La puleggia ritrovata

 

LA PULEGGIA RITROVATA

pubblicato su ” PROGRESSIONE N 52 ” anno 2005

Il moderno display digitale indica il numero 38.
L’orologio, stretto al mio polso destro, scelto tra i meno cari d’ un negozio del centro, spacca le 6.Fà un caldo boia, a bordo.
Cerco il tasto del climatizzatore, in dotazione su questi nuovi bus all’avanguardia, ma vedo solo quel bel simboletto del fiocco di neve. Il tasto non c’è ed al suo posto è stato piazzato un pezzo di carta gommata che qualche collega buontempone ha provveduto ad imbrattare con disegni osceni.
Rombo di diesel sporco.
Dal sedile di guida ruoto di mezzo giro il busto per accertarmi se c’è l’immancabile vecchietta rompiballe: questa è l’ora sua! Infatti, c’è.
Strano, oggi la scarpa destra fa una bella presa sul grosso pedale dell’acceleratore.
E’ sicuramente quel rimasuglio di gomma da masticare che non sono riuscito a levar via del tutto dalla suola del mio mocassino. Maledette chewing – gum!
Giù in piazza ci sono decine di sbarbatelli; sarà stata sputata da una di quelle bocche pestifere che romperei volentieri. Sono già così vecchio?
Poco male, pesto duro: tavoletta o quasi.
Le ruote girano vorticosamente cosi come le mie palle. Sì, sono nervoso! Nervoso non per la canicola afosa che m’ incolla al sedile di guida tirando su l’acquetta di sudore lasciata lì dai culi d’altri colleghi, no, non per quello; e nemmeno per lo sguardo vitreo e maligno della vecchia, stampato sul largo specchietto retrovisore interno. La grinzosa passeggera si limita a bofonchiare qualche lamentela attendendo il capolinea, dove – già lo so – scenderà sana e salva e potrà così sfogare appieno le maledizioni più misere nate dalle sue logore viscere. Io mi limiterò a prendere il quinto caffé del mattino.
No, vi dico, non è per questo che le palle girano, è perché non riesco a fissare i pensieri per questo articolo. Forse è stata colpa ( o grazie ad esso ) del titolo, balzato fuori all’improvviso dai cunicoli cerebrali, che mi ha costretto a stringere la penna.
Per il resto, intendo il contenuto, mi sono affidato al tempo, il quale come ottimo consigliere ha provveduto a sporcare d’inchiostro la carta… come il nero fumo di una fiamma ad acetilene imbratta l’abisso.
“LA SCOREGGIA DELLA PULEGGIA”
Nemmeno una donna scoreggia. Così la leggenda, che m’è sempre stata data a bere fin dalla tenera età, crollò con le mie prime esperienze.
PRIMA PARTE
Quella cara e vecchia puleggia, ormai non più rossa, appesa sulla sbarra impolverata della cantina, non cigolava più. Al sollecitamento del ruotino, ne scaturiva un suono, un rumore, direi quasi una pernacchia molto particolare.
“Oddio, la mia puleggia scoreggia!” Neanche il CRC servì a farle cambiare suono.
Mancava dalla mia attrezzatura da molto tempo ed ora era nuovamente lì, in mezzo a tutto quel cordame rosicchiato da topi.
S’era buscata la ruggine, ruggine di quella seria, due anni o quasi là sotto, a -430 in Davanzo. Se ne stava chiusa dentro al puzzo d’umido del sacchetto d’armo in compagnia di qualche vecchio spit. C’era anche un battitore insanguinato, non proprio il “tormiento”, ma qualcosa di simile, di quelli con l’impugnatura da acceleratore di moto.
