La speleologia nella provincia di Trieste dal 1940 al 1970
Premessa
Dal 1940 in poi l’attività speleologica è proseguita nella regione, sia pur con alterne vicende: la guerra e l’immediato dopoguerra condizionarono e frenarono notevolmente l’attività dei grottisti triestini, non riuscendo però a fermarla del tutto. Questa nota segue ed integra la precedente, relativa al periodo 1901-1940.
Inquadramento storico
La Venezia Giulia nel 1940 comprendeva quattro province (Trieste, Gorizia, Pola, Fiume) ed un territorio carsico molto esteso, formato oltre che dal Carso Classico, da tutta l’Istria e dalle ultime propaggini delle Alpi Giulie (selve di Piro, di Tarnova, della Bainsizza, versante meridionale del Canin, massicci sopra Fiume). L’attività speleologica dei gruppi grotte cittadini si esplicava soprattutto nelle zone prossime alla città (Carso Classico, Alta Istria), mentre i gruppi più organizzati (S.A.G., A.XXX.O.) portavano le loro squadre anche sui massicci più lontani, cui in qualche occasione approdavano pure i gruppi minori (S.T.S.).
Nei primi anni di guerra l’attività, nonostante l’aumento della superficie della regione (a cui era stata annessa la provincia di Lubiana e ampliata ad Est la provincia di Fiume) veniva ridotta dapprima per la scarsità di uomini, in gran numero richiamati alle armi, poi – successivamente al 1943 – per le difficoltà obiettive di frequentare le località carsiche, divenute nel frattempo zone di operazioni militari. Dal settembre 1943, trasformata la regione in “Litorale Adriatico” (Adriatiche Küstenland), sotto il sostanziale controllo delle truppe tedesche, la situazione divenne ancor più difficile; la mancanza di mezzi di trasporto e la guerra partigiana ridussero via via le possibilità di muoversi nella regione.
La sicurezza delle zone carsiche attorno a Trieste è ridotta al minimo: i rocciatori triestini dovevano allenarsi sulle pareti della “Napoleonica” (strada bianca sull’altopiano che collega due frazioni della città), essendo la Val Rosandra – loro palestra naturale – preclusa.
Alla fine della guerra i grottisti triestini ripresero a percorrere il Carso più prossimo alla città. Mentre il confine provvisorio con la zona occupata dalle truppe jugoslave – la cosiddetta “Linea Morgan” – segnava un limite invalicabile a non più di una ventina di chilometri dalla città, il territorio più vicino (quello racchiuso fra le due catene di colline) era comunque considerato da molti infido ed a causa della presenza delle foibe (cavità in cui erano stati gettati dai partigiani i corpi di civili e militari) i grottisti erano in genere guardati con malcelato sospetto.
Nel settembre 1947, a seguito della firma del Trattato di Pace, veniva costituito il Territorio Libero di Trieste, amministrato provvisoriamente parte dal Governo Militare Alleato (Zona A, Trieste con i comuni di Duino Aurisina, Sgonico, Monrupino, San Dorligo, Muggia: dalle risorgive del Timavo a Punta Grossa) e parte dalla Jugoslavia (Zona B, da Punta Grossa sino al fiume Quito: comuni di Capodistria, Isola, Pirano, Buie, Umago, Verteneglio, Grisignana, Cittanova). Il campo d’azione dei grottisti triestini era limitato alla Zona A del Territorio Libero, una superficie carsificabile di appena 139 km2. La zona, ora divenuta più sicura, era ancora mal servita dai mezzi pubblici (la motorizzazione era un fenomeno di là da venire): il terno sulla direttrice Trieste-Monfalcone, la tramvia per Villa Opicina e qualche rara linea di autocorriere collegavano la città con le località del Carso.
Ciononostante si poté assistere ad un notevole sviluppo, se non della speleologia, certamente di un grottismo in cui si sfogava la voglia di vivere e di evadere dei giovani di una città che provava molta difficoltà a ritrovare un suo equilibrio. Quindi, precluse le zone carsiche frequentate per oltre 60 anni e ora in Jugoslavia, la speleologia triestina degli anni ’50 dovette rivolgere il suo interesse oltre che al Friuli anche ad altre regioni italiane.
Nel 1954 l’amministrazione della città tornava all’Italia e negli anni seguenti l’attività speleologica triestina si integrava con quella italiana.
L’attività
Il 1940 colse la speleologia triestina in una fase di rinnovamento e adeguamento. La Commissione Grotte della S.A.G. stava riprendendosi dopo la perdita di Eugenio Boegan (suo presidente per 35 anni) e, oltre alla consueta intensa attività sul territorio, pianificava spedizioni in Friuli (abisso del Monte Raut) e partecipava ad una spedizione nel salernitano organizzata dall’Istituto Italiano di Speleologia (Grotta di Controne), il Gruppo Grotte della XXX Ottobre otteneva nuovi successi nell’Alpe Grande, la Società Speleologica Triestina si affermava quale giovane gruppo emergente. Dal 1941 le uscite in Carso cominciano a rarefarsi sempre di più, sino a cessare quasi del tutto verso la seconda metà del 1944. Nel periodo bellico una certa attività di ricerca venne svolta da un gruppo di soci della S.A.G., arruolati nella difesa contraerea e capitanati dall’ing. Guido Calligaris, che trasformò alcuni locali della sua batteria (sita nel parco del castello di Miramare) in una succursale della sede di via Milano 2. Attivi, almeno sino alla metà della guerra, risultano la XXX Ottobre, l’S.T.S., e il G.T.G. (che iniziò nel 1941 l’esplorazione del futuro abisso Zulla). Dell’attività dei gruppi aderenti ai vari dopolavoro non si possiede notizia alcuna.
Nel 1945, finite le ostilità, la ripresa della speleologia triestina fu molto lenta, ancorché immediata: la situazione politica assi fluida, l’incertezza dei confini, l’acuirsi delle tensioni accumulate nei decenni precedenti non incoraggiavano certamente i giovani triestini a girare per il Carso, assillati come erano anche da problemi contingenti di sopravvivenza e di inserimento in una società in via di assestamento. Ciò nondimeno in quell’anno risultavano operanti nella provincia di Trieste ben cinque gruppi grotte (di cui uno tuttora attivo), senza contare la compagine decana della città, la Commissione Grotte della Società Alpina delle Giulie, che in quel periodo si limitava ad un’attività puramente amministrativa (anche perché i suoi soci più attivi partecipavano alle operazioni di recupero salme dalle foibe). Nel 1946 i gruppi erano saliti a nove; la loro litigiosità (che portava allo scioglimento e riformazione continua delle compagnie, con aggregazioni temporanee per risolvere problemi esplorativi contingenti) acuiva lo spirito di emulazione: l’esplorazione dell’abisso Zulla – un meno duecento al cui fondo si sperava di raggiungere il Timavo sotterraneo – ne è una prova lampante (è stata effettuata in più fasi da gruppi in gara fra di loro). Grazie anche ai vari parchi attrezzi, già di proprietà dei disciolti dopolavoro, a disposizione dei più intraprendenti, i sodalizi si formavano e si disfacevano con una certa rapidità, mentre tendevano a consolidarsi alcune strutture destinate a durare nel tempo.
