2001 – Ricerca scientifica

 

RICERCA SCIENTIFICA PERCHE’?

Pubblicato sul n. 44 di Progressione anno 2001
Ognuno si allontana volentieri dai problemi e quando è possibile preferisce non menzionarli, o meglio, negare la loro esistenza.  (C.G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna).
Nella speleologia il connubio fra l’attività ludico-esplorativa e quella di ricerca, studio, elaborazione dati, è un tema – già affrontato da parecchi autori – che ha destato il mio interesse, costituendo un’equazione che per il momento mi appare priva di soluzione.
Nei primi decenni della sua vita, quelli che la fecero assurgere al rango di “scienza” autonoma, la speleologia era un’attività esercitata essenzialmente da studiosi provenienti da vari settori del sapere organizzato e riconosciuto – idrologi, paleontologi, biologi, geografi – per i quali la grotta era soltanto un ambiente in cui condurre le proprie ricerche. Oggi essa è praticata da una moltitudine di persone accomunate dall’oggetto del loro interesse, la grotta, ma diverse per estrazione sociale, cultura, finalità. Infatti oggi nel nostro ambiente troviamo operai e studenti, professionisti e impiegati, laureati e semianalfabeti; alcuni ci sono giunti per ampliare le conoscenze, per comprendere e spiegare leggi fisiche, qualcun altro per essere “qualcuno” nel settore, altri ancora nel tentativo di evadere da un mondo che appare troppo stretto, per vedere nuovi siti, qualcuno spinto dalla bramosia di primati o dalla smania di penetrare per primo da qualche parte. Senza contare quelli, e sono i più, che vengono mossi dalla curiosità fine a se stessa.
A chi scende in grotta con finalità esplorative, sportive, ludiche – cioè alla gran massa dei frequentatori – la scienza, la ricerca “pura”, dice poco o nulla, ed è giusto che sia così, perché essa non ha assolutamente per loro un riscontro “strumentale”, nel senso che non è indispensabile per poter continuare a praticare il proprio modello di speleologia. Per questi speleologi conoscere la differenza fra un vaso a bocca quadrata e la cultura di Polada è assolutamente irrilevante, come è irrilevante il sapere che I’Orotrechus millerianus si distingue dall’Orotrechus dalmaticus perché ha due peli in più sulle zampe anteriori.
Certo, la cultura è cosa buona e utile, ma lo è tutta la cultura: saper distinguere un Raffaello da un Mantegna, un Beethoven da un Verdi, un Caruso da un Guccini dovrebbe avere la stessa valenza, per questi frequentatori del mondo sotterraneo, delle conoscenze scientifiche più prettamente legate al mondo delle grotte. E questo assunto non dovrebbe valere solo per gli speleologi, non dovrebbe esistere una gerarchia di valori nel campo del sapere.
Fino a qui nulla di nuovo. Il problema è posto, a mio avviso, da un certo comportamento di alcuni speleologi e, di riflesso, dei gruppi in cui questi sono organizzati.  Infatti, assodato che oggi per andare in grotta basta essere in possesso del materiale personale, di un po’ di tecnica e di qualche corda, il tempo a disposizione per quest’attività dovrebbe essere impiegato nel mondo sotterraneo in gite, escursioni, spedizioni, esplorazioni, studi, a seconda delle proprie potenzialità e propensioni. Non mi sembra razionale che, non dovendo condurre un determinato tipo di ricerca per ragioni accademiche – quindi per vivere – o per soddisfare brama di conoscenza – quindi per realizzarsi, si perdano tempo e denaro per raccogliere dati – temperature, campioni d’aria o di roccia, osservazioni morfologiche – che tutto sommato importano a ben pochi. E fors’anche a nessuno …
Se poi passiamo dall’individuo – i cui comportamenti possono benissimo essere spiegati da un buon psicanalista – al Gruppo, la cosa si fa più complessa. A fianco di gruppi che pubblicano dignitosi bollettini con cui informano sull’attività svolta, ve ne sono altri che distribuiscono riviste più pretenziose, ospitanti scritti che dovrebbero interessare il mondo scientifico e durare nel tempo.Mentre non c’è nulla da dire sui primi, strumenti coerenti al loro ambiente e al loro tempo, alcuni interrogativi pongono i secondi. Perché un Gruppo, che si ritrova quasi sempre a dover lottare per far quadrare il proprio bilancio, sente il dovere di investire buona parte dello stesso per pubblicare studi scientifici (o presunti tali) che interessano sul serio unicamente una minima parte dei soci? Attraverso quali perversi meccanismi la minoranza “scientifica” arriva a convincere la maggioranza “ludico-sportiva” che è meglio spendere il 40%, 50%, 60% dei soldi sociali in pubblicazioni – che ben pochi di loro leggeranno e ancor meno capiranno – piuttosto che in corde e carburo?
Un secolo di evoluzione della speleologia ha portato all’iperspecializzazione delle ricerche, con una tale moltiplicazione dei campi di indagine che lo sparuto gruppo di settori degli inizi – idrologia, biologia, paleontologia, geografia, allora tutti raccolti molto genericamente, e superficialmente, sotto la voce “scienze naturali” – è ora diventato una caterva. Abbiamo specialisti dei riempimenti, degli speleotemi, della climatologia sotterranea, con ulteriori subspecializzazioni in chimica e mineralogia, morfologia dei concrezionamenti, argille e sedimenti alluvionali, per non parlare dei campi relativi alla cronologia dei riempimenti, alla temperatura, igrometria, venti, CO, dell’aria, acque di ruscellamento e di condensazione, ghiaccio. E questi sono solo alcuni esempi.
In cent’anni questa materia di studio ha fatto passi da gigante, frazionandosi in un elevato numero di nuove discipline ognuna con suoi cultori, suoi testi sacri, scuole, riviste, indirizzi di pensiero. Un secolo fa lo speleologo era in grado di conoscere – leggere, studiare – tutto quello che era stato scritto sulle grotte, e gli studiosi potevano tenersi aggiornati, senza soverchio sforzo, tramite diretti contatti epistolari. Oggi il bagaglio culturale di quei nostri proavi è – poco più, poco meno – quanto si richiede ad un istruttore nazionale di speleologia o a un laureando per una tesina di carsismo.
La prima conseguenza di quest’evoluzione, di questa crescita della speleologia, è stata la scomparsa dello studioso isolato, capace di dar vita a circoli o gruppi in grado non solo di assisterlo e accompagnarlo nella ricerca sul terreno, ma anche di sostenere una rivista su cui pubblicare i risultati del suo lavoro. Allora il gruppo era indispensabile per l’esplorazione di grotte complesse, adesso non più e I’indagatore isolato è stato ora sostituito da gruppi di ricerca stipendiati o da ricercatori professionisti.
Nella speleologia si è verificato quindi uno spostamento dei centri culturali dalle società e dai gruppi – ma in realtà dai loro fondatori e trainer – agli atenei ed ai musei, strutture nelle quali è possibile fare ricerca a tempo pieno, contando su competenze e mezzi, nonché su di una copertura finanziaria adeguata. I gruppi, nel migliore dei casi, ora si limitano a gestire la stampa di riviste, offrendo agli autori, in cambio di una vernice di gloria “scientifica”, la loro professionalità nel campo esplorativo ed editoriale, e il loro denaro. Anche se poi sempre più spesso fra gli specialisti girano soltanto gli “estratti” dei lavori e non la rivista vera e propria, che occupa troppo spazio sugli scaffali e quindi viene cestinata.
Onestamente oggi in speleologia non si può più parlare di ricerca scientifica – soprattutto fisica – nell’ambito dei gruppi grotte: lo speleologo medio è sì in grado di descrivere ciò che ha visto sotto terra, portando anche un notevole contributo alla conoscenza del territorio, ma non ritengo che questo possa essere chiamato scienza.
E allora perché questa frenesia di pubblicare ponderosi elaborati di carsismo, di idrologia carsica, di speleomorfogenesi? Perché spendere i soldi del Gruppo per stampare riviste che ospitano lavori degli accademici di oggi o di quelli che sperano di esserlo domani? Perché continuare a pubblicare riviste e studi che ben pochi speleologi avranno il tempo e la voglia di leggere, considerato che ogni anno sono molte migliaia gli scritti che vanno ad aggiungersi alla già cospicua bibliografia speleologica?
E se son pochi gli speleologi che leggeranno quei lavori figuriamoci i cattedratici: basta scorrere le bibliografie poste dagli stessi a corredo dei loro lavori per capire quale valore danno agli elaborati degli speleologi.
La risposta più banale, più ovvia, quella che danno gli speleologi più culturalmente impegnati, potrebbe essere che la cosa è prevista nello statuto del Gruppo, di solito all’articolo 1, quello che informa che scopo del Gruppo è “lo studio delle caverne e del mondo sotterraneo”. Quella più realistica potrebbe forse essere individuata nel desiderio – individuale o collettivo – di affermare la propria presenza nel campo della scienza, giustificando così un’attività di cui altrimenti sembrerebbe doversi vergognare: vado in grotta per portare un contributo alla scienza, sono uno speleologo (“studioso delle grotte”) e non un grottista (speleofilo, appassionato di grotte). Ma sono risposte che non mi soddisfano appieno perché porrebbero questi speleologi e questa speleologia nel mondo degli alienati.
Ho detto in esordio che l’attuale connubio fra esplorazione e studio costituisce un’equazione cui non so trovar soluzione. Ritengo che l’attività speleologica – grottistica, l’andar per grotte – non sia cosa di cui ci si debba vergognare o giustificare, sia essa rivolta alla ricerca scientifica, a quella esplorativa come pure quella volta al mero appagamento estetico. Nessuno trova da ridire sul diffuso desiderio di visitare monti, valli, città, su quello di voler ampliare i confini del mondo conosciuto o su quello di aumentare le proprie conoscenze in tutti i campi dello scibile, mondo sotterraneo compreso. Sono egualmente legittimi gli studi e le esplorazioni, le indagini accurate e le escursioni dopolavoristiche.
Ma ognuno dovrebbe fare soltanto ciò per cui è preparato e portato, senza invadere i campi altrui. Serenamente e con umiltà, vocabolo di cui pare oggi si sia financo smarrito il significato. E questo vale sia per gli esploratori che per i cattedratici, categorie di pari dignità destinate a interfacciarsi continuamente e che potranno instaurare rapporti costruttivi soltanto cercando di essere se stesse. Senza spocchia e senza piaggeria.
Tuttavia questo assunto non fornisce risposta alla domanda sul perché un gruppo grotte debba spendere buona parte del suo bilancio e del suo tempo per la scienza, visto che altrettanto non fanno (non lo possono fare, forse) l’università ed il Museo per l’esplorazione. Non spiega perché si continuino a stampare cose che nessuno o quasi, gli autori e i loro amici sono esclusi dal computo, leggerà. Perché si insista a gonfiare le biblioteche di tomi destinati in buona parte a coprirsi di polvere in attesa che il tempo – vero gran signore – ed i tarli provvedano a far giustizia.
                                                                                          Pino Guidi