Era il lontano ( forse non poi così lontano ) ’89, quando Guido mi consigliò di acquistarla.
E’ vero, ne convengo, quest’aggeggio è davvero utile… quando ti serve.
A me la puleggia è servita, se ricordo bene, per recuperare quei sacchi al “Sima Gesm”.Nulla più, una vera fortuna. Forse l’ ho usata anche in cava, o forse in cantina sempre sulla sbarra, a quel tempo lucida, dove la travolgente idea vomitata da Mario, in pratica quella di utilizzare il contrappeso con maniglia per allenamento, dettava moda tra gli speleo più esigenti.
Beh, è tornata lì, appesa, a “scoreggiare” nel silenzio lo speleo che sono, che ero, o che probabilmente non lo sono stato mai.
Accanto a lei c’è un moschettone crivellato da più di trent’anni d’acqua.
“Ara, dove te gà trovà sto Pierre Allain?” La domanda venne fuori “strisciata” dal fumo puzzolente di un sigaro toscano. La voce era roca, quasi coperta dagli schiamazzi dei bambini seduti attorno a qualche avanzo di pizza. Aurisina, pizzeria.
Assieme a Tullio, seduto sui ricordi di quella crosta di metallo tutto buchi, balzata fuori come per magia dalla mano di uno che non ha vissuto certe storie, c’era Refe.
Un boccone della margherita più Vienna ricacciò dentro quel tuffo al cuore, ma per un istante ( forse più di uno ) le loro forti mani afferravano ancora una volta i pioli di quelle scale penzolanti nel buio, quasi a non volerle staccare mai.
“… Meandro de seicento. Sessanta, fessura verticale, rigagnolo d’acqua in strettoia… Lo gò trovado là; iera nelacua…” – risposi agitato -.
Crebbe così la felicità per aver trovato quel cimelio, e di possederlo tra le mie cose. Infatti, quel moschettone, incredibilmente martoriato dalla corrosione, addirittura perforato, ora ha trovato dimora più degna. E’ agganciato al lampadario della tavola da pranzo, sempre in vista, dove il piccolo Luca s’ arrampica per poterlo sfiorare con le dita.
Ordunque, s’era detto: “ Davanzo! “ e s’era detto “ meandro di 600 “. S’era inoltre parlato del fondo e poi del campo a 500. Eh sì, il campo a 500, dove forse c’era ancora qualcosa da vedere; o così m’è stato detto.
Anche Elio – che non è un gas, ma di gas quella sera ne ingurgitò parecchio- mi disse: “ Campo 2 !…Sì, quello all’interno del meandro; devi percorrere 400 metri di quell’inferno prima di beccarlo…Un posto strano…Un grosso arrivo e ..”. Lo sguardo fisso nel vuoto cercava l’immagine del passato.” …Un pozzo, anzi un arrivo. Un grosso arrivo proveniente da un altro sistema…Mah, chissà?…”- un piccolo rutto e continuò- : “ …Feci qualche metro d’arrampicata, poi mollai. Avevamo ben altro da fare là sotto! “:
Non ricordo se si riferiva al calvario della gamba di Borghesi, fratturata al di là del meandro , e dello strazio per portare a casa la pelle, oppure alle estenuanti esplorazioni in quello splendido quanto bastardo buco ( …e con i mezzi di allora, poi!).
Fatto stà che in quell’ abisso il puzzo del passato e delle sue storie si fa sentire già dal campo 1 a – 250, prima del Grande meandro.

Pozzo dei due deviatori sopra P 35 ( foto M. Bellodi)

Cibo raffermo, scatolame, brandelli di vecchie tute, tegamini sforacchiati,            “ luganighe” di carburo più o meno intatte, chiodi a pressione arrugginiti, spaghi penzolanti, nylon e “scovazze”. Trovai persino delle chiazze rosse sparse un po’ ovunque lungo il meandro. Si trattava probabilmente di colore che serviva per marcare la via giusta in quel labirinto verticale,ma che la cupa suggestione lo trasformò immediatamente in macchie di sangue.
Al campo ci arrivammo, Stefanin ed io, ed andammo anche oltre, a -430 circa, quasi alla meta. Abbandonammo i sacchi e la mia puleggia, e veloci indietreggiammo con la musica del “torneremo!” …Tempo scaduto.
Non tornammo più, o meglio, ci tornò lui, da solo, e senza che io ne sapessi nulla. Prese la zavorra e la portò fuori dal meandro, a – 250.
Devo dire che fu un gran regalo, per me, quella sua prova di forza e di coraggio. Ancora oggi però, e non so il perché, provo una certa riluttanza nello scovare fuori una semplice parola di gratitudine che assomigli ad un grazie.
Il campo 2 fu allestito, ed è certamente ancora intatto: un bel cubo di teli termici, qualche materassino, carburo.

Verso il CampoA fino al meandro di 600 m (foto M. Bellodi)

Quel giorno il bivacco DVP parlava di giovani esplorazioni, di priorità, e di giovani bocche alcoliche. Qualche doloruccio qua e là.
Con la “longe” in mano, Barbara sibilò più volte, tra la sensuale fessura degli incisivi, il desiderio di distruggere la sua tuta nuova tra la morsa di quelle viscide pareti infernali.
Ci riuscì a meraviglia ed il campo 2 fu sistemato per qualche “Don Chisciotte” del futuro.
Non c’era più nulla da fare la sotto, non certo per sole due persone!
“Cantieri in sospeso… lavori de scavo… busi che sufia… semo fermi a – 500… aria, aria dela madona… lori sta lavorando de là, mi go un buseto de qua. Prometi ben… no xe tempo pel Davanzo!…” In poche parole, anzi una soltanto e ben azzeccata:
“ Ciavite !”
Nessuno fu disposto a far “straordinari” in Davanzo, ed io non gli diedi torto.
Come i fondacci rimasti in una tazzina di caffè alla turca, cosi restò in sospeso il recupero del materiale. Quindi, un po’ per la nascita di Luca ma, son sincero, forse più per la mancanza di “mone” decisi a buttar via del tempo “prezioso” in quel buco appartenente al passato, rimandai il disarmo.
Fu il Musico, “strappato” con forza giù dal suo parapendio, che con il suo vivo interesse a “ragliare” su pei pozzi, mi aiutò a farla finita con quella storia… E la puleggia ridivenne nuovamente mia.
No, non m’ ero certo scordato di Erich! Erich l’amico; Erich il collega; Erich il fotografo; Erich compagno di viaggio, compagno di bicchiere… Erich speleo: un’ audace trovata!
Eppure il suo fisico, ricoperto da un grosso strato di “melma” sedimentata da una profonda pigrizia, rispondeva bene ai crampi inflitti dalle molte ore di buio.
La sua faccia storpiata da una smorfia allibita sbucò dal Grande meandro. Lì, il suo terribile e ricorrente incubo infantile prese inaspettatamente forma nella realtà:
-“Oddio, ma allora esiste!?… Esiste veramente!?”- biascicò tra la colla della sua saliva.
Per anni s’era sognato quel anfratto verticale, quasi ogni notte, ed ora lo stava percorrendo esterrefatto. Incredibilmente, come la conoscenza scaccia ogni paura, d’incanto quel incubo tanto pressante di allora precipitò finalmente in un tiepido limbo, liberandolo per sempre.
Si parlò a lungo di esperienze ipogee, soprattutto di cosa mai potesse colpire là sotto, oltre a quel suo incubo materializzato.
Nonostante le bottiglie vuote, quella sera, Erich non cercò rifugio in risposte idiote e scontate. Se ne venne fuori invece con un osservazione già detta in Genziana, poco tempo prima. La fatica, ecco cosa di più lo colpiva! Quella fatica con la “f” maiuscola, apparentemente priva di significato che la si prova nello strofinare il proprio naso nel fango gelido per ore ed ore, in qualche pertugio, possibilmente trascinando un sacco.
Dannazione, la definimmo. Una stupida dannazione cercata, voluta, e assolutamente priva di un compenso tangibile.