Agli inizi degli anni ’50 la speleologia triestina era ormai in rado di riprendere il posto detenuto nell’anteguerra, in una realtà speleologica nazionale in netta espansione. Uomini nuovi – fra tutti primeggiava Carlo Finocchiaro (1917-1983), tenace assertore del nuovo ruolo della speleologia regionale -, nuove idee (si tentava di varare una Federazione Speleologica triestina che avrà vita effimera), nuove esplorazioni. Precluse per effetto delle frontiere imposte dal trattato di pace le zone carsiche battute per tanti decenni, i grottisti triestini riscoprivano il Friuli (Grotte della Valcellina, Pradis, Altopiano della Bernadia) e si avventuravano sui massicci carsici di tutt’Italia: Lombardia (C.T.S., 1950; C.A.T., 1952-1953;axxxo, 1969), Piemonte (G.G.C.D., 1955, 1959; G.T.S., 1955), Veneto (S.A.S.N., 1954; AXXXO, 1957, 1959/1963; S.A.G. 1958, 1959, 1960), Toscana (AXXXO, 1958; G.T.S., 1958; S.A.S.N., 1956, 1958, 1959), Campania (S.A.G. 1951/1952, 1969/1970; Ass. Sportiva Edera, 1958; G.T.S. 1961), Sicilia (S.A.G. 1957, 1958, 1982), Sardegna (S.A.G. 1955).
Perse le stazioni scientifiche di Postumia e di San Canziano, se ne attivarono delle nuove sul Carso triestino (Grotta Gigante, grotta Doria, Grotta Germoni), mentre riprendeva infine vita il Catasto, che in una ventina d’anni vedrà raddoppiare e poi triplicare la propria consistenza. Anche se non avaro di soddisfazioni e realizzazioni (esplorazione di abissi impegnativi in casa e fuori, incisiva presenza nelle strutture speleologiche nazionali), il decennio 1951/1960 può essere però ancora considerato un periodo preparatorio. Sarà infatti nel decennio successivo che si potranno concretizzare molte delle iniziative messe in cantiere o vagheggiate da tempo (fondazione di una Scuola Nazionale di Speleologia, pubblicazione di riviste speleologiche a carattere scientifico, tecnico ed esplorativo, creazione di un museo di speleologia, organizzazione di convegni e congressi ecc.) che porteranno nuovamente la speleologia giuliana ad un posto di preminenza in ambito nazionale. Mentre il 1950 venivano approfonditi, in varie cavità del Carso, gli studi di meteorologia ipogea (settore in cui Trieste si poneva all’avanguardia) nel 1958 nasceva la Scuola Nazionale di Speleologia del C.A.I., struttura didattica di primaria importanza che da Trieste si irradierà poi in tutt’Italia.
Il decennio 1961-1970 si apriva con la nascita di “Atti e Memorie” della Commissione Grotte “E. Boegan”, la prima rivista autonoma di speleologia del dopoguerra triestino. La scoperta da parte della S.A.G. (anzi, la riscoperta, luglio 1963) dei fenomeni carsici ipogei del massiccio del Canin, avvenuta mentre squadre di grottisti triestini erano impegnate in varie zone carsiche d’Italia, provocava un salto di qualità, permettendo ai gruppi grotte locali di ottenere negli anni seguenti buoni risultati esplorativi e di affinare tecniche e preparazione atletica. Gli anni ’60 rimarranno però, nella storia della speleologia triestina, non solo per l’inizio delle grandi spedizioni e per l’esplorazione di abissi destinati a entrare nel Guiness dei primati, ma anche- e soprattutto – per il riconoscimento formale avuto da parte della Pubblica Amministrazione. Nel 1966 la Regione a statuto speciale Friuli Venezia Giulia, riconosciuta l’importanza del fenomeno carsico sotterraneo, con un’apposita legge istituiva – prima in Italia – il Catasto Regionale delle Grotte e provvedeva a finanziare l’attività dei Gruppi grotte. A seguito di questi interventi i gruppi poterono finalmente pianificare con una certa serenità la loro attività, proiettandola nel futuro.
Gli uomini
Come già detto il 1940, anno in cui l’Italia entrava in guerra, è stato l’ultimo anno in cui la speleologia triestina poté ancora svolgere attività di un certo rilievo, attività che risentì comunque del diminuito numero di persone disponibili. L’attività speleologica, come tutte le attività umane, è fatta di uomini e rispecchia temperamento, cultura, ambizioni. Nel periodo 1940-1970 molti furono i giovani che contribuirono alla sopravvivenza prima e al rilancio poi del mondo grottistico triestino. Non è agevole seguire l’operato di questi uomini, anche perché ben pochi svolsero la loro opera in un unico gruppo: è quasi una costante il passaggio da un gruppo minore(in cui il neofita si è “fatto le ossa”) ad un gruppo più solido in cui potrà esprimere tutto il suo potenziale. Questo travaso da un gruppo all’altro restringe di fatto il numero degli speleologi che hanno lasciato traccia del loro passaggio, e purtroppo non sempre è agevole collegare gli eventi agli uomini che direttamente o indirettamente li hanno provocati.
La panoramica che segue deve pertanto essere considerata essenzialmente indicativa: mancheranno di sicuro i nomi di quanti hanno dato il loro apporto – indispensabile, ma non appariscente – quali magazzinieri, cercatori, scavatori ecc.
Nel periodo bellico le sorti delle poche compagini che erano riuscite a sopravvivere (S.A.G., S.T.S., A.XXX.O.,) furono affidate alle mani di Bruno Boegan (1901-1985), Luciano Saverio Medeot (1917-1989), Guido Calligaris (1915-1984), Carlo Bordon, Lionello Durissini, Dario Favretto, Cesare Prez (1895-1968).
La ripresa, che dal 1945 si snoda sino al 1950, rimasto degli anziani sulla breccia soltanto Bruno Boegan, vide farsi strada una nuova generazione di speleologi, in parte senza legame alcuno con il passato. Fra questi vanno ricordati Almarindo (Dino) Brena (1912-1992), anima del gruppo grotte del C.A.T. dapprima e del gruppo grotte “Debeljak” poi, ed Ennio Gherlizza, sempre del C.A.T., quindi Luciano Benedetti e Carlo Mosetti per il G.T.S., per la S.A.G. Carlo Finocchiaro (1917-1983), Alfio Mottola, Fabio Forti, Tullio Tommasini (1932-1979), più Walter Maucci (1992-1995) e Luigi De Martini che poi passeranno a dar vita alla Sezione Geospeleologica della S.A.S.N.
Per le compagini minori si possono ricordare Stelio Serbo (1921-1947), Edy Sortsch (1921-1947), Mirano Coselli. Parte a sé ricopre Giovanni Mornig (1910-1981), speleologo indipendente nel periodo 1926/1936, che al suo rientro dal campo di prigionia in Africa aiuterà quale consulente più di un gruppo grotte.
Nella seconda metà degli anni ’50 iniziò a lavorare una nuova generazione: Marino Vianello (1935-1970) e Dario Marini che operarono nella Commissione Grotte della S.A.G. (e che furono ben presto seguito da Natale Bone, Luciano Filipas, Sergio Duda, dai fratelli Franco e Mario Gherbaz), Alberto Dini e Giorgio Tarabocchia, che saranno dei punti fermi del G.S.S.G., i fratelli Fiorenzo e Renato Bratos (G.T.E.), Romano Ambroso (1929-1976), Gianfranco Bertini (G.E.S.T., R.E.S.T.), Claudio Skilan e Giorgio Nicon (G.G.C.D.). La generazione successiva, siamo ormai nell’ultimo decennio del periodo considerato, è formata da uomini nati dopo la fine della guerra: le cicatrici sono chiuse ed il passato, per molti doloroso, per tutti difficile, è diventato storia.
Nel dettaglio si può dire, facendo ricorso a dati pubblicati nel 1954 da Gian Maria Ghidini e ad una ricerca condotta da Marino Vianello per una suo lavoro presentato al X Congresso Nazionale di Speleologia (e poi mai pubblicata), che nel 1945 operavano sul Carso 60 grottisti, divenuti 180 nel 1950, 240 nel 1955, 300 nel 1960 350 nel 1965. Nel 1970 le persone che, magari saltuariamente, frequentavano le grotte erano a Trieste circa cinquecento.
Il Catasto
La struttura attorno a cui ha gravitato tutta l’attività grottistica del ventennio 1951/1970 è stata il Catasto, il catalogo ordinato di tutte le grotte conosciute della regione.
Mentre prima della prima guerra mondiale ogni società speleologica aveva un proprio catasto ed ignorava volutamente quelli delle altre, nel ventennio 1921/1940 tutti (grottisti e studiosi esterni all’ambiente) facevano riferimento al catasto della S.A.G. – divenuto ormai “il Catasto” – di cui copia era depistata presso l’Istituto Italiano di Speleologia di Postumia. L’ultima cavità catastata all’inizio della guerra è stata l’abisso di Opicina Campagna, 3873 VG.
Dopo il 1951 il Catasto, da sempre considerato uno strumento di lavoro, venuto a cadere il supporto dell’Istituto Italiano di Speleologia venne visto da alcuni come un possibile strumento di potere. La commissione Grotte della S.A.G., che lo aveva creato nel 1982 e implementato nel corso dei decenni seguenti, considerava un suo diritto il mantenimento dello status quo, mentre Walter Maucci – da poco uscito dalla S.A.G. – riteneva più equa e consona ai tempi (erano anni in cui si riteneva prioritario applicare la democrazia in ogni settore e in ogni fase della vita) una gestione collegiale dello stesso.
Le prime avvisaglie di quella che fu una lotta che divise in due la speleologia triestina per oltre un decennio si ebbero al settimo congresso nazionale di speleologia (Sardegna, 1955), in cui alla fine di un lungo dibattito i congressisti approvarono una mozione che invitava ad affidare il Catasto delle grotte alla Società Speleologica Italiana, che avrebbe dovuto nominare o avallare suoi rappresentanti in ogni regione, esautorando di fatto compiti e prerogative dell’Istituto Italiano di Speleologia – nel frattempo rinato come istituto dipendente dalla facoltà di Geologia dell’Università di Bologna, e di Gruppi che allo stesso facevano riferimento. La mozione, a carattere nazionale, avrebbe dovuto impegnare tutta la speleologia italiana, come quella – presa nella stessa sede – che vietava di dare nomi propri di persona a grotte e abissi: in realtà nessuna delle due ebbe seguito pratico.
L’anno seguente, nel corso dell’ottavo congresso nazionale di speleologia (Como, 1956) il discorso veniva ripreso e ampliato. Ad una mozione per l’affidamento del catasto alla S.S.I. Finocchiaro, rappresentante della S.A.G., dichiarò testualmente che la stessa “è intenzionata a collaborare con tutti [S.S.I. e I.I.S.], ma che non intende sottostare ad alcuna regola che può essere giustificata dall’appartenenza ad una data società” Per contro Maucci fece approvare una mozione che impegnava i gruppi grotte e gli speleologi italiani a considerare il Catasto della S.S.I. come unico Catasto ufficiale delle grotte d’Italia.
Nel 1957 si costituiva la Federazione Speleologica triestina che oltre a voler coordinare la ricerca intendeva pure assumersi la cura del Catasto; vi aderirono la S.A.S.N., il G.T.S. e il Gruppo grotte della XXX Ottobre. Non volle farvi parte la S.A.G., imitata dal G.G.C.D. che con Maucci – e quindi con la S.A.S.N. – aveva ancora aperto un contenzioso difficilmente sanabile. Nessuno dei gruppi minori entrò nella Federazione, per cui ad insistere sulla richiesta della gestione del Catasto furono soltanto tre gruppi. Le trattative si trascinarono a lungo, giungendo infine ad un accordo nel 1958 in seguito al quale il Maucci pubblicava la situazione del catasto come a sue mani e la Commissione Grotte della S.A.G. dava alle stampe i dati sulle nuove grotte (in pratica parecchie decine di cavità inedite del “vecchio catasto” e i dati di quelle dal 3873 alla 4060).
Superato questo scoglio venne formato un Comitato per la numerazione delle grotte, con sede presso la Commissione Grotte e con l’intesa di riunirsi una volta al mese. La prima seduta si tenne nel settembre 1962, presenti i rappresentanti di mezza dozzina di gruppi. Da quella data al marzo 1968 il Comitato tenne 65 sedute, catastando 422 cavità (dalla 4061 VG alla 4483 VG). Dopo il primo anno i partecipanti alle riunioni mensili (oltre al Marini, curatore del Catasto, e ad un socio della Commissione che fungeva da segretario) erano limitati ai Gruppi che dovevano inserire nuove grotte in Catasto, per cui alla fine, dopo alcune riunioni andate deserte, il curatore del catasto di sospendere le stesse. Poco assidui alle riunione sono stati proprio il G.T.S. e la S.A.S.N (1 e rispettivamente 28 presenze su 65), i Gruppi che aveva di più voluto la costituzione del Comitato. In pratica il Comitato si estinse da solo, senza provocare lamentele da parte di alcuno. Le nuove cavità messe a catasto venivano pubblicate annualmente da Dario Marini sulla rivista Alpi Giulie.
I materiali
Nel 1940 la speleologia esplorativa triestina si sentiva troppo forte per avere l’umiltà (o la necessità) di procedere ad un’analisi del rapporto mezzi impiegati/risultati ottenuti e quindi di cercare di migliorare la propria attrezzatura. Un sistema di risalita su sola corda era stato sperimentato verso la fine degli anni ’30 e quindi ripreso e perfezionato dai fratelli Domenella nel 1956. Purtroppo una gara di risalita sul pozzo d’accesso alla grotta delle Torri di Slivia (una trentina di metri) vide i salitori con sola corda perdenti, e quindi il sistema venne archiviato come una curiosità di cui discutere e sorridere in osteria.
Le esplorazioni di cavità profonde erano ancora legate al concetto di squadra, tanto più numerosa quanto più impegnativa era la grotta da visitare. Per questo, pur essendo stati presentati già parecchi anni prima nuovi modelli di scale più leggere, sul Carso si continuava a scendere i pozzi con scale costituite da cavi d’acciaio di & – 8 mm e gradini in legno del diametro di 18 – 22 mm assicurati ai cavi con filo di ferro cotto di mm 1,2/1,4. Le scale di corda, ancora presenti in qualche magazzino, non erano più usate.
Un miglioramento si ebbe verso la metà degli anni ’50, con la costruzione di scale con cavo di 5 mm e gradini in alluminio assicurati con legature di filo di ferro o con morsetti (interni al gradino) di ottone. Dal 1963 – anno dell’inizio delle esplorazioni sul Canin – entrarono in uso scale superleggere, che utilizzavano cavo Aerfer da 3,17 mm ed il gradino bloccato da un tondino di rame cotto posto al suo interno. In via sperimentale vennero pure costruiti alcuni spezzoni di scale, destinati alle squadre di punta, con cavi da 2 e 1,5 mm. Verso la fine del decennio la sicura fatta da gruppi di uomini stanziati sopra i pozzi più profondi cominciò ad essere sostituita dagli autobloccanti usati in risalita, mentre la discesa avveniva utilizzando il discensore.
Le funi per la sicura variavano da gruppo a gruppo. Più diffuse di tutte (soprattutto fra i gruppi più piccoli, in considerazione del costo più contenuto) erano le corde di manila, economiche, resistenti all’umido ma estremamente scorticanti (i guanti erano pochissimo diffusi), del diametro che andava da 12 ai 24 mm, a seconda della loro lunghezza. I gruppi più danarosi avevano nel loro parco attrezzi anche qualche corda di canapa, sul tipo di quelle usate in roccia. Negli anni ’60 entrarono in uso le corde di fibre, che sotituirono in breve tempo quelle di manila, permettendo quindi l’impiego del discensore e dei bloccanti di autosicura.
L’abbigliamento agli inizi del periodo in esame era costituto da una tua da operaio, scarponi chiodati, elmetto militare, cinturone da pompiere. L’illuminazione era data dalla lampada ad acetilene, tenuta a mano, e da candela sull’elmo.
