IRIAN JAYA 99
Pubblicato sul n. 41 di PROGRESSIONE – anno 1999
IRIAN JAYA è la parte occidentale della Nuova Guinea, la grande isola, quasi un continente, ai margini dell’Oceano Pacifico, a Nord dell’Australia. Mentre la parte orientale, ex colonia tedesca prima e inglese poi, protettorato australiano sino ad una decina di anni fa, è attualmente indipendente (Papua-New Guinea), la parte occidentale, colonia olandese, divenne provincia indonesiana nel 1966, dapprima con il nome di Irian Barat e poi come Irian Jaya.
La fitta vegetazione, le estese pianure paludose, le alte catene montuose inframmezzate da profondissime valli, i torrenti e i fiumi vorticosi, un clima equatoriale caldo umido con persistenti e abbondantissime precipitazione e copertura nuvolosa quasi costante, l’endemismo malarico e la presenza di feroci tribù di indigeni sovente antropofagi, ha impedito una penetrazione della civiltà, limitando per secoli gli insediamenti dei colonizzatori alla costa. Sino agli anni 50 esisteva un’unica cittadina, Hollandia (in seguito ribattezzata Jayapura), sulla costa nord. Solo durante il secondo conflitto mondiale, per la sua importanza strategica, vennero create, sia dai giapponesi che dagli alleati, basi all’interno dell’isola. Gli indigeni, che sino ad allora avevano visto solo raramente qualche missionario, vennero catapultati in un attimo nel 20 secolo e spesso usati e trattati come animali.
Solo negli anni 60 venne creata nella valle del fiume Baliem, al centro dell’lrian Jaya, una pista aerea permanente; con l’annessione all’Indonesia, paese con grossi problemi di sovrapopolazione nelle due isole di Giava e Sumatra, ebbe inizio un flusso migratorio imponente e conseguentemente una espansione di ogni città, sia sulla costa che all’interno. La scoperta di ingenti ricchezze naturali (minerali e legname) ha ulteriormente favorito l’immigrazione.
Gli indigeni, di razza melanesiana, appartenenti ad un microcosmo multiet-nico, con decine di lingue, tradizioni, usi e costumi, religioni diverse, spessissimo in guerra tra loro, sono stati in buona parte emarginati e spinti nelle regioni più remote e selvagge. I gruppi etnici più consistenti, i Dani e i Lani nella valle del Ba-liem e gli Yali sugli altipiani a Est, verso il confine con la Papua, non hanno accettato questa invasione e spesso sono in rivolta; le città e le valli percorse dalle rare strade sono controllate dalle forze governative mentre le montagne, gli altipiani e le foreste sono saldamente in mano agli indigeni.
Questo prolungato isolamento, che in molte regioni persiste tuttora, ha fatto sì che le popolazioni locali rimanessero in uno stato di sviluppo pressoché fermo all’età della pietra; archi e frecce, asce di pietra e coltelli d’osso sono gli attrezzi ancora oggi di uso corrente; l’astuccio penico per gli uomini e il grembiule di paglia per le donne sono i vestiti in uso; i maiali selvatici, stentate colture di patata dolce, di taro, di mais e di manioca costituiscono la base dell’alimentazione. Gran parte del territorio è inesplorato; rarissime le piste percorribili con i mezzi fuoristrada; solo l’aereo o l’elicottero permettono gli spostamenti.
L’idea di una prospczione speleologica in questa remota regione nacque nella primavera del 1998; Marco e Lazzaro trovarono, su alcune pubblicazioni, le relazioni di spedizioni inglesi, belghe e australiane con i resoconti di esplorazioni di grossi complessi di risorgive a fondo valle, a quote attorno ai 1500 metri; interessanti si rivelarono le foto delle zone montuose, in gran parte vergini, a quote sino a 4000 metri nelle quali si vedevano ampi tavolati di candido calcare profondamente incisi (sembrava il Col delle Erbe ma molto più grande) con possibilità quindi di potenziali carsificabili di 2000 – 2500 metri; le poche carte geologiche disponibili indicavano la presenza di una enorme dorsale montuosa orientata NE-SO, culminante con gli oltre 5000 metri del Castrens e del Trikora, con ampi affioramenti calcarei. Un bellissimo libro fotografico sulle popolazioni locali e sul paesaggio pungolò ancor più la nostra curiosità.
E così iniziò la preparazione.
Vengono contattati alcuni gruppi stranieri per avere maggiori ragguagli su quanto già fatto e sulla logistica; uno speleo australiano, residente a Wamena, ci da delle indicazioni e si mostra disponibile a supportarci (poi però per motivi di lavoro non potrà essere presente); reperite le carte topografiche aeree, purtroppo in scala inadatta, ma sufficienti per avere un’idea generale delle zone e delle loro caratteristiche orografiche, vengono individuate alcune aree interessanti sugli alti piani a SO di Wamena, raggiungibili però solo in elicottero; altre aree “di riserva” vengono prese in considerazione nell’evenienza, tutt’altro che remota, dell’impossibilità di usare il mezzo aereo.
Intanto si costituisce il gruppo di partecipanti e si suddividono i compiti. Vengono preparate le liste del materiale, sia esplorativo che logistico, necessario; vengono pianificati i voli dall’Italia a Wamena e prenotati i biglietti; ci si informa sul rischio di malaria e si raccolgono altre notizie su malattie e rischi sanitari.
Un’attenzione particolare viene posta per ottenere i permessi di esplorazione e di accesso alle zone che riteniamo interessanti. Vengono contattati i competenti uffici ministeriali, la federazione speleologica indonesiana, il
locale servizio geologico; viene preparata e spedita con largo anticipo la documentazione richiesta, supportata da una presentazione del Dott. Mastrovalerio, console della Repubblica Indonesiana a Trieste (che qui voglio ringraziare), che ci ha molto aiutato soprattutto per entrare in sintonia con la burocrazia di quel paese. Purtroppo, nonostante ciò, per pochi cavilli burocratici, non siamo riusciti ad avere i permessi prima della partenza e a Jayapura ci siamo fatti rilasciare il semplice permesso di trekking, che escludeva qualsiasi possibilità esplorativa ipogea.
Scarsa è stata la risposta alle numerosissime lettere di richiesta di sponsorizzazione e solo poche ditte di attrezzature tecniche ci hanno fornito alcuni materiali.
Finalmente bene o male si parte. Betty, Davide, Elio e Paolo, precedono gli altri di qualche giorno per organizzare sul posto la spedizione: cercano, senza riuscirci (visto il tempo pessimo, per fortuna), un elicottero; trovano guide e portatori e selezionano le zone proposte come interessanti dai locali; acquistano i materiali non trasportabili dall’Italia. Tre giorni dopo arriviamo anche noi: Mario, Marco, Lazzaro e Jumbo. Ci dividiamo in tre gruppetti e si parte per le varie zone.
I risultati e le impressioni delle singole squadre sono descritte in specifici articoli di questa rivista. Vorrei fare solo delle considerazioni globali e cumulative della spedizione.
Delle aree visitate (ben cinque), una (Makki) si è rivelata una bolla di sapone; una seconda (llugwa) già in parte esplorata e in parte inaccessibile per mancanza di permessi; la terza (Dumboni) interessante per le implicazioni etniche e antropologiche, con sicura presenza di grotte e caverne, ma a quote basse, di scarso interesse per noi; la quarta già prenotata dagli australiani; la quinta, infine, a quote tra i 3400 e i 4000 a SO del lago Habema e ad Ovest del Trikora, con vasti altipiani calcarei crivellati da pozzi, enormi inghiottitoi, vaste doline e valli chiuse, è risultata la più promettente e quella che sicuramente merita un ritorno. Tutto sommato è anche quella più raggiungibile senza mezzi aerei (che io sconsiglio per la quasi costanza di brutto tempo con nuvole basse).
La burocrazia indonesiana si è dimostrata un muro quasi insormontabile e, pur con l’appoggio del Console a Trieste, pur iniziando la corrispondenza quasi un anno prima, non siamo riusciti ad avere i permessi: quando torneremo dovremo iniziare a lavorarci ancora prima.
Le guide e i portatori non sono abituati e non hanno l’abbigliamento necessario per operare in quota e al freddo (anche all’equatore nevica a 4000 metri); nel pianificare la prossima spedizione sarà indispensabile prevedere di utilizzare solo una o due guide per la conoscenza del terreno e per i rapporti con i locali ed essere autosufficienti per il resto.
Le condizioni socio politiche condizionano pesantemente l’operatività in loco: con i permessi governativi è possibile muoversi nelle aree controllate dagli indonesiani ma non in quelle controllate dagli indigeni che anzi ti considerano nemico; senza i permessi puoi essere “adottato” dai locali ma puoi aver problemi con l’esercito che controlla le valli e le strade di accesso alle montagne. È inoltre ubiquitaria la pratica di “oliare” con mance e regali i posti di controllo, i capi villaggio, i proprietari dei terreni che devi attraversare ecc.
Lo splendore della natura e di paesaggi, la sensazione di essere completamente fuori dalla civiltà, le possibilità speleologiche della zona, l’esperienza del contatto con gli ultimi uomini dell’età della pietra del pianeta ci hanno ampiamente ripagato sia del lungo lavoro di preparazione della spedizione, sia delle interminabili e pericolose camminate su infidi e scivolosi tronchi o in freddi acquitrini o in calde e appiccicose foreste.
E non vedo l’ora di tornarci.
Umberto Tognolli
JURASSIC VALLEY
«E dove vai quest’anno?»
«In Irian Jaya a cercar grotte.»
«Dove?»
«In Irian Jaya.»
«E dov’è questo posto?»
«In Nuova Guinea.»
«Ahh, questa è la volta che ti mangiano».
Questo il ritornello che sentivo sul lavoro dai colleghi, abituati ai miei viaggi in posti sperduti. Già l’anno precedente avevo avuto un assaggio dell’Isola, visitando la Papua-New Guinea, la parte orientale, indipendente, filo australiana e quindi un po’ più moderna; “migliaia di zanzare malariche per metro cubo d’aria” era stato il mio commento al ritorno, tutto coperto di punture.
Dopo una preparazione di molti mesi, apparentemente superati gli intoppi burocratici, ottenuto un aumento della franchigia bagaglio sia dalla Lufthansa che dalla Garuda, con i nostri “leggeri” sacchi da spedizione (minimo 35 Kg più il bagaglio a mano – altri 15 almeno) si parte.
In quattro, Paponcio, Lazzaro, Danko e io, preceduti di alcuni giorni da Betty, Davide, Paolin e Elio, dopo un volo interminabile via Francoforte – Djakarta arriviamo al mattino, sconvolti dal sonno, a Sentani, cittadina a 40 chilometri da Jayapura.
Qui troviamo Betty e Davide che spediscono immediatamente un amico locale con i nostri passaporti a farci i permessi di trekking (non siamo riusciti ad avere i permessi speciali di esplorazione) e che ci mettono al corrente delle ultime novità: fa caldo e umido, piove sempre, è pieno di zanzare, non ci sono birre, probabilmente non c’è l’elicottero, il cambio è da strozzinaggio e abbiamo due ore prima di prendere l’aereo per Wamena, altrimenti dobbiamo aspettare il giorno dopo.
Per fortuna i permessi arrivano in tempo e così tutti di corsa di nuovo in aeroporto; pesati i bagagli, ci imbarchiamo su una specie di cargo multiuso, seduti anche su sacchi di riso; l’aereo, di quelli che si vedono nei film di trafficanti di droga o di rifornimenti nelle guerre indocinesi, incredibilmente riesce ad alzarsi. «Se sapeste solo metà di quello che so io sugli aerei scendereste di corsa!» – dice il quasi pilota Danko pallido, sudato ed atterrito.
Nonostante le più terribili profezie, l’aereo atterra dopo 50 minuti a Wamena, nella valle del Baliem. Siamo a quasi 1500 metri di altezza, il cielo è in parte nuvoloso ma l’aria è decisamente fresca e respirabile; Elio e Paolin ci accolgono all’aeroporto e ci guidano – noi cominciamo a vaneggiare per il sonno – all’Hotel Trendy; le notizie sono: l’elicottero non è disponibile, c’è ne uno russo, ma il pilota è pazzo, vuole troppi soldi e non torna a prenderci; siamo quasi in una guerra civile, arrivano ogni giorno aerei militari indonesiani con uomini e mezzi; la principale zona da noi individuata non è comunque raggiungibile perché contesa tra forze governative e rivoltosi, troppo di stante e senza elicottero; piove sempre. Le guide e i portatori reclutati da Elio e Paolo hanno proposto altre zone, secondo loro con grotte inesplorate, che impongono una modificazione completa dell’idea iniziale: più squadre di pochi uomini in aree diverse. Suddivisi i materiali, il giorno seguente, dopo un sonno ristoratore, ci si saluta: Danko, Davide e Betty vanno a llugwa e sul sovrastante monte Kumul; Mario, Paolin e Lazzaro su un monte vicino al paese di Makki e i due vecchietti – io ed Elio – a Dumboni, in una tranquilla zona di pianura – nulla di più falso, jungla caldo-umida afosa con cannibali.
E siamo proprio noi due vecchietti che, rientrati a Wamena dopo aver visto e scartato la zona assegnataci, decidiamo di fare una puntata verso le zone alte, vicino al lago Habema, ad ovest del monte Trikora.
Preparati gli zaini per noi e per i portatori, dopo una lunga attesa della jeep e della “scorta militare”, ci inerpichiamo lungo una strada sterrata, tra colline coperte dapprima di foreste e poi da una bassa ma fitta vegetazione primordiale sino a quando, superato un passo a quasi 3600 metri, si apre la piana del lago Habema. Qui salutiamo l’autista, con la promessa che sarebbe venuto a riprenderci tra 4 giorni; anche la scorta – non si sa bene a che cosa avrebbe dovuto servirci a parte quella di estorcerci tangenti per permessi fantasma, vista la mancanza di qualsiasi arma – dopo le foto ricordo di rito se ne va.
A sud, in lontananza si staglia, tra le nuvole, il massiccio del Trikora; alla sua destra vediamo biancheggiare la nostra meta: bianche bastionate di roccia calcarea. Da esse ci separano basse dorsali che dovremo oltrepassare. Poiché siamo già nel tardo pomeriggio, John, la nostra guida, vorrebbe fermarsi e piazzare il campo sulla sponda del lago; noi vogliamo invece guadagnare un po’ di strada.
Iniziamo subito la marcia e iniziano subito i problemi; quella che a prima vista sembra una prateria erbosa che circonda il lago si rivela una gigantesca palude solcata da profondi torrenti; si avanza a zigzag cercando i rari tratti di terreno asciutto; spesso si deve camminare su minuscoli isolotti o solo su zolle d’erba che letteralmente “galleggiano” sull’acquitrino; e si deve passare rapidamente prima che il nostro peso le faccia affondare; i ponti sui torrenti poi sono solo viscidi tronchi di felci arboree, e neanche molto grossi, che anch’essi galleggiano e che il nostro peso immancabilmente fa affondare per cui spesso siamo con l’acqua alle ginocchia.
Riusciamo comunque ad aggirare il lago sulla sinistra e guadagniamo la prima bassa cresta; davanti a noi si spalanca un paesaggio mozzafiato: un’ampia e lunghissima valle erbosa, punteggiata da felci arboree, larga circa 5 chilometri, scende da est ad ovest; al di la basse colline e valli verdeggianti salgono verso pareti a picco, verso altre dorsali, verso tavolati calcarei che intravediamo a destra in lontananza sovrastare il tutto anche di 1000 metri.
Sistemata la tenda vicino ad una capanna di tronchi, cerchiamo di asciugarci al fuoco e, visto il nostro appetito, consumiamo un semplice ma squisito pasto. Ovviamente durante la notte piove.
Al mattino presto scendiamo in quella che abbiamo battezzato “Jurassic Valley”; il terreno è coperto da enormi “materassi” di muschi e licheni, fradici, nei quali si affonda, come sulla gommapiuma, sino ad oltre il ginocchio; seguiamo un sentiero di cacciatori; anche la valle è acquitrinosa e spesso affondiamo nella torba; per fortuna i torrenti che la solcano sono stretti e facilmente superabili. Dopo due ore siamo dall’altra parte; un portatore si è bucato un piede e un’altro si è preso una storta ad una caviglia. La situazione “idrica” non migliora di molto risalendo il fianco delle colline poste a sud; un saliscendi continuo, seppur di pochi metri; ponti di tronchi; guadi; incredibilmente il terreno è talmente “spugnoso” che riesce a trattenere l’acqua anche se è rialzato o inclinato.
Costeggiamo uno splendido lago sospeso mentre attorno a noi vediamo incredibili boschi di felci arboree – ciò, mancano solo i dinosauri -; le bianche banconate si fanno più vicine; ed ecco che, superata un’ultima sella, vediamo un torrente, emissario del lago sfiorato poco prima, inabissarsi in un largo e profondo inghiottitoio che si apre al contatto con la roccia calcarea. Mentre Elio scende a vedere, io faccio un giro lì attorno e scopro altre 4 o 5 ampie aperture di inghiottitoi fossili che si sprofondano per decine di metri. Rilevate le posizioni, risaliamo una valle a gradoni morenici incastonata tra pareti verticali e tavolati inclinati; poiché comincia a far tardi piazziamo il campo sotto una ampio tetto di roccia che, in poco tempo, i nostri portatori, con rami e foglie, trasformano in un confortevole riparo. Su un piccolo spiazzo erboso piantiamo la tenda; non servirebbero i materassini perché letteralmente “galleggiamo su un materasso ad acqua”. E anche durante questa notte piove e fa freddo.
È nevicato sulle cime del Trikora, ma una tersa mattina ci da il buongiorno; saliamo rapidamente le colate calcaree del monte sovrastante il campo, dapprima in parte coperte da una rada vegetazione e poi, più in alto, nude e pulite; innumerevoli pozzi si sprofondano tra di esse, nascosti da enormi cuscini di muschi e licheni; ci inerpichiamo su karren dai bordi affilati ma fragili; la salita termina ad oltre 3800 metri su ampi pianori; dietro di noi, a nord, in lontananza luccica il lago Habema; a sud, di fronte, separato da una insellatura, si erge un enorme panettone roccioso che valutiamo possa superare i 4000 metri; in lontananza a destra, in direzione ovest, nascosti da nubi plumbee, intravediamo pianori gra-donati biancastri a perdita d’occhio – in seguito sapremo che l’altra squadra era proprio in quel momento in quella zona ma che era stata respinta dal maltempo -.
La nostra attenzione viene subito attirata da una lunga valle, parte alta di quella in cui abbiamo piazzato il campo, che, girando a sinistra in direzione Sud Est, separa il massiccio del Trikora dal monte che abbiamo davanti; ai lati alte pareti mostrano nere aperture di gallerie fossili; un luccicante torrente la percorre con andamento mean-driforme scendendo da sud; giunto in prossimità di un gradino roccioso sparisce in un ampio inghiottitoio. Eccitati e felici scen diamo tra felci e pini mughi; giunti al torrente vediamo che questo, con un’inversione di quasi 360° entra rombando in una forra e sparisce; nelle vicinanze altre aperture, ingressi fossili, portano ad ambienti sotterranei nei quali, in lontananza, sembra di sentire il rumore dell’acqua; non avendo alcuna attrezzatura, rileviamo solo la posizione e scattiamo alcune foto.
La discesa al campo viene allietata dal solito diluvio; per fortuna uno scoppiettante fuoco ci permette di asciugarci un po’. Durante la notte continua a piovere ininterrottamente; sento l’acqua scorrere sotto di noi; ho degli incubi – la tenda, travolta da fiumi in piena, trascinata a valle assieme alla zolla di torba -.
Il ritorno al lago Habema si tramuta in una rotta caporettiana; piove; Marcus, il più giovane dei portatori, con la caviglia storta, si appoggia ad una lunga pertica; melma e paludi dappertutto; la Jurassic Valley quasi intransitabile, con i torrenti ingrossati che obbligano ad ampi giri alla ricerca di guadi – nei quali comunque si affonda sino alle ginocchia -. Il sentiero che sale alla prima dorsale è trasformato in un torrente di fango. I ponticelli galleggianti del primo giorno sono sotto mezzo metro d’acqua e non appoggiano più ai lati per cui montandoci sopra affondano ancor di più.
Bagnati fradici e coperti di fango arriviamo alla sera al campo governativo al lago Habema – una costruzione a pagoda mezzo smontata dagli indigeni per la legna -, ma almeno siamo all’asciutto.
Ci manca però la ciliegina sulla torta; della jeep che doveva venirci a prendere il giorno dopo neanche l’ombra. E sono una quarantina i chilometri che ci sciroppiamo, a piedi e in parte sotto la pioggia, per ritornare a Wamena.
La ricerca di una nostra area ha avuto successo; la zona è splendida, selvaggia, di quelle che ti rimangono dentro, che ti fanno sopportare la fatica, l’acqua e il fango; il potenziale speleologico vergine incita a tornarci, va esplorato, studiato, conosciuto. E io voglio esserci.
Umberto Tognolli
LA CAVERNA DEI CANNIBALI
«What are they doing?» chiedo a John Etama, la nostra guida Dani, osservando gli Yali che tagliano degli alberelli ricavandone due sottili pali.
«It is very good for fighting», sono ottimi per cacciare/combattere, risponde John.
Curioso, a forza di parlare inglese finisco a pensare in questa lingua. Forse perché sono sfinito e in inglese riesco a formulare solo concetti semplici, gli unici che la mia mente riesca a produrre (beh … al momento).
«Fighting whom», penso.
Guardo il mio amico Umberto Tognolli e mi “illumino”: ah, ecco! Siamo in due.
«Qua la go cagada!».
L’adrenalina scatenata dalla mia intuizione mi riporta al più ricco e appropriato lessico familiare.
Lo stregone, il grande vecchio, o quello che è, agita il bastone verso l’imbocco della caverna che speriamo, … speravamo di raggiungere, gridando qualcosa, probabilmente: “rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, non indurci in tentazione e liberaci dal male e così sia”, in Yali, la lingua parlata dagli Yali.
So, da tempo, che sono affetto da “psicosi da destino”, quella che ti fa centrare con la bicicletta la sola pietra presente in mezzo alla strada, in triestino “monagine”, malattia perniciosissima che conduce inesorabilmente l’affetto nei più grossi guai, da cui l’abusato detto: “possibile che debbano capitare tutte a me!”.
Però questa volta ho l’impressione di essere incolpevole. Ho preceduto il gruppo di speleologi della Commissione Grotte della Società Alpina delle Giulie di Trieste a Wamena, cittadina al centro dell’lrian Jaya (Nuova Guinea), raggiungibile solo dall’aria.
L’idea era che dopo una ricognizione aerea avrei individuato una zona carsica ad alta quota da raggiungere tutti insieme in elicottero. Idea bislacca. Nei giorni belli ha piovuto 15 ore, in quelli brutti 24 ore. Comunque nuvole.
Allora ho contattato tutte (?) le guide locali. A Wamena è facile: è grande come Ligosullo; più 100 caserme e 150 chiese ma le guide si trovano tutte all’osteria (Hotel Trendy). Ho chiesto dove sono già stati gli speleologi e mi hanno mostrato su una carta dove hanno potuto condurre i ‘turists’ (così ci chiamano).
Le zone vietate dalla polizia sono di due tipi: quelle in mano ai ribelli (Papua eruditi dai missionari) e quelle vietate perché pericolose a causa degli indigeni (Papua mangiatori di missionari).
Al settimo cielo, per la vastità delle zone inesplorate, ho pianificato la spedizione dividendo gli otto “turisti” in tre gruppi, ciascuno con guida, cuoco e portatori, per poter così esplorare più ter-ritorì. Alcune zone sono ad alta quota, difficili da raggiungere. Altre, più basse, è meglio non raggiungerle, ma non lo sapevo.
Così, nella scelta delle prime mete, ad Alberto Lazzarini, Paolo Manca e al mio amico Mario Bianchetti, pure lui affetto da “psicosi da destino”, è toccato un monte sopra il villaggio di Maki alto 3600 metri, faticosissimo da raggiungere, di arenaria.
A Marco Petri, Davide Crevatin e Betty Stenner il monte Kumul, monte proibito dagli indigeni fino ad ora ed anche dopo: hanno dovuto scappare.
A Umberto Tognolli e me, i più vecchi e malandati del gruppo (un presidente ed un ex presidente della Commissione Grotte Eugenio Boegan, figurarsi) la zona a sud di Dumboni, a bassa quota, distante pochi chilometri dalla pista di Pass Val-ley.
Tutto perfetto, pensavo. Ma forse qui è intervenuta la famosa “psicosi da destino”. Infatti, il primo giorno a Wamena, con Paolo Manca, scoperta la vanità del piano originale con aerei ed elicotteri, nel corso di una prima visita a grotte inesplorate sulla pista di Pass Valley, con le guide Petrus e John Etama avevamo già sentito parlare della zona di Dumboni ,dove due anni fa (1997) gli Yali avevano mangiato un missionario, la moglie e le due figlie.
Alla domanda di Paolo sul perché li avessero mangiati, i Papua presentì, dopo una lunga consultazione, hanno risposto, con un certo imbarazzo misto a ilarità, che probabilmente non avevano mai assaggiato prima, la carne di un bianco. Paolo è arrossito per la domanda scema. È stato come chiedere ad uno perché mangia.
John ha contattato, a Wamena, il figlio di un capo villaggio Yali che ha fatto da tramite con la sua gente per farci visitare una grotta nota soltanto a loro.
E così eccoci qua, dopo esser scesi a 900 metri di quota, in un caldo per noi allucinante, aver camminato due giorni su tronchi bagnati e spesso inclinati nella foresta e sopra i torrenti, oppure avanzato, per codardaggine, nel fango Jumbo, cioè Umberto, è svenuto due volte per il caldo.
Ho pensato: se torno a Trieste, realizzo un percorso su tronchi di ogni dimensione, scortecciati, infangati, innaffiati e con diverse pendenze. E anche delle sabbie mobili artificiali. E magari un lanciafiamme, per la temperatura.
Il mio inglese è povero come quello di John, la guida. Non sono mai sicuro di capire quello che sta succedendo. E forse neanche lui perché Dani, Lani e Yali, gli abitanti della valle di Wamena, non si capiscono, nelle rispettive lingue. Non conoscendo il commercio e avendo soltanto rapporti culinari, fino ad ora non hanno mai sentito la necessità di scambiare due parole.
Abbiamo portato doni (un macete o un’ascia di ferro sono preziosissimi per questa gente all’età della pietra), abbiamo partecipato ad una cerimonia religiosa, abbiamo saputo di una riunione degli uomini del villaggio Yali e non abbiamo capito niente.
Lungo il percorso abbiamo visto un sacco di pozzi e inghiottitoi di cui gli indigeni non hanno mai parlato. È chiaro che dobbiamo vedere «la Grotta».
Forse, per loro, una grotta è sempre e solo una caverna. Oppure è molto grande. No! È dove si cucinano gli uomini!
Con il caldo non si può conservare la carne a lungo e così un uomo bisogna mangiarlo in giornata. Ci vuole un grande pentolone.
E infatti, fatti pochi passi dentro l’antro, ecco, ricavato sfruttando una marmitta naturale, un gran pentolone di argilla. Ai suoi piedi tre grandi marmitte scavate nella concrezione con cenere e ossa umane. Per fortuna i pali di cui sopra non sono per noi, ma serviranno per fare degli archi. Il legno deve stagionare 15 anni.
Mi spiegano la “ricetta” per l’uomo. Chissà perché, probabilmente per le vignette, immaginavo che lo bollissero. Assurdo all’età della pietra. Infatti mettono braci in fondo al pentolone, poi foglie di banano, l’uomo con patate dolci, altre foglie di banano e quindi braci fino all’orlo. Al cartoccio. Cottura dalle 5 alle 7 ore a seconda delle dimensioni. Tolto dal pentolone, viene fatto a pezzi e questi vengono tenuti al caldo avvolti in foglie di banano, sulle braci nelle marmitte.
Poi festa grande.
In Nuova Guinea ci sono pochissimi animali e i bambini soffrono per mancanza di proteine. Hanno il classico pancione. Però anche i Papua sono pochi. Le missioni devono essere una manna.
Percorriamo la grotta per una cinquantina di metri e ci fermiamo su di un salto di circa quattro metri. È piena di pipistrelli. Gli Yali ne uccidono parecchi.
Ritornando al villaggio, in un inghiottitoio profondo una trentina di metri, molto ampio, tentano di colpire delle “volpi volanti”, pipistrelli giganteschi, senza fortuna.
Considerazioni: abbiamo trovato un sistema carsico totalmente inesplorato. Diversi pozzi e inghiottitoi sono impostati su di una medesima frattura e, molto probabilmente, sono collegati da un sistema sotterraneo. Fossero in Italia ci andremmo in esplorazione ogni fine settimana.
Però non è quanto cercavamo. Per un’incomprensione avevamo capito che dall’abitato di Dumboni saremmo saliti verso la grotta promessa e invece siamo scesi. La quota è troppo bassa e quindi il caldo è, per noi, insopportabile.
Per chi è meno termosensibile ecco la posizione della “Caverna dei cannibali”: Lat. 3° 50′ 44″ 9 – Long. 139° 10′ 04″ 1 e di un inghiottitoio sotto la Caverna dei cannibali: Lat. 3° 50′ 39″ 7 – Long. 139° 10′ 15″ 8
Altri pozzi sono vicini a quest’ultimo.
La visita alla caverna è molto suggestiva. Potrebbe diventare una meta turistica e ciò potrebbe portare un qualche beneficio ai locali. Gli Yali del villaggio (4 capanne) che ci ha ospitato, sono stati gentili e discreti. Alla nostra guida, John Etama, ho suggerito di proporre ai suoi clienti una visita alla caverna. Polizia permettendo. In fondo, forse, un cambiamento di destinazione d’uso della “cucina” sarebbe un bene per la famiglia e la trasformazione del pentolone in oggetto da museo è senz’altro consona ai tempi. Buona fortuna.
P.S. in seguito abbiamo trovato la zona carsica dei nostri sogni ma questa è un’altra storia.
Elio Padovan
VERDETTO FINALE DAVIDE, BETTY, PETRI – ZONA ILUGWA
Ebbene sì, ce l’abbiamo fatta! L’alzata di mano è sempre una gran cosa! Non si litiga, non si discute, si fa e basta. Noi non sappiamo ancora se essere contenti o meno di questa zona, Petri è un po’ titubante perché nei meandri della sua offuscata mente, ricorda, ma non è certo, di avere già sentito questo nome. Brutto presentimento. Comunque il nostro scopo è quello di perlustrare l’altopiano in alto, oltre i 3000 m e là, sicuro non c’è stato nessuno.
La nostra guida, Petrus, e i suoi quattro portatori, ci costano 7.000.000 di rupie (1.000 dollari) per 10 giorni. Ci sembra un po’ un furto ma non ci sono molte scelte.
5 agosto: partiamo dall’hotel Trendy e dopo circa 3 ore di jeep su strada e fuori strada, si comincia a camminare. Ci aspetta una lunga, lunghissima camminata, per cui, senza pensarci troppo ce la prendiamo con calma.
Tutto ciò che ci circonda è meraviglioso! Camminiamo su una strada di terra battuta, abbastanza grande, che collega i vari villaggi della zona. Ogni villaggio ha la sua porta sulla strada, anche a distanza di chilometri; le capanne sono di legno, con il tetto generalmente di paglia (a parte quelle dei missionari che sono decisamente più moderne) e, cosa incredibile, sono circondate da aiuole. Intorno l’erba è tagliata rasa. La popolazione ci osserva incuriosita e qualche coraggioso si avvicina e ci da la mano: siamo orgogliosi entrambi per aver stabilito un contatto!
A parte la natura in sé, è stato stupefacente vedere l’atterraggio di un aereo-piano, in una manciata di metri, in un villaggio nella foresta. Cose da film!
Lungo il cammino la nostra guida ci fa vedere alcuni ingressi di grotte: siamo quasi entusiasti, sembra proprio una zona carsica! Petri annota sul suo taccuino le posizioni (ha il satellitare) e la sera, giunti a llagwa annotiamo il percorso (Bugi-Wolo-Agat-Guragim (con grotta)-Jilatma (inghiottitoio in un campo)-llagima (poz-
zo con cascata entrante) e la posizione di queste (totale camminata: 15,8 Km – 300 m di dislivello). La maggior parte delle grotte viste hanno acqua, o in entrata o in uscita o dentro, comunque acqua.
Dormiamo in una capanna palafitta hotel a llagwa. Petri è considerato il nostro capo dalla guida e quindi ha l’onore di dormire nel letto (troppo corto), in camera con lui. lo e Davide invece abbiamo un comodo pavimento in un’altra stanza (il giorno dopo Petri ci raggiungerà!!!). Messi giù i bagagli, ci prepariamo una delle tante buste che ci siamo portati dall’Italia. Non sono sicura sia stata una mossa molto furba cibarsi 10 giorni di seguito con buste! Pace, almeno qui siamo riusciti a mangiare una gallina fritta (si muoveva qualche minuto prima) e soprattutto tante ananas! Squisite!
La sera la nostra guida ci comunica che non è possibile andare il giorno dopo nella zona più alta, senza i permessi con le foto con lo sfondo rosso!? Almeno questo è quello che abbiamo capito! Siamo di pessimo umore.
6 agosto: andiamo a vedere la llugwa cave, visitiamo circa 600 metri e, quando usciamo ci spiegano che, quando piove, l’acqua raggiunge la volta (15 m) tant’è vero che gli indigeni in canoa, sono andati a scrivere e disegnare su questa (totale 10 ore di cammino).
7 agosto: scendiamo la grotta Gutnik (pozzo di 10 metri dal quale parte un meandro con acqua) e la grotta Gudal (una grande caverna dalla quale parte un meandro con acqua) (totale camminata 9 ore).
8 agosto: visitiamo la grotta Sanchilugla, nella quale si inabissa un torrente e la grotta Ingilu che termina con un sifone.
9 agosto: decidiamo dì spostarci nella zona alta, o almeno di provare. Arriviamo al villaggio dopo, ma qui ci bloccano. Innanzi tutto il giorno prima, poiché non avevamo trovato il proprietario del campo dove si apriva la grotta, siamo andati a curiosare senza pagare (da queste parti si paga ogni qual volta si calpesti un terre no privato o di un villaggio, ovvero, SEMPRE) e già questo li ha infastiditi molto e poi, se vogliamo proseguire, dobbiamo pagare ancora e ben salato. Non sappiamo quale sia la soluzione migliore, certo è che creare un precedente di questo tipo, potrebbe dare solo dei problemi l’anno dopo, per cui all’unanimità decidiamo di rientrare a Wamena in giornata.
10 agosto Dopo circa 12 ore di cammino, abbastanza delusi ed infastiditi arriviamo finalmente alla strada super taxi, seduti uno sull’altro con tante altre persone e via …a Wamena. Qui, inaspettatamente, troviamo Jumbo ed Elio che, ancora più inaspettatamente ci dicono che Mario, Lazzi e Paolin erano già rientrati e già ripartiti!!! Che caos!!! Nessuno ha gran fortuna.
11 agosto Meno male che il dì seguente ci si ritrova tutti si ripartirà per il lago Habema, (tranne Elio e Jumbo) e beh! qualcun altro ve lo dirà!
Elisabetta Stenner
A SOFT TREK IN IRIAN JAYA (INDONESIA)
Premesse:
l’Irian Jaya è una provincia indonesiana situata nella parte occidentale dell’isola della Nuova Guinea, mentre la parte orientale della medesima è lo stato indipendente di Papua Nuova Guinea. Nel periodo dalla fine luglio a metà agosto, abbiamo effettuato una prospe-zione speleologica nelle zone limitrofe della valle del Baliem, monte Trikone e lago Habema.
Partiamo da Trieste il 1 agosto 1999 : Mario, Marco, Umberto (thè president), ed io; ci fa da autista l’evergreen Scarno che ci accompagna all’aeroporto Marco Polo di Venezia, e così dopo un volo con svariati scali, alla mattina del 3 agosto, atterriamo a Jayapura (capoluogo della provincia di Irian Jaya), dove ci attendono Davide e Betty che assieme ad Elio e Paolin ci avevano preceduto di un paio di giorni.
Alla sera ci troviamo tutti assieme a Wanema nella valle del Baliem, dove decidiamo, dopo aver sentito varie opinioni, dì dividerci in tre gruppi: Elio con Jumbo, Marco, Betty e Davide, e per ultimi Mario, Paolin ed io. Il giorno seguente, fatti gli ultimi preparativi, prendiamo accordi con la guida del nostro gruppo Jonas Wenda, che ci presenta il capo villaggio di Makki che sembrerebbe conoscere l’esistenza di un inghiottitoio. Così l’indomani, in ritardo sulla tabella di marcia a causa della necessità di fotocopiare i permessi, partiamo con quattro portatori, alla volta del villaggio di Makki su un mezzo locale.
Lasciato il veicolo, dopo due giorni di cammino arriviamo all’ingresso della cavità di Bande (nome indigeno), che purtroppo si rivelerà una beffa, infatti finirà con un passaggio impraticabile dopo un’ottantina di metri di sviluppo.
Il giorno dopo, montato il campo nelle vicinanze di un villaggio, facciamo una battuta di zona, purtroppo con esito negativo. Così decidiamo di ritornare a Wanema per accertare se la zona intravista
precedentemente con il binocolo fosse speleologicamente interessante. Dopo undici ore di cammino e 1700 metri di dislivello, in gran parte percorsi nella foresta pluviale, e dopo aver provocato ilarità tra i portatori con le nostre frequenti scivolate, arriviamo al Trendy Hotel (Wanema), dove ritroviamo il capovillaggio.
Il giorno dopo, sotto un tipico acquazzone tropicale, arriviamo al villaggio intravisto precedentemente sotto l’altipiano. Jonas Wenda cerca qualcuno disponibile ad accompagnarci sul plateau, purtroppo eravamo stati preceduti da una spedizione speleologica australiana e gli abitanti del villaggio ci comunicarono l’intenzione di questi di ritornare prossimamente.
E così, nuovamente, niente da fare.
Il capo villaggio ci invita all’inaugurazione della nuova chiesa luterana per il giorno seguente, così assistiamo alla mattanza, con arco e frecce, di quarantun maiali e partecipiamo all’eccitazione frenetica che accompagna tutto il rito; un lauto banchetto concluderà la cerimonia. Dopo i dovuti ringraziamenti, mesti per l’esito negativo della ricerca, ci riuniamo con Marco, Betty e Davide a Wanema, dove decidiamo per una visita al lago Habema senza materiale speleo, ma questa è un’altra storia.
Conclusioni:
per tutte le tre squadre gran parte della campagna di ricognizione ha avuto esiti negativi, ma poco prima della partenza, proprio ad un paio di giorni di marcia dal lago Habema, abbiamo intravisto delle zone carsiche piuttosto interessanti intorno ai 3400-3800 metri di altitudine, non ci resta che ritornare per esplorare le eventuali cavità.
Partecipanti: Mario Bianchetti, Davide Crevatin, Paolo Manca, Elio Padovan, Marco Petri, Eli-sabetta Stenner, Umberto Tognolli e il sottoscritto
Alberto Lazzarini.
P.S: Un sentito ringraziamento a chi ci ha portato e ricuperato dall’aeroporto di Venezia.