p 70 (foto M. Bellodi)

Giri di parole; bestemmie confuse; bicchieri; posacenere; eravamo entrati goffamente in quella “ filosofia da bettola” nella quale siamo sempre stati intrappolati.
Un calcio nello stinco, quattro birre, la saracinesca cigolò.
L’ultima frase impastata pose fine a quello squallido simposio: “La fatica ipogea serve solo ad esaltare il sapore di una birra ed un piatto di spaghetti”.
Un cupo rimorso calò funesto appena aprii la brutta porta del nuovo DVP. Dov’ero quando fu costruito? Già, a quel tempo non frequentavo l’ambiente speleo.
Tentai invano di cercare un alibi nella mia mente affinché chetasse l’ animo, ma solo mio figlio riuscì nell’ intento. Luca entrò gioioso in quella casetta così graziosa e si tuffò sui comodi materassini. “ Dibipì, dibipì!… Biiacco dibipì!”- urlò felice-
Suo padre lo aveva portato, questa volta, per passarci la notte; un notte ben diversa da quella trascorsa da me e sua madre Chiara tre anni prima. Eravamo soli, Luca non s’era ancora affacciato al mondo.
Chi l’avrebbe mai detto che un bivacco, in un certo qual modo, può far parte di una famiglia? Eh si, forse stò parlando di romanticismo. Del resto può occupare un piccolo posticino del “ vissuto “ anche quell’orrido piazzale di Sella Nevea dove ora Luca ha già imparato a riconoscere il “fugon azzuiio” di Vasco.
Vasco ed il suo compare: quello strano omone con gli occhiali e la voce greve che tutti, chissà perché, chiamano Orso Paponcio. Eppure non è così tanto diverso dall’orsetto di peluche che Luca stringe al petto quando si addormenta.
La seconda che ci incontrammo, sempre in quel piazzale, con Mario e Vasco c’era anche Refe.
Dalle loro facce abbronzate dal fango, qualche ruga in più scavata dalla stanchezza testimoniava la riuscita dell’impresa: Gortani.
Tra i brevi racconti di piene improvvise e corde ridotte a fil di ferro pareva anche a Luca volesse dir qualcosa: -“…ghiotta di Budur…cunicolo…”-

Già, la grotta della principessa Budur (G.Savi ) piena di tesori nascosti, pertugi e cunicoli segreti…forse qualche pipistrello. E la porta; quella grossa porta di ferro pesantissima che cela tutto quel mondo e che solo papà ha la fortuna di possedere le chiavi per aprirla. Magia.
Ma in quel piazzale fece capolino la porta di ben altra grotta: la porta del Signore degli Abissi. “Semo come un spiraglio de luce de una porta che se stà serando”- così disse l’orso, un giorno-.
Eppure quella porta che si sta chiudendo, la quale custodisce gelosamente un “tempo generazionale”, è riuscita a stritolarmi l’alluce del piede destro.
Un tenue raggio di quello spiraglio di luce riflette sulla nuca bionda di mio figlio. A me basta così!
“Te ga disarmà el Davanzo?”- ringhiò curioso il Signore degli Abissi-.
La domanda, sempre la stessa da ormai più di due anni, questa volta assunse un altro significato; non era un ultimatum per la mia lunga storia impossibile con quell’abisso.
Infatti nel tono della sua voce colsi l’impercettibile sfumatura di speranza, la speranza che la mia lungaggine per il recupero delle corde si fosse protratta sino a quella domanda. Ma non fù così. E fu probabilmente un peccato, un peccato davvero.
L’abbraccio, più sentito che mai, ci spedì poi per strade diverse.

…2° PARTE

C’e chi sostiene, forse indiscussi benemeriti sapienti, che certa gente và in grotta solo per soddisfare il bisogno di percorrerne gli spazi vuoti.
Ebbene, lo confesso, faccio parte di questa cerchia.
Ma è proprio in questa dimensione fatta di vuoto compresso dalla pietra che si muovono goffamente gli esploratori del nulla, i ricercatori dell’inutile. Questi instancabili domatori della fatica, questi improbabili custodi del buio, sono ancora lì, alla ricerca della via che conduce alla conquista del tempo. Il “tempo sotterraneo” è così lento che la percezione umana rimane immobile, quasi assente, come lo è la gravità nello spazio.
Quel “kroll, maniglia… di nuovo nella merda” del buon Tullio ( vedi Progressione ) và si da imputare ad un’empirica fuga verso la protezione del grembo materno di pietra, ma altresì, e ben più importante, và da ricercare nello sfasamento del ritmo temporale tra “dentro” e “fuori”.
A furia di percorrere il vuoto può accadere che il piacere a farlo si trasformi in necessità sino quasi a confondere una realtà col sogno, parlando così una lingua che ben pochi conoscono.
In poche parole, l’ingenuità dello speleo spesso è generata dal desiderio inconsapevole di trasportare il fattore tempo-sotterraneo nella quotidianità.
Pregio o difetto? Entrambi direi, anche se io personalmente sarei più incline al difetto. Certo è che la soggettività umana gioca un ruolo importante nella sfera delle osservazioni di ciò che ognuno percepisce. A proposito di percezione: il tempo è ovviamente in relazione con la carne ( mente compresa ) e quindi con la crescita, cellula su cellula. Si sviluppano i nostri sensi, perché è con quest’ultimi che percepiamo il mondo. Ma quante volte fingiamo di vivere? I sensi fungono da filtro distorcendo ed annebbiando la vera essenza delle “cose” al di là del significato.
Eppure questa “essenza” c’è, esiste, ed è più profonda di qualsiasi abisso.
Qualcuno sicuramente sosterrà che prima di scrivere ciò che segue io abbia smarrito la ragione in qualche bicchiere di un’osmizza. Pazienza!
Dunque: che lo speleo soffra ( e sotto sotto gli piace soffrire ), è da tempo ormai appurato. Ma esso soffre anche e soprattutto per la mancanza del tempo-sotterraneo nel mondo della “superficie”. Per questo è un essere inquieto!
Ed è per quell’essenza trovata là sotto, la quale và oltre il senso e della quale in parte se ne ha sentito solo “ l’odore”, che si avverte il bisogno incontrastato di ricercarla nuovamente.
Poi c’è l’acqua. Quella che scava, erode, corrode, e ti entra nei trombini… e nell’anima.

( da “Panta Rei” di L.D.Crescenzo )
“La verità è che al mondo non c’è niente di più pericoloso dell’acqua. La terra, l’aria e il fuoco, bene o male, si possono contrastare; l’acqua, invece, è invincibile. La maledetta passa, si infiltra, entra in ogni anfratto, in ogni buco, in ogni fessura, e lì dove penetra comincia a marcire. Quand’è che un cervello dà i primi segni di squilibrio? Quando l’acqua lo invade. Quand’è che un uomo diventa stupido? Quando nella sua anima c’è più acqua che fuoco. Quand’è che un’anima comincia a morire? Quando si allaga.
Ora si dà il fatto che all’anima piaccia l’umidità. Lo so, è imbarazzante doverlo ammettere, ma all’anima piace sguazzare nell’acqua!”
“Per le anime è morte diventare acqua, mentre l’acqua è morte diventare terra, ma dalla terra sorge l’acqua e dall’acqua si libera l’anima.”
“Per le anime diventare acqua è goduria e morte.”
…Ma, a pensarci bene, chi più dello speleo è alla ricerca del fuoco, anelando la libertà e rischiando la dannazione eterna?
Spero vogliate scusarmi se ho usato la speleologia come domanda.
Marco Bellodi (dodo)