Dal 1945 l’elmetto della prima guerra mondiale e quello dell’U.N.P.A. (Unione nazionale Protezione Antiaerea, simile come modello al primo, ma più grande e più leggere, in quanto fatto di latta) vennero sostituiti dapprima da elmetti dei vari eserciti che transitarono sul Carso: italiani in acciaio mod. 33, tedeschi, americani, inglesi, di carristi, di paracadutisti, e quindi da caschi di plastica da cantiere. Nello stesso periodo le tute da meccanico lasciarono il posto alle tue mimetiche dell’esercito, i cinturoni da pompiere agli imbraghi da roccia Cassin e la candela ai fanali di bicicletta opportunamente modificati (e anche da qualche prototipo di fotoforo ad acetilene).
Verso la fine degli anni ’50 erano entrati in uso corrente gli elmetti in fibra, da roccia o da miniera; negli anni ’60 ormai non c’era grottista triestino che non avesse l’elmetto di plastica con piazzato sopra un impianto illuminante autocostruito (spesso dotato di sistema piezo per l’accensione) collegato con la lampada a carburo, talvolta doppio (acetilene ed elettrico). Per le esplorazioni di grotte fredde e con acqua nel ventennio 1951-1970 il grottista utilizzava pure una sottotuta in gomma (due pezzi da motociclista o da skipper) e gli stivali di gomma, che nella seconda metà degli anni ’50 avevano definitivamente sostituito gli scarponi.
L’arretratezza dei materiali personali e collettivi in uso nei primi anni del trentennio 1940/1970 venne presto superata, andando anche altre a quanto consigliato dai coevi manuali di tecnica speleologica.
Il Soccorso Speleologico
La litigiosità e lo spirito di indipendenza (che in taluni casi sfiorava l’anarchia) dei gruppi grotte già accennata in precedenza (sul finire degli anni ’50 si era giunti al punto di spiare – alla stazione delle autocorriere e nei borghi carsici – e quindi pedinare i grottisti dei gruppi avversari, al fine di carpire informazioni sulle nuove cavità) vennero mitigati da due fattori nuovi: la legge regionale sulla speleologia ed il Soccorso Speleologico.
Relativamente alla prima, la regione aveva chiesto, per il riparto dei contributi, di avere un unico interlocutore: fu giocoforza quindi per i gruppi della regione sedersi attorno ad un tavolo e nominare un Comitato di Coordinamento. Era un primo passo sulla strada del chiarimento dei malintesi accumulatisi in tanti anni.
Più determinante, per la creazione di un nuovo spirito di collaborazione, fu la nascita del Soccorso Speleologico. L’alto numero di frequentatori delle grotte del Carso aveva portato come conseguenza indiretta un certo numero di gravi incidenti (xx dal 1940 al 1970, con 10 morti xx infortunati).
Già nel 1956 Renato Tommasini, all’ottavo Congresso Nazionale di Speleologia era intervenuto sulla necessità di istituire un soccorso speleologico, intervento però che allora non ebbe seguito alcuno. Nel 1965 uomini della SAG, della AXXXO e del GTS furono chiamati in Lombardia per il recupero della salma di un giovane perito nella Grotta Guglielmo. A seguito di questo incidente venne costituto il Soccorso Speleologico che ebbe il suo battesimo l’anno seguente al Buco del Castello, sempre in Lombardia; la direzione del Secondo Gruppo (comprendente il Trentino Alto Adige, il Veneto e il Friuli Venezia Giulia) venne affidata a Marino Vianello che chiamò a collaborare i migliori speleologi attivi in quegli anni.
La necessità di operare in grotta assieme determinò quindi un nuovo modo di intendere i rapporti fra i gruppi che migliorarono a tal punto che nel 1969 i triestini poterono organizzare con successo il primo Convegno Nazionale del Soccorso Speleologico, manifestazione tenuta a Trieste i primi di novembre di quell’anno ed a cui parteciparono un centinaio di speleologi provenienti da tutt’Italia.
I congressi e le pubblicazioni
Le manifestazioni congressuali hanno sempre una ricaduta tecnica culturale sull’ambiente in cui si sono svolte. Non fa eccezione il settore speleologico, per cui parlando della storia dei Gruppi Grotte triestini è opportuno accennare pure ai congressi che si sono svolti nella provincia nel trentennio di cui si sta trattando. Stesso discorso si può fare per quanto concerne le pubblicazioni, veritiera espressione – nel bene e nel male – della cultura speleologica che le produce.
Dopo il primo Congresso Nazionale di Speleologia, organizzato a Trieste e Postumia nel 1933, la città di San Giusto ebbe sino al 1970 una discreta attività congressuale, sia con la costante partecipazione di membri dei vari gruppi ai congressi organizzati in Italia (Asiago, 1948; Chieti, 1949; Bari, 1950; Salerno 1951; Sardegna, 1955; Como, 1956; Bari – Lecce – Salerno, 1958; Roma, 1968) sia con l’organizzazione diretta di tali manifestazioni. Nel 1954 a Trieste venne convocato (S.A.G., S.A.S.N., G.T.S.) il 6° Congresso Nazionale. che vide riuniti 93 partecipanti (più 38 enti e gruppi aderenti).
Gli “atti”, pubblicati sia come volume a sé stante, sia come primo fascicolo della terza serie della rivista “Le Grotte d’Italia”, 338 pagine con 55 relazioni, furono la prima corposa monografia speleologica del dopoguerra. Nel 1963, in occasione del centenario del C.A.I. i gruppi grotte delle due sezioni di Trieste (S.A.G. e AXXXO) organizzarono il 9° Congresso Nazionale, che riscosse come il sesto un lusinghiero successo: 113 iscritti (più 32 enti aderenti), 58 relazioni, gli “atti” pubblicati in due volumi di rispettivamente 72 e 360 pagine. Fra i due congressi nazionali venne indetto a Trieste, dalla Federazione Speleologica Triestina, il Primo Convegno Speleologico Triestino (aprile 1958), mentre nel novembre 1969 il Soccorso Speleologico organizzò il suo primo Convegno Nazionale. Mentre gli “atti” del soccorso sono stati pubblicati tempestivamente (xx partecipanti, xx relazioni), purtroppo la Federazione degli anni ’50 non è stata in grado di pubblicare gli “atti” di quella prima assise, per cui non rimangono documenti sufficienti per definirne ampiezza e valore.
Per quanto attiene le pubblicazioni all’inizio del periodo considerato l’unica rivista cittadina a parlare di grotte (e anche quella, allora, poco) era Alpi Giulie, il periodico della S.A.G., mentre le Grotte d’Italia, morto Eugenio Boegan, erano diventate una rivista scientifica staccata dall’ambiente grottistico triestino.
Successivamente notizie sparse – oltre che sulla stampa quotidiana – vennero pubblicate sulla rivista delle sezioni trivenete del C.A.I., “Le Alpi Venete”, sulla Rivista Mensile del C.A.I. e su Rassegna Speleologica. Appena nel 1950 a Trieste si ricomincerà a pubblicare scritti di grotte: inizierà la S.A.G. con un numero speciale di Alpi Giulie, subito seguita dalla S.A.S.N. che dedicherà ampio spazio alla speleologia sul suo Bollettino. Saranno queste due riviste a portare in giro per l’Italia, per oltre un decennio, la voce della speleologia triestina. Verso la fine degli anni ’50 cominceranno ad apparire i primi giornaletti ciclostilati: “El Buso” (S.A.G., dal 1957 ai primi anni ’70), “Il Carso” del G.E.S.T. (1958) e “Il Carso” del G.S.T. (1964/1965).
Soltanto negli anni ’60 si avranno le prime riviste speleologiche di un certo spessore: Atti e Memorie (C.G.E.B. – S.A.G., 1961), Annali (AXXXO, 1967), Ricerche e scoperte speleologiche (G.G.C.D., 1967).