED non sia obbligatorio e quello ad acetilene perseguibile penalmente. Se un giorno dovrà succedere, per non subire simili imposizioni molti speleologi appenderanno il casco al classico chiodo.
Si vuole arrivare a questo?
Saluto tutti affettuosamente
Bosco Natale Bone