1999 – Irian Jaya

 

IRIAN JAYA 99

Pubblicato sul n. 41 di PROGRESSIONE – anno 1999

IRIAN JAYA è la parte occidentale della Nuova Guinea, la grande isola, quasi un continente, ai margini dell’Oceano Pacifi­co, a Nord dell’Australia. Mentre la parte orientale, ex colonia tedesca prima e in­glese poi, protettorato australiano sino ad una decina di anni fa, è attualmente indi­pendente (Papua-New Guinea), la parte occidentale, colonia olandese, divenne provincia indonesiana nel 1966, dappri­ma con il nome di Irian Barat e poi come Irian Jaya.
La fitta vegetazione, le estese pianure paludose, le alte catene montuose infram­mezzate da profondissime valli, i torrenti e i fiumi vorticosi, un clima equatoriale caldo umido con persistenti e abbondan­tissime precipitazione e copertura nuvo­losa quasi costante, l’endemismo malari­co e la presenza di feroci tribù di indigeni sovente antropofagi, ha impedito una penetrazione della civiltà, limitando per secoli gli insediamenti dei colonizzatori alla costa. Sino agli anni 50 esisteva un’unica cittadina, Hollandia (in seguito ribattezzata Jayapura), sulla costa nord. Solo durante il secondo conflitto mondia­le, per la sua importanza strategica, ven­nero create, sia dai giapponesi che dagli alleati, basi all’interno dell’isola. Gli indi­geni, che sino ad allora avevano visto solo raramente qualche missionario, vennero catapultati in un attimo nel 20 secolo e spesso usati e trattati come animali.
Solo negli anni 60 venne creata nella valle del fiume Baliem, al centro dell’lrian Jaya, una pista aerea permanente; con l’annessione all’Indonesia, paese con grossi problemi di sovrapopolazione nel­le due isole di Giava e Sumatra, ebbe inizio un flusso migratorio imponente e conseguentemente una espansione di ogni città, sia sulla costa che all’interno. La scoperta di ingenti ricchezze naturali (minerali e legname) ha ulteriormente fa­vorito l’immigrazione.
Gli indigeni, di razza melanesiana, appartenenti ad un microcosmo multiet-nico, con decine di lingue, tradizioni, usi e costumi, religioni diverse, spessissimo in guerra tra loro, sono stati in buona parte emarginati e spinti nelle regioni più remo­te e selvagge. I gruppi etnici più consi­stenti, i Dani e i Lani nella valle del Ba-liem e gli Yali sugli altipiani a Est, verso il confine con la Papua, non hanno accet­tato questa invasione e spesso sono in rivolta; le città e le valli percorse dalle rare strade sono controllate dalle forze governative mentre le montagne, gli alti­piani e le foreste sono saldamente in mano agli indigeni.
Questo prolungato isolamento, che in molte regioni persiste tuttora, ha fatto sì che le popolazioni locali rimanessero in uno stato di sviluppo pressoché fermo all’età della pietra; archi e frecce, asce di pietra e coltelli d’osso sono gli attrezzi ancora oggi di uso corrente; l’astuccio penico per gli uomini e il grembiule di paglia per le donne sono i vestiti in uso; i maiali selvatici, stentate colture di pata­ta dolce, di taro, di mais e di manioca costituiscono la base dell’alimentazione. Gran parte del territorio è inesplorato; rarissime le piste percorribili con i mezzi fuoristrada; solo l’aereo o l’elicottero per­mettono gli spostamenti.
L’idea di una prospczione speleologi­ca in questa remota regione nacque nella primavera del 1998; Marco e Lazzaro tro­varono, su alcune pubblicazioni, le rela­zioni di spedizioni inglesi, belghe e au­straliane con i resoconti di esplorazioni di grossi complessi di risorgive a fondo val­le, a quote attorno ai 1500 metri; interes­santi si rivelarono le foto delle zone montuose, in gran parte vergini, a quote sino a 4000 metri nelle quali si vedevano ampi tavolati di candido calcare profondamen­te incisi (sembrava il Col delle Erbe ma molto più grande) con possibilità quindi di potenziali carsificabili di 2000 – 2500 metri; le poche carte geologiche disponi­bili indicavano la presenza di una enorme dorsale montuosa orientata NE-SO, cul­minante con gli oltre 5000 metri del Castrens e del Trikora, con ampi affioramenti calcarei. Un bellissimo libro fotografico sulle popolazioni locali e sul paesaggio pungolò ancor più la nostra curiosità.

Ponte sospeso nell’area di Makki (foto P. Manca)

E così iniziò la preparazione.
Vengono contattati alcuni gruppi stra­nieri per avere maggiori ragguagli su quanto già fatto e sulla logistica; uno speleo australiano, residente a Wamena, ci da delle indicazioni e si mostra dispo­nibile a supportarci (poi però per motivi di lavoro non potrà essere presente); re­perite le carte topografiche aeree, purtrop­po in scala inadatta, ma sufficienti per ave­re un’idea generale delle zone e delle loro caratteristiche orografiche, vengono indi­viduate alcune aree interessanti sugli alti piani a SO di Wamena, raggiungibili però solo in elicottero; altre aree “di riserva” vengono prese in considerazione nell’eve­nienza, tutt’altro che remota, dell’impos­sibilità di usare il mezzo aereo.
Intanto si costituisce il gruppo di par­tecipanti e si suddividono i compiti. Ven­gono preparate le liste del materiale, sia esplorativo che logistico, necessario; ven­gono pianificati i voli dall’Italia a Wamena e prenotati i biglietti; ci si informa sul ri­schio di malaria e si raccolgono altre notizie su malattie e rischi sanitari.
Un’attenzione particolare viene posta per ottenere i permessi di esplorazione e di accesso alle zone che riteniamo inte­ressanti. Vengono contattati i competenti uffici ministeriali, la federazione speleolo­gica indonesiana, il

Palude intorno al lago Habema (foto E. Stenner)

locale servizio geolo­gico; viene preparata e spedita con largo anticipo la documentazione richiesta, sup­portata da una presentazione del Dott. Mastrovalerio, console della Repubblica Indonesiana a Trieste (che qui voglio rin­graziare), che ci ha molto aiutato soprat­tutto per entrare in sintonia con la buro­crazia di quel paese. Purtroppo, nonostante ciò, per pochi cavilli burocra­tici, non siamo riusciti ad avere i permes­si prima della partenza e a Jayapura ci siamo fatti rilasciare il semplice permes­so di trekking, che escludeva qualsiasi possibilità esplorativa ipogea.
Scarsa è stata la risposta alle numero­sissime lettere di richiesta di sponsoriz­zazione e solo poche ditte di attrezzature tecniche ci hanno fornito alcuni materiali.
Finalmente bene o male si parte. Betty, Davide, Elio e Paolo, precedono gli altri di qualche giorno per organizzare sul posto la spedizione: cercano, senza riu­scirci (visto il tempo pessimo, per fortu­na), un elicottero; trovano guide e porta­tori e selezionano le zone proposte come interessanti dai locali; acquistano i mate­riali non trasportabili dall’Italia. Tre giorni dopo arriviamo anche noi: Mario, Marco, Lazzaro e Jumbo. Ci dividiamo in tre grup­petti e si parte per le varie zone.
I risultati e le impressioni delle singole squadre sono descritte in specifici articoli di questa rivista. Vorrei fare solo delle considerazioni globali e cumulative della spedizione.
Delle aree visitate (ben cinque), una (Makki) si è rivelata una bolla di sapone; una seconda (llugwa) già in parte esplo­rata e in parte inaccessibile per mancan­za di permessi; la terza (Dumboni) inte­ressante per le implicazioni etniche e antropologiche, con sicura presenza di grotte e caverne, ma a quote basse, di scarso interesse per noi; la quarta già pre­notata dagli australiani; la quinta, infine, a quote tra i 3400 e i 4000 a SO del lago Habema e ad Ovest del Trikora, con vasti altipiani calcarei crivellati da pozzi, enor­mi inghiottitoi, vaste doline e valli chiuse, è risultata la più promettente e quella che sicuramente merita un ritorno. Tutto som­mato è anche quella più raggiungibile senza mezzi aerei (che io sconsiglio per la quasi costanza di brutto tempo con nuvo­le basse).
La burocrazia indonesiana si è dimo­strata un muro quasi insormontabile e, pur con l’appoggio del Console a Trieste, pur iniziando la corrispondenza quasi un anno prima, non siamo riusciti ad avere i per­messi: quando torneremo dovremo inizia­re a lavorarci ancora prima.
Le guide e i portatori non sono abitua­ti e non hanno l’abbigliamento necessa­rio per operare in quota e al freddo (an­che all’equatore nevica a 4000 metri); nel pianificare la prossima spedizione sarà indispensabile prevedere di utilizzare solo una o due guide per la conoscenza del terreno e per i rapporti con i locali ed essere autosufficienti per il resto.
Le condizioni socio politiche condizio­nano pesantemente l’operatività in loco: con i permessi governativi è possibile muoversi nelle aree controllate dagli indonesiani ma non in quelle controllate dagli indigeni che anzi ti considerano nemico; senza i permessi puoi essere “adottato” dai locali ma puoi aver proble­mi con l’esercito che controlla le valli e le strade di accesso alle montagne. È inol­tre ubiquitaria la pratica di “oliare” con mance e regali i posti di controllo, i capi villaggio, i proprietari dei terreni che devi attraversare ecc.
Lo splendore della natura e di pae­saggi, la sensazione di essere completa­mente fuori dalla civiltà, le possibilità speleologiche della zona, l’esperienza del contatto con gli ultimi uomini dell’età della pietra del pianeta ci hanno ampiamente ripagato sia del lungo lavoro di prepara­zione della spedizione, sia delle intermi­nabili e pericolose camminate su infidi e scivolosi tronchi o in freddi acquitrini o in calde e appiccicose foreste.
E non vedo l’ora di tornarci.
                                                                                               Umberto Tognolli

Grande inghiottitoio nella zona Habema alta (foto U. Tognolli)

 

JURASSIC VALLEY

Grande baratro nella foresta in zona Dumboni (foto U. Tognolli)

«E dove vai quest’anno?»
«In Irian Jaya a cercar grotte.»
«Dove?»
«In Irian Jaya.»
«E dov’è questo posto?»
«In Nuova Guinea.»
«Ahh, questa è la volta che ti mangiano».
Questo il ritornello che sentivo sul lavo­ro dai colleghi, abituati ai miei viaggi in posti sperduti. Già l’anno precedente avevo avu­to un assaggio dell’Isola, visitando la Papua-New Guinea, la parte orientale, indipen­dente, filo australiana e quindi un po’ più moderna; “migliaia di zanzare malariche per metro cubo d’aria” era stato il mio com­mento al ritorno, tutto coperto di punture.
Dopo una preparazione di molti mesi, apparentemente superati gli intoppi buro­cratici, ottenuto un aumento della franchi­gia bagaglio sia dalla Lufthansa che dalla Garuda, con i nostri “leggeri” sacchi da spedizione (minimo 35 Kg più il bagaglio a mano – altri 15 almeno) si parte.
In quattro, Paponcio, Lazzaro, Danko e io, preceduti di alcuni giorni da Betty, Da­vide, Paolin e Elio, dopo un volo intermina­bile via Francoforte – Djakarta arriviamo al mattino, sconvolti dal sonno, a Sentani, cittadina a 40 chilometri da Jayapura.

Passaggio aereo su tronchi zona Dumboni (foto U. Tognolli)

Qui troviamo Betty e Davide che spediscono immediatamente un amico locale con i nostri passaporti a farci i permessi di trekking (non siamo riusciti ad avere i per­messi speciali di esplorazione) e che ci mettono al corrente delle ultime novità: fa caldo e umido, piove sempre, è pieno di zanzare, non ci sono birre, probabilmente non c’è l’elicottero, il cambio è da strozzi­naggio e abbiamo due ore prima di pren­dere l’aereo per Wamena, altrimenti dob­biamo aspettare il giorno dopo.
Per fortuna i permessi arrivano in tem­po e così tutti di corsa di nuovo in aeropor­to; pesati i bagagli, ci imbarchiamo su una specie di cargo multiuso, seduti anche su sacchi di riso; l’aereo, di quelli che si vedo­no nei film di trafficanti di droga o di rifor­nimenti nelle guerre indocinesi, incredibilmente riesce ad alzarsi. «Se sapeste solo metà di quello che so io sugli aerei scen­dereste di corsa!» – dice il quasi pilota Danko pallido, sudato ed atterrito.
Nonostante le più terribili profezie, l’ae­reo atterra dopo 50 minuti a Wamena, nella valle del Baliem. Siamo a quasi 1500 metri di altezza, il cielo è in parte nuvoloso ma l’aria è decisamente fresca e respirabile; Elio e Paolin ci accolgono all’aeroporto e ci guidano – noi cominciamo a vaneggiare per il sonno – all’Hotel Trendy; le notizie sono: l’elicottero non è disponibile, c’è ne uno russo, ma il pilota è pazzo, vuole troppi soldi e non torna a prenderci; siamo quasi in una guerra civile, arrivano ogni giorno aerei militari  indonesiani con uomini e mez­zi; la principale zona da noi individuata non è comunque raggiungibile perché contesa tra forze governative e rivoltosi, troppo di­ stante e senza elicottero; piove sempre. Le guide e i portatori reclutati da Elio e Paolo hanno proposto altre zone, secondo loro con grotte inesplorate, che impongo­no una modificazione completa dell’idea ini­ziale: più squadre di pochi uomini in aree diverse. Suddivisi i materiali, il giorno se­guente, dopo un sonno ristoratore, ci si saluta: Danko, Davide e Betty vanno a llugwa e sul sovrastante monte Kumul; Mario, Paolin e Lazzaro su un monte vicino al paese di Makki e i due vecchietti – io ed Elio – a Dumboni, in una tranquilla zona di pianura – nulla di più falso, jungla caldo-umida afosa con cannibali.
E siamo proprio noi due vecchietti che, rientrati a Wamena dopo aver visto e scar­tato la zona assegnataci, decidiamo di fare una puntata verso le zone alte, vicino al lago Habema, ad ovest del monte Trikora.
Preparati gli zaini per noi e per i porta­tori, dopo una lunga attesa della jeep e della “scorta militare”, ci inerpichiamo lungo una strada sterrata, tra colline coperte dappri­ma di foreste e poi da una bassa ma fitta vegetazione primordiale sino a quando, superato un passo a quasi 3600 metri, si apre la piana del lago Habema. Qui salutia­mo l’autista, con la promessa che sarebbe venuto a riprenderci tra 4 giorni; anche la scorta – non si sa bene a che cosa avrebbe dovuto servirci a parte quella di estorcerci tangenti per permessi fantasma, vista la mancanza di qualsiasi arma – dopo le foto ricordo di rito se ne va.
A sud, in lontananza si staglia, tra le nuvole, il massiccio del Trikora; alla sua destra vediamo biancheggiare la nostra meta: bianche bastionate di roccia calca­rea. Da esse ci separano basse dorsali che dovremo oltrepassare. Poiché siamo già nel tardo pomeriggio, John, la nostra guida, vorrebbe fermarsi e piazzare il campo sulla sponda del lago; noi vogliamo invece gua­dagnare un po’ di strada.
Iniziamo subito la marcia e iniziano su­bito i problemi; quella che a prima vista sembra una prateria erbosa che circonda il lago si rivela una gigantesca palude solca­ta da profondi torrenti; si avanza a zigzag cercando i rari tratti di terreno asciutto; spesso si deve camminare su minuscoli isolotti o solo su zolle d’erba che letteral­mente “galleggiano” sull’acquitrino; e si deve passare rapidamente prima che il nostro peso le faccia affondare; i ponti sui torrenti poi sono solo viscidi tronchi di felci arboree, e neanche molto grossi, che an­ch’essi galleggiano e che il nostro peso immancabilmente fa affondare per cui spes­so siamo con l’acqua alle ginocchia.
Riusciamo comunque ad aggirare il lago sulla sinistra e guadagniamo la prima bas­sa cresta; davanti a noi si spalanca un paesaggio mozzafiato: un’ampia e lunghis­sima valle erbosa, punteggiata da felci ar­boree, larga circa 5 chilometri, scende da est ad ovest; al di la basse colline e valli verdeggianti salgono verso pareti a picco, verso altre dorsali, verso tavolati calcarei che intravediamo a destra in lontananza sovrastare il tutto anche di 1000 metri.
Sistemata la tenda vicino ad una capan­na di tronchi, cerchiamo di asciugarci al fuoco e, visto il nostro appetito, consumia­mo un semplice ma squisito pasto. Ovvia­mente durante la notte piove.
Al mattino presto scendiamo in quella che abbiamo battezzato “Jurassic Valley”; il terreno è coperto da enormi “materassi” di muschi e licheni, fradici, nei quali si af­fonda, come sulla gommapiuma, sino ad oltre il ginocchio; seguiamo un sentiero di cacciatori; anche la valle è acquitrinosa e spesso affondiamo nella torba; per fortuna i torrenti che la solcano sono stretti e facil­mente superabili. Dopo due ore siamo dal­l’altra parte; un portatore si è bucato un piede e un’altro si è preso una storta ad una caviglia. La situazione “idrica” non mi­gliora di molto risalendo il fianco delle colli­ne poste a sud; un saliscendi continuo, seppur di pochi metri; ponti di tronchi; guadi; incredibilmente il terreno è talmente “spugnoso” che riesce a trattenere l’acqua anche se è rialzato o inclinato.
Costeggiamo uno splendido lago sospe­so mentre attorno a noi vediamo incredibili boschi di felci arboree – ciò, mancano solo i dinosauri -; le bianche banconate si fanno più vicine; ed ecco che, superata un’ultima sella, vediamo un torrente, emissario del lago sfiorato poco prima, inabissarsi in un largo e profondo inghiottitoio che si apre al contatto con la roccia calcarea. Mentre Elio scende a vedere, io faccio un giro lì attorno e scopro altre 4 o 5 ampie aperture di in­ghiottitoi fossili che si sprofondano per decine di metri. Rilevate le posizioni, risa­liamo una valle a gradoni morenici incasto­nata tra pareti verticali e tavolati inclinati; poiché comincia a far tardi piazziamo il cam­po sotto una ampio tetto di roccia che, in poco tempo, i nostri portatori, con rami e foglie, trasformano in un confortevole ripa­ro. Su un piccolo spiazzo erboso piantia­mo la tenda; non servirebbero i materassini perché letteralmente “galleggiamo su un materasso ad acqua”. E anche durante questa notte piove e fa freddo.
È nevicato sulle cime del Trikora, ma una tersa mattina ci da il buongiorno; salia­mo rapidamente le colate calcaree del monte sovrastante il campo, dapprima in parte coperte da una rada vegetazione e poi, più in alto, nude e pulite; innumerevoli pozzi si sprofondano tra di esse, nascosti da enormi cuscini di muschi e licheni; ci inerpichiamo su karren dai bordi affilati ma fragili; la salita termina ad oltre 3800 metri su ampi pianori; dietro di noi, a nord, in lontananza luccica il lago Habema; a sud, di fronte, separato da una insellatura, si erge un enorme panettone roccioso che valutia­mo possa superare i 4000 metri; in lonta­nanza a destra, in direzione ovest, nascosti da nubi plumbee, intravediamo pianori gra-donati biancastri a perdita d’occhio – in seguito sapremo che l’altra squadra era proprio in quel momento in quella zona ma che era stata respinta dal maltempo -.
La nostra attenzione viene subito attira­ta da una lunga valle, parte alta di quella in cui abbiamo piazzato il campo, che, giran­do a sinistra in direzione Sud Est, separa il massiccio del Trikora dal monte che abbia­mo davanti; ai lati alte pareti mostrano nere aperture di gallerie fossili; un luccicante torrente la percorre con andamento mean-driforme scendendo da sud; giunto in pros­simità di un gradino roccioso sparisce in un ampio inghiottitoio. Eccitati e felici scen diamo tra felci e pini mughi; giunti al tor­rente vediamo che questo, con un’inversio­ne di quasi 360° entra rombando in una forra e sparisce; nelle vicinanze altre aper­ture, ingressi fossili, portano ad ambienti sotterranei nei quali, in lontananza, sembra di sentire il rumore dell’acqua; non avendo alcuna attrezzatura, rileviamo solo la posi­zione e scattiamo alcune foto.
La discesa al campo viene allietata dal solito diluvio; per fortuna uno scoppiettante fuoco ci permette di asciugarci un po’. Durante la notte continua a piovere ininter­rottamente; sento l’acqua scorrere sotto di noi; ho degli incubi – la tenda, travolta da fiumi in piena, trascinata a valle assieme alla zolla di torba -.
Il ritorno al lago Habema si tramuta in una rotta caporettiana; piove; Marcus, il più giovane dei portatori, con la caviglia storta, si appoggia ad una lunga pertica; melma e paludi dappertutto; la Jurassic Valley quasi intransitabile, con i torrenti ingrossati che obbligano ad ampi giri alla ricerca di guadi – nei quali comunque si affonda sino alle ginocchia -. Il sentiero che sale alla prima dorsale è trasformato in un torrente di fan­go. I ponticelli galleggianti del primo giorno sono sotto mezzo metro d’acqua e non appoggiano più ai lati per cui montandoci sopra affondano ancor di più.
Bagnati fradici e coperti di fango arrivia­mo alla sera al campo governativo al lago Habema – una costruzione a pagoda mez­zo smontata dagli indigeni per la legna -, ma almeno siamo all’asciutto.
Ci manca però la ciliegina sulla torta; della jeep che doveva venirci a prendere il giorno dopo neanche l’ombra. E sono una quarantina i chilometri che ci sciroppiamo, a piedi e in parte sotto la pioggia, per ritor­nare a Wamena.
La ricerca di una nostra area ha avuto successo; la zona è splendida, selvaggia, di quelle che ti rimangono dentro, che ti fanno sopportare la fatica, l’acqua e il fan­go; il potenziale speleologico vergine incita a tornarci, va esplorato, studiato, conosciu­to. E io voglio esserci.
                                                                                                      Umberto Tognolli

Grotta Yogoluk nella regione llugwa (foto D. Crevatin)

LA CAVERNA DEI CANNIBALI

«What are they doing?» chiedo a John Etama, la nostra guida Dani, osservando gli Yali che tagliano degli alberelli rica­vandone due sottili pali.
«It is very good for fighting», sono ot­timi per cacciare/combattere, risponde John.
Curioso, a forza di parlare inglese fini­sco a pensare in questa lingua. Forse perché sono sfinito e in inglese riesco a formulare solo concetti semplici, gli unici che la mia mente riesca a produrre (beh … al momento).
«Fighting whom», penso.
Guardo il mio amico Umberto Tognolli e mi “illumino”: ah, ecco! Siamo in due.
«Qua la go cagada!».
L’adrenalina scatenata dalla mia intui­zione mi riporta al più ricco e appropriato lessico familiare.
Lo stregone, il grande vecchio, o quel­lo che è, agita il bastone verso l’imbocco della caverna che speriamo, … sperava­mo di raggiungere, gridando qualcosa, probabilmente: “rimetti a noi i nostri debi­ti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, non indurci in tentazione e liberaci dal male e così sia”, in Yali, la lingua parlata dagli Yali.
So, da tempo, che sono affetto da “psicosi da destino”, quella che ti fa cen­trare con la bicicletta la sola pietra pre­sente in mezzo alla strada, in triestino “monagine”, malattia perniciosissima che conduce inesorabilmente l’affetto nei più grossi guai, da cui l’abusato detto: “pos­sibile che debbano capitare tutte a me!”.
Però questa volta ho l’impressione di essere incolpevole. Ho preceduto il grup­po di speleologi della Commissione Grot­te della Società Alpina delle Giulie di Tri­este a Wamena, cittadina al centro dell’lrian Jaya (Nuova Guinea), raggiun­gibile solo dall’aria.
L’idea era che dopo una ricognizione aerea avrei individuato una zona carsica ad alta quota da raggiungere tutti insieme in elicottero. Idea bislacca. Nei giorni belli ha piovuto 15 ore, in quelli brutti 24 ore. Comunque nuvole.
Allora ho contattato tutte (?) le guide locali. A Wamena è facile: è grande come Ligosullo; più 100 caserme e 150 chiese ma le guide si trovano tutte all’osteria (Hotel Trendy). Ho chiesto dove sono già stati gli speleologi e mi hanno mostrato su una carta dove hanno potuto condurre i ‘turists’ (così ci chiamano).
Le zone vietate dalla polizia sono di due tipi: quelle in mano ai ribelli (Papua eruditi dai missionari) e quelle vietate perché pericolose a causa degli indigeni (Papua mangiatori di missionari).
Al settimo cielo, per la vastità delle zone inesplorate, ho pianificato la spedi­zione dividendo gli otto “turisti” in tre gruppi, ciascuno con guida, cuoco e portatori, per poter così esplorare più ter-ritorì. Alcune zone sono ad alta quota, dif­ficili da raggiungere. Altre, più basse, è meglio non raggiungerle, ma non lo sa­pevo.
Così, nella scelta delle prime mete, ad Alberto Lazzarini, Paolo Manca e al mio amico Mario Bianchetti, pure lui affetto da “psicosi da destino”, è toccato un monte sopra il villaggio di Maki alto 3600 metri, faticosissimo da raggiungere, di arenaria.
A Marco Petri, Davide Crevatin e Betty Stenner il monte Kumul, monte proibito dagli indigeni fino ad ora ed anche dopo: hanno dovuto scappare.
A Umberto Tognolli e me, i più vecchi e malandati del gruppo (un presidente ed un ex presidente della Commissione Grot­te Eugenio Boegan, figurarsi) la zona a sud di Dumboni, a bassa quota, distante pochi chilometri dalla pista di Pass Val-ley.
Tutto perfetto, pensavo. Ma forse qui è intervenuta la famosa “psicosi da desti­no”. Infatti, il primo giorno a Wamena, con Paolo Manca, scoperta la vanità del pia­no originale con aerei ed elicotteri, nel corso di una prima visita a grotte inesplo­rate sulla pista di Pass Valley, con le guide Petrus e John Etama avevamo già sentito  parlare della zona di Dumboni ,dove due anni fa (1997) gli Yali avevano mangiato un missionario, la moglie e le due figlie.
Alla domanda di Paolo sul perché li avessero mangiati, i Papua presentì, dopo una lunga consultazione, hanno risposto, con un certo imbarazzo misto a ilarità, che probabilmente non avevano mai as­saggiato prima, la carne di un bianco. Paolo è arrossito per la domanda scema. È stato come chiedere ad uno perché mangia.
John ha contattato, a Wamena, il figlio di un capo villaggio Yali che ha fatto da tramite con la sua gente per farci visitare una grotta nota soltanto a loro.
E così eccoci qua, dopo esser scesi a 900 metri di quota, in un caldo per noi allucinante, aver camminato due giorni su tronchi bagnati e spesso inclinati nella foresta e sopra i torrenti, oppure avanza­to, per codardaggine, nel fango Jumbo, cioè Umberto, è svenuto due volte per il caldo.
Ho pensato: se torno a Trieste, realiz­zo un percorso su tronchi di ogni dimen­sione, scortecciati, infangati, innaffiati e con diverse pendenze. E anche delle sab­bie mobili artificiali. E magari un lancia­fiamme, per la temperatura.
Il mio inglese è povero come quello di John, la guida. Non sono mai sicuro di capire quello che sta succedendo. E for­se neanche lui perché Dani, Lani e Yali, gli abitanti della valle di Wamena, non si capiscono, nelle rispettive lingue. Non conoscendo il commercio e avendo sol­tanto rapporti culinari, fino ad ora non hanno mai sentito la necessità di scam­biare due parole.
Abbiamo portato doni (un macete o un’ascia di ferro sono preziosissimi per questa gente all’età della pietra), abbia­mo partecipato ad una cerimonia religio­sa, abbiamo saputo di una riunione degli uomini del villaggio Yali e non abbiamo capito niente.
Lungo il percorso abbiamo visto un sacco di pozzi e inghiottitoi di cui gli in­digeni non hanno mai parlato. È chiaro che dobbiamo vedere «la Grotta».
Forse, per loro, una grotta è sempre e solo una caverna. Oppure è molto gran­de. No! È dove si cucinano gli uomini!
Con il caldo non si può conservare la carne a lungo e così un uomo bisogna mangiarlo in giornata. Ci vuole un grande pentolone.
E infatti, fatti pochi passi dentro l’an­tro, ecco, ricavato sfruttando una marmit­ta naturale, un gran pentolone di argilla. Ai suoi piedi tre grandi marmitte scavate nella concrezione con cenere e ossa umane. Per fortuna i pali di cui sopra non sono per noi, ma serviranno per fare de­gli archi. Il legno deve stagionare 15 anni.
Mi spiegano la “ricetta” per l’uomo. Chissà perché, probabilmente per le vi­gnette, immaginavo che lo bollissero. Assurdo all’età della pietra. Infatti metto­no braci in fondo al pentolone, poi foglie di banano, l’uomo con patate dolci, altre foglie di banano e quindi braci fino all’or­lo. Al cartoccio. Cottura dalle 5 alle 7 ore a seconda delle dimensioni. Tolto dal pentolone, viene fatto a pezzi e questi vengono tenuti al caldo avvolti in foglie di banano, sulle braci nelle marmitte.
Poi festa grande.
In Nuova Guinea ci sono pochissimi animali e i bambini soffrono per mancan­za di proteine. Hanno il classico pancio­ne. Però anche i Papua sono pochi. Le missioni devono essere una manna.
Percorriamo la grotta per una cinquan­tina di metri e ci fermiamo su di un salto di circa quattro metri. È piena di pipistrel­li. Gli Yali ne uccidono parecchi.
Ritornando al villaggio, in un inghiotti­toio profondo una trentina di metri, molto ampio, tentano di colpire delle “volpi vo­lanti”, pipistrelli giganteschi, senza fortu­na.
Considerazioni: abbiamo trovato un si­stema carsico totalmente inesplorato. Di­versi pozzi e inghiottitoi sono impostati su di una medesima frattura e, molto pro­babilmente, sono collegati da un sistema sotterraneo. Fossero in Italia ci andrem­mo in esplorazione ogni fine settimana.
Però non è quanto cercavamo. Per un’incomprensione avevamo capito che dall’abitato di Dumboni saremmo saliti ver­so la grotta promessa e invece siamo scesi. La quota è troppo bassa e quindi il caldo è, per noi, insopportabile.
Per chi è meno termosensibile ecco la posizione della “Caverna dei cannibali”: Lat. 3° 50′ 44″ 9 – Long. 139° 10′ 04″ 1 e di un inghiottitoio sotto la Caverna dei cannibali: Lat. 3° 50′ 39″ 7 – Long. 139° 10′ 15″ 8
Altri pozzi sono vicini a quest’ultimo.
La visita alla caverna è molto sugge­stiva. Potrebbe diventare una meta turisti­ca e ciò potrebbe portare un qualche be­neficio ai locali. Gli Yali del villaggio (4 capanne) che ci ha ospitato, sono stati gentili e discreti. Alla nostra guida, John Etama, ho suggerito di proporre ai suoi clienti una visita alla caverna. Polizia permettendo. In fondo, forse, un cambiamen­to di destinazione d’uso della “cucina” sa­rebbe un bene per la famiglia e la trasfor­mazione del pentolone in oggetto da museo è senz’altro consona ai tempi. Buona fortuna.
P.S. in seguito abbiamo trovato la zona carsica dei nostri sogni ma questa è un’al­tra storia.
                                                                                                   Elio Padovan

“Pentolone” con femore umano nella Caverna dei Cannibali (foto U. Tognolli;

VERDETTO FINALE DAVIDE, BETTY, PETRI – ZONA ILUGWA

Ebbene sì, ce l’abbiamo fatta! L’alzata di mano è sempre una gran cosa! Non si litiga, non si discute, si fa e basta. Noi non sappiamo ancora se essere contenti o meno di questa zona, Petri è un po’ titubante perché nei meandri della sua offuscata men­te, ricorda, ma non è certo, di avere già sentito questo nome. Brutto presentimento. Comunque il nostro scopo è quello di per­lustrare l’altopiano in alto, oltre i 3000 m e là, sicuro non c’è stato nessuno.

Grandi felci arboree davanti l’ingresso di un inghiot¬titoio in zona Habema (loto U. Tognolli)

La nostra guida, Petrus, e i suoi quattro portatori, ci costano 7.000.000 di rupie (1.000 dollari) per 10 giorni. Ci sembra un po’ un furto ma non ci sono molte scelte.
5 agosto: partiamo dall’hotel Trendy e dopo circa 3 ore di jeep su strada e fuori strada, si comincia a camminare. Ci aspetta una lunga, lunghissima cammina­ta, per cui, senza pensarci troppo ce la prendiamo con calma.
Tutto ciò che ci circonda è meraviglio­so! Camminiamo su una strada di terra battuta, abbastanza grande, che collega i vari villaggi della zona. Ogni villaggio ha la sua porta sulla strada, anche a distanza di chilometri; le capanne sono di legno, con il tetto generalmente di paglia (a parte quelle dei missionari che sono decisamente più moderne) e, cosa incredibile, sono circon­date da aiuole. Intorno l’erba è tagliata rasa. La popolazione ci osserva incuriosita e qualche coraggioso si avvicina e ci da la mano: siamo orgogliosi entrambi per aver stabilito un contatto!
A parte la natura in sé, è stato stupe­facente vedere l’atterraggio di un aereo-piano, in una manciata di metri, in un villaggio nella foresta. Cose da film!
Lungo il cammino la nostra guida ci fa vedere alcuni ingressi di grotte: siamo quasi entusiasti, sembra proprio una zona carsica! Petri annota sul suo taccuino le posizioni (ha il satellitare) e la sera, giunti a llagwa annotiamo il percorso (Bugi-Wolo-Agat-Guragim (con grotta)-Jilatma (inghiottitoio in un campo)-llagima (poz-
zo con cascata entrante) e la posizione di queste (totale camminata: 15,8 Km – 300 m di dislivello). La maggior parte delle grotte viste hanno acqua, o in entrata o in uscita o dentro, comunque acqua.
Dormiamo in una capanna palafitta hotel a llagwa. Petri è considerato il no­stro capo dalla guida e quindi ha l’onore di dormire nel letto (troppo corto), in ca­mera con lui. lo e Davide invece abbiamo un comodo pavimento in un’altra stanza (il giorno dopo Petri ci raggiungerà!!!). Messi giù i bagagli, ci prepariamo una delle tante buste che ci siamo portati dall’Italia. Non sono sicura sia stata una mossa molto furba cibarsi 10 giorni di se­guito con buste! Pace, almeno qui siamo riusciti a mangiare una gallina fritta (si muoveva qualche minuto prima) e soprat­tutto tante ananas! Squisite!
La sera la nostra guida ci comunica che non è possibile andare il giorno dopo nella zona più alta, senza i permessi con le foto con lo sfondo rosso!? Almeno questo è quello che abbiamo capito! Sia­mo di pessimo umore.
6   agosto: andiamo a vedere la llugwa cave, visitiamo circa 600 metri e, quando usciamo ci  spiegano che, quando piove, l’acqua raggiunge la volta (15 m) tant’è vero che gli indigeni in canoa, sono an­dati a scrivere e disegnare su questa (to­tale 10 ore di cammino).
7   agosto: scendiamo la grotta Gutnik (pozzo di 10 metri dal quale parte un meandro con acqua) e la grotta Gudal (una grande caverna dalla quale parte un mean­dro con acqua) (totale camminata 9 ore).
8   agosto: visitiamo la grotta Sanchilugla, nella quale si inabissa un torrente e la grotta Ingilu che termina con un sifone.
9   agosto: decidiamo dì spostarci nel­la zona alta, o almeno di provare. Arrivia­mo al villaggio dopo, ma qui ci bloccano. Innanzi tutto il giorno prima, poiché non avevamo trovato il proprietario del campo dove si apriva la grotta, siamo andati a curiosare senza pagare (da queste parti si paga ogni qual volta si calpesti un terre­ no privato o di un villaggio, ovvero, SEMPRE) e già questo li ha infastiditi molto e poi, se vogliamo proseguire, dobbiamo pagare ancora e ben salato. Non sappia­mo quale sia la soluzione migliore, certo è che creare un precedente di questo tipo, potrebbe dare solo dei problemi l’anno dopo, per cui all’unanimità decidiamo di rientrare a Wamena in giornata.
10 agosto Dopo circa 12 ore di cammino, abba­stanza delusi ed infastiditi arriviamo final­mente alla strada        super taxi, seduti uno sull’altro con tante altre persone e via …a Wamena. Qui, inaspettatamente, troviamo Jumbo ed Elio che, ancora più inaspetta­tamente ci dicono che Mario, Lazzi e Paolin erano già rientrati e già ripartiti!!! Che caos!!! Nessuno ha gran fortuna.
11 agosto Meno male che il dì seguente ci si ri­trova tutti si ripartirà per il lago Habe­ma, (tranne Elio e Jumbo) e  beh! qualcun altro ve lo dirà!
                                                                                            Elisabetta Stenner

A SOFT TREK IN IRIAN JAYA (INDONESIA)

Premesse:

l’Irian Jaya è una provincia indonesiana situata nella parte occiden­tale dell’isola della Nuova Guinea, mentre la parte orientale della medesima è lo stato indipendente di Papua Nuova Gui­nea. Nel periodo dalla fine luglio a metà agosto, abbiamo effettuato una prospe-zione speleologica nelle zone limitrofe della valle del Baliem, monte Trikone e lago Habema.
Partiamo da Trieste il 1 agosto 1999 : Mario, Marco, Umberto (thè president), ed io; ci fa da autista l’evergreen Scarno che ci accompagna all’aeroporto Marco Polo di Venezia, e così dopo un volo con sva­riati scali, alla mattina del 3 agosto, atter­riamo a Jayapura (capoluogo della pro­vincia di Irian Jaya), dove ci attendono Davide e Betty che assieme ad Elio e Paolin ci avevano preceduto di un paio di giorni.
Alla sera ci troviamo tutti assieme a Wanema nella valle del Baliem, dove de­cidiamo, dopo aver sentito varie opinioni, dì dividerci in tre gruppi: Elio con Jumbo, Marco, Betty e Davide, e per ultimi Mario, Paolin ed io. Il giorno seguente, fatti gli ultimi preparativi, prendiamo accordi con la guida del nostro gruppo Jonas Wenda, che ci presenta il capo villaggio di Makki che sembrerebbe conoscere l’esistenza di un inghiottitoio. Così l’indomani, in ritar­do sulla tabella di marcia a causa della necessità di fotocopiare i permessi, par­tiamo con quattro portatori, alla volta del villaggio di Makki su un mezzo locale.
Lasciato il veicolo, dopo due giorni di cammino arriviamo all’ingresso della ca­vità di Bande (nome indigeno), che pur­troppo si rivelerà una beffa, infatti finirà con un passaggio impraticabile dopo un’ottantina di metri di sviluppo.
Il giorno dopo, montato il campo nelle vicinanze di un villaggio, facciamo una battuta di zona, purtroppo con esito ne­gativo. Così decidiamo di ritornare a Wa­nema per accertare se la zona intravista
precedentemente con il binocolo fosse speleologicamente interessante. Dopo undici ore di cammino e 1700 metri di dislivello, in gran parte percorsi nella fo­resta pluviale, e dopo aver provocato ila­rità tra i portatori con le nostre frequenti scivolate, arriviamo al Trendy Hotel (Wanema), dove ritroviamo il capovillaggio.
Il giorno dopo, sotto un tipico acquaz­zone tropicale, arriviamo al villaggio in­travisto precedentemente sotto l’altipiano. Jonas Wenda cerca qualcuno disponibile ad accompagnarci sul plateau, purtroppo eravamo stati preceduti da una spedizio­ne speleologica australiana e gli abitanti del villaggio ci comunicarono l’intenzione di questi di ritornare prossimamente.
E così, nuovamente, niente da fare.
Il capo villaggio ci invita all’inaugura­zione della nuova chiesa luterana per il giorno seguente, così assistiamo alla mattanza, con arco e frecce, di quarantun maiali e partecipiamo all’eccitazione frenetica che accompagna tutto il rito; un lauto banchetto concluderà la cerimonia. Dopo i dovuti ringraziamenti, mesti per l’esito negativo della ricerca, ci riuniamo con Marco, Betty e Davide a Wanema, dove decidiamo per una visita al lago Habema senza materiale speleo, ma que­sta è un’altra storia.

Conclusioni:

per tutte le tre squadre gran parte della campagna di ricognizio­ne ha avuto esiti negativi, ma poco prima della partenza, proprio ad un paio di giorni di marcia dal lago Habema, abbiamo in­travisto delle zone carsiche piuttosto inte­ressanti intorno ai 3400-3800 metri di al­titudine, non ci resta che ritornare per esplorare le eventuali cavità.
Partecipanti: Mario Bianchetti, Davide Crevatin, Paolo Manca, Elio Padovan, Marco Petri, Eli-sabetta Stenner, Umberto Tognolli e il sotto­scritto
                                                                                                     Alberto Lazzarini.
P.S: Un sentito ringraziamento a chi ci ha por­tato e ricuperato dall’aeroporto di Venezia.