Mexico – Yucatan

 

SPEDIZIONE SPELEO-SUBACQUEA

La spedizione ha avuto carattere esplorativo preliminare, onde prendere contatto con le varie realtà del paese ed individuare aree di potenziale interesse operativo pluriennale.
Sono stati percorsi complessivamente 3700 chilometri, riconoscendo tre zone con caratteristiche geofisiche e sociali ben distinte: la costa meridionale del Quintana Roo, la costa settentrionale dello Yucatàn, la fascia interna a cavallo del confine fra i due paesi.
La prima è caratterizzata da un carsismo sommerso con cavità poco profonde ma con grandissime estensioni orizzontali. Vi si trovano complessi subaquei lunghi 30 40 km e l’area risulta ben esplorata solo nella fascia di foresta adiacente alle strade. La penetrazione nella foresta risulta pero difficoltosa ed è controllata dagli americani che tendono ad aquistare i terreni per monopolizzare, a fini turistici, le esplorazioni. Bypassare questo monopolio non è impossibile ma bisogna operare con l’elicottero, affrontando un certo incremento di spesa. Tutta l’area costiera è fortemente turisticizzata ad alto livello.
La seconda presenta un carsismo sommerso con cavità apparentemente a sviluppo verticale più accentuato rispetto quelle della costa meridionale. Poco turisticizzata dispone di buone infrastutture (camera iperbarica a Tizimin) risulta poco esplorata ed offre notevoli possibilità senza grossi problemi logistici.
La terza presenta un carsismo sommerso apparentemente a carattere prevalentemente verticale. Ha turismo inesistente, risulta assolutamente inesplorata, presenta totale assenza di infrastrutture ed anche discrete difficoltà logistiche, ma indubbiamente situazioni di altissimo interesse esplorativo anche archeologico e non solo subacqueo.
Nelle tre aree sono stati complessivamente esplorati 13 cenotes vergini, dei quali 12 rilevati; visitati 4 turistici; individuati ma lasciati inesplorati 6; visitata una grotta subaerea di interesse archeologico. Le sette esplorazioni effettuate nella terza zona hanno avuto come base il villaggio di Yokdzonot Presentados, nei cui dintorni la popolazione ci ha segnalato l’esistenza di altri 130 cenotes, sparsi nella foresta e di almeno una grotta subaerea piuttosto estesa 12 km2 di interesse archeologico.
Hanno partecipato: Massimo Baxa, Antonio Klingendrath, Luciano Russo e Luciano Filipas cui, per esigenze distintive con l’altro Luciano, sono valsi i soprannomi di Avuelo e, più frequentemente, Capelli d’ Argento, con i quali comparirà nella seguente narrazione. Ma prima di raccontare l’avventura ci preme ringraziare tutti coloro che hanno contribuito a renderla indimenticabile e che speriamo di rivedere presto: innanzitutto Giovanni Stefanini ed i suoi collaboratori fra i quali, oltre ai barman, l’impareggiabile Adolfo Lopez, le simpaticissime Laura e Maria; l’archeologo Alberto Rivera; Carlos dell’Hotel Carlos in Tizimin; Eulogio Caamal Cuxin con il suo amico Commissario in Yokdzonot Presentados. Inoltre Buddy Quattlebaum in Dos Ojos e l’amico Flavio Bacchia, cui un incidente ha impedito di essere con noi.
Toni Klingendrath

INQUADRAMENTO GEOGRAFICO AMBIENTALE E ILLAZIONI SU UN CARSISMO

Pozzo sulla strada per Nabalam (foto M. Baxa)

Senza la pretesa del rigore scientifico, sulla sola base di osservazioni fatte in loco e di scarne notizie racimolate con l’aiuto del caso nei ritagli di tempo, presentiamo di seguito, unitamente alla descrizione ambientale del territorio della penisola yucateca, il suo particolare momento carsico con alcune considerazioni sulla sua genesi. Lo scopo non è di essere esaurienti ma piuttosto quello di stimolare la curiosità, invitare allo studio, continuare le esplorazioni.
La penisola dello Yucatàn si protende fra il Golfo del Messico e il Mar dei Caraibi, a sud del tropico del Cancro. È la regione più giovane, geologicamente parlando, del territorio messicano. L’inizio della sua emersione dal mare risale infatti a solo cinque milioni di anni fa, verso l’inizio del Pliocene. La sua edificazione sottomarina ha impiegato sicuramente gran parte dei periodi immediatamente precedenti (Dligocene, Miocenel. La scarsa compattezza spesso riscontrata non solo nei calcari più superficiali (chiamati Saskabl talvolta simili a travertini, suggerisce che tali depositi corallini e le brecce organogene che costituiscono la penisola non abbiano avuto a disposizione tempi geologici sufficentemente lunghi per raggiungere una completa diagenesi ed un alto grado di cementificazione.
Attualmente la penisola appare essenzialmente pianeggiante con poco marcate colline che difficilmente superano i cinquanta metri di quota sul livello del mare nella sua parte più interna. La stratificazione e sub orizzontale o solo debolmente inclinata.
Pare che in tutta la zona vi sia assenza di attività sismica e vulcanica.
La sua emersione sembrerebbe dovuta più al disgelo post glaciazione ed a fenomeni isostatici ad esso collegati che non direttamente a spinte orogenetiche di deriva dei continenti, mentre il momento carsico attuale suggerisce l’intervento di movimenti aventi anche carattere di subsidenza. In accordo con la presenza della roccia calcarea l’acqua è praticamente assente in superfice e la compagine carbonatica è interessata da un marcatissimo e diffusissimo sistema di cavità, complessivamente a prevalente andamento orizzontale, quasi completamente allagate. Nella zona costiera queste cavità raggiungono la profondità di -30 metri rispetto al piano campagna che mediamente si trova a 10 metri di quota sul livello medio del mare mentre all’interno, nell’area di Yokdzonot Presentados, raggiungono quella di -70 metri rispetto ad un piano campagna che non supera i 40 metri di quota.
Questi sistemi di pozzi e gallerie anche di grandissime dimensioni che si sviluppano, sommersi e concrezionati riccamente, per decine di chilometri devono aver avuto una genesi sub aerea che suggerisce, in prima battuta, una “storia” geologica di questo tipo:
1. Emersione significativamente al di sopra del livello del mare ed instaurazione del fenomeno carsico sotterraneo anche in concomitanza con l’abbassamento del livello marino durante le ere glaciali;
2. Inversione di tendenza con affogamento, per subsidenza e fine glaciazione, di una gran parte della compagine carbonatica incarsita con instaurazione di una situazione di allagamento dei sistemi sotterranei;
3. Momento attuale durante il quale non si può escludere, senza appropriate misurazioni, una ulteriore inversione che potrebbe anche ritendere all’emersione. Tuttavia la cosa non riveste significativa importanza relativamente all’esigua finestra del tempo che ci è dato osservare. Appare piuttosto evidente una fase di dissoluzione e disgregazione di tutte le concrezioni sommerse..
Relativamente agli stati di Campeche, Quintana Roo e Yucatàn, appartenenti al Messico, la superfice è di circa 141 .000 kmq, quasi la metà del territorio italiano. Il clima è caldo umido, leggermente più secco nella porzione nord est (Stato dello Yucatànl ove, causa non più di 500 mm di pioggia all’anno, la vegetazione è meno lussureggiante che nel resto della penisola ed include cactacee a candelabro. Nel Campeche e nel Quintana Roo invece, con precipitazioni fino a 2000 mm annui, la vegetazione è costituita in massima parte da bosco tropicale perennifolio che e fra le più esuberanti che esistano sulla terra.
Rari laghi e lagune che generalmente corrispondono a bassi morfologici che intercettano la falda acquifera.
In tutto il territorio la temperatura media annua supera i 25 gradi centigradi. Fra gli animali notevoli da incontrare e non CI sono: molti serpenti velenosi quali corallo e vipera quattro narici; pitoni; iguane, camaleonti, alligatori; fenicotteri rosa, avvoltoi, pappagalli; procioni, rare scimmie, rarissimo ormai il giaguaro onnipresente nell’iconografia maya.
                                                                                           Toni Klingendrat

7 febbraio 1997, 19.30, ORA LOCALE DEL MESSICO

Superate in qualche modo varie razze di perplessi finanzieri che solo con grande fatica raggiungevano la convinzione (o fingevano di raggiungerla) dell’inoffensività della nostra attrezzatura subacquea uscimmo, stracarichi, dall’aeroporto di Cancun, nell’aria faticosa del Quintana Roo. Cera ad attenderci Olga: magnetici polpacci da atleta sottolineati da variopinte scarpette dal tacco alto e spalle da culturista. Avrebbe dovuto semplificarci e sveltirci le procedure di noleggio dei furgoni. Ciò che le riuscì meglio fu solleticarci la fantasia con il suo corpo tornito ed il suo bel viso ed indicarci la strada per Playa del Carmen, poi non la vedemmo più.
Arrivammo di notte al villaggio turistico Maya Club che sarebbe stato, per i primi giorni, la nostra base logistica in quanto diretto dall’amico speleosub Giovanni Stefanini: un mondo a parte, un isola di Stati Uniti sulla costa del Messico. Gentilissimo Giovanni, un amico sincero, ma non era quello un mondo ove ci potessimo trovare a nostro agio e, ovviamente, anche lui lo sapeva. Ci forni tutto l’appoggio possibile e molte informazioni utili rubando al suo lavoro il tempo per alcune chiacchierate serali annaffiate da Ron Solera, Cuba Libre, cervezas e ricordi, fra i quali affiorava spesso il nome mitico di Ciano Medeot.
Quello che ci interessava di più, comunque, erano i “cenotes”: le grotte sommerse che hanno reso speleologicamente famosa tutta la penisola dello Yucatàn per la loro lunghezza, l’acqua cristallina e tepida, l’importanza che avevano nella cultura Maya e la loro fantastica bellezza. Capimmo in pochi giorni che lungo la costa del Quintana Roo, nei pressi della strada, gli americani avevano monopolizzato i settori più facilmente raggiungibili e non erano molto disponibili a dividere la torta con altri. Ci lavoravano da una decina d’anni ed era comprensibile. Naturalmente c’è ancora moltissimo da fare, sicuramente il più, ma in una intricatissima foresta che presenta enormi problemi di penetrazione. L’elicottero, unico mezzo che si sarebbe rivelato utile in quella situazione, era uscito dalla portata del nostro budget a causa di una spesa imprevista per il furgone.
L’unico americano che fin dall’inizio si dimostrò interessato ad una collaborazione con noi fu Buddy Quattlebaum. Con lui visitammo, anche per prender confidenza con l’ambiente, il celebre Dos Ojos, che aveva in gestione. Un labirinto sommerso del quale percorremmo, come in sogno, un chilometro abbondante di gallerie. Per farlo tutto ce ne sarebbero voluti altri 27! Buddy, che è rimasto più esploratore che businnessman, confermerà, nel corso di tutta la nostra permanenza, una ampia e disinteressata disponibilità, indicandoci alcuni cenotes da esplorare ed invitandoci a far parte di un gruppo internazionale che, in settembre, intende forzare la connessione fra il “suo” Dos Ojos ed un quasi altrettanto grande complesso vicino.
Tre i cenotes vergini indicatici da Buddy. Due purtroppo finivano subito: dopo poche decine di metri sommersi Max riemergeva entrambe le volte comunicando a tutti la sua delusione. Il terzo si rivelò invece più lungo, ma piuttosto duro e complicato. Un po’ troppo per un piccolo gruppo di quattro persone come il nostro. Hilavias Well è infatti un labirinto su più piani, il primo dei quali mediamente un metro sotto terra, subaereo, intricatissimo e con gallerie perlopiù basse che spesso costringevano a strisciare. Di tanto in tanto, questo complicato e faticoso sistema, presenta verso l’alto un’uscita nella foresta o, verso il basso, un laghetto d’acqua limpidissima che costituisce porta d’accesso ad un analogo labirinto, questa volta sommerso, che si sviluppa in un piano sottostante. Trascinammo faticosamente un’attrezzatura d’immersione e la telecamera per alcune centinaia di metri, fino al più vicino di questi specchi d’ acqua. Ancora Max si immerse in ricognizione. Di tanto in tanto sentivamo i suoi richiami: evidentemente emergeva e girava li intorno. Poi un lungo silenzio che ci inquieto un POCO. Massimo era solo e l’incertezza sempre s’insinua in coloro che rimangono ad aspettare.
Finalmente Capelli d’Argento, che consultava nervosamente il fedele orologio, ed io, risentimmo le sue bolle, i suoi rumori. Si sta-va riavvicinando. Arrivarono lampi di luce a precederlo. Era più soddisfatto che dopo le due immersioni precedenti, ma non troppo, l’acqua era bella e ci sarebbe stato ancora molto da esplorare, sia sotto che sopra. Purtroppo, s’era reso subito conto che non potevamo impegnarci in questa esplorazione perchè eravamo troppo pochi per supportare il minimo di due subacquei necessari per operare in sicurezza, fino ai punti di immersione, attraverso quelle gallerie. Faticosamente uscimmo da Luciano che quel giorno non stava bene ed era rimasto all’esterno. Pioveva, era pieno di zanzare, Luciano era asseragliato in macchina e decidemmo di cambiare area. Già da qualche giorno le informazioni di Adolfo Lopez, un amico archeologo, ci avevano stuzzicato per il cuore dello Yucatàn: via dalla civiltà, via dal businness, via dagli Stati Uniti d’America del Messico.  Nessun auspicio particolare, nessun segno, aveva fatto sospettare ad Eulogio Caamal Cuxin che quel giorno sarebbe stato un giorno fortunato. Che le sue preghiere a Dio ed agli Dei antichi, perchè per prudenza rispettava anche quelli, sarebbero state in parte ascoltate facendogli arrivare un po’ di soldi per curare Alma, la sua figlia più piccola, da tempo ammalata. Invece, a Yokdzonot Presentados, ameno paesetto di capanne nella foresta dello Yucatàn, arrivammo noi, strani tipi di gringos che volevano fare strane cose. Gli chiedemmo subito se C’erano cenotes lì intorno, se conosceva la grotta delle iscrizioni Maya chiamata Dzibichen, se ci poteva accompagnare. Intui l’occasione al volo e rispose di si a tutto: a Dzibichen ci poteva accompagnare anche subito, mentre per i cenotes bisognava prima parlare con il Commissario. Entrò in casa per pochi attimi e ne usci con un machete più grande di lui. Posteggiammo la macchina poco lontano e lo seguimmo nella foresta. Dopo aver visitato Dzibichen ci trasferimmo in un villaggio vicino che disponeva di un locale per pranzare. Eulogio ci precedette in una stanza vuota, con le pareti scrostate, sulle quali spiccava un avviso alla popolazione di stare attenti all’acqua per via del colera. Lo recepimmo ed ordinammo subito, senza obiezioni una strage di birre. Furono portate insieme ad un tavolo ed alle sedie necessarie ed il loro numero aumentò considerevolmente intanto che uccidevano, spennavano e cuocevano il pollo che Eulogio aveva ordinato per noi.
Nel pomeriggio incontrammo il Commissario che, con la mediazione di Eulogio e la complicità di qualche birra, ci permise di esplorare qualsiasi cenote della zona. Il più vicino era quello nella piazza dei cinque pozzi, che forniva l’acqua a Yokdzonot Presentados.
La raggiungemmo e ci affacciammo al pozzo più vicino: ad una quindicina di metri di profondità luccicava l’acqua. Per la curiosità decidemmo di immergerci tutti e tre, nonostante e forse causa, le birre: prima Luciano in ricognizione e poi Max ed io con la telecamera. Capelli d’Argento, non essendo subaqueo, sarebbe rimasto fuori ad aiutare e sbirciare curioso dall’alto. I preparativi attira-rono tutti i ragazzini e tutti gli sfaccendati di Yokdzonot, in pratica l’intera cittadinanza, donne escluse e Commissario compreso. Lo spettacolo fu sicuramente notevole per loro ma anche per noi, alcuni bambini sembravano spaventati da quello che stavamo per fare. Scavalcato il muretto e scesi i pochi metri del pozzo, ci trovammo nel punto più alto di una volta a campana le cui pareti scendevano all’acqua tutt’intorno, quindici metri più sotto, a delimitare una sala di circa sessanta metri di diametro, ben concrezionata, con grandi colate, colonne e sottili stalattiti. Tutti e cinque i pozzetti si aprivano sulla medesima volta e da ognuno di essi penetrava un suggestivo raggio di luce. L’acqua aveva venticinque gradi ed era limpidissima. Esplorammo con cura il fondo del lago. Grandi dune di sabbia bianca lo occupavano tutto, mascherando i crolli ed occludendo le eventuali prosecuzioni. Non superammo i dieci metri di profondità ma lo spettacolo era stato incantevole e sapevamo che ce ne restavano altri centotrentaquattro, di cenotes, a disposizione. Nei giorni seguenti scendemmo un altro cenote in Yokdzonot ed uno alla sua periferia sulla strada per Nabalam riscontrando, dimensioni a parte, la medesima situazione. Poi dovemmo tornare a Tulum, sulla costa, a duecento chilometri di distanza, per ricaricare le bombole. Ma ormai il posto ci aveva stregati e il giorno dopo eravamo di nuovo 18. Regalammo dei dolci ad Alma ed alle sue sorelline e prelevammo l’ormai fedele Eulogio che ci accompagnò al cenote Xcatil. Nella foresta, poco lontano dalla strada, un enorme “alamo” sprofondava le sue possenti radici, per dieci metri, nel vuoto del suo pozzo di accesso, fin su una ripida china detritica che scendeva in una grande caverna. Disceso il pozzo, che alla sommità della china non era più profondo di sei metri, con una scala di rami, raggiungemmo, alla base della stessa l’acqua di un lago che riempiva tutta la grande sala. Dal lato opposto, ci indicò Eulogio, si aprivano due gallerie che lui aveva raggiunto a nuoto. Capelli d’Argento finalmente aveva trovato pane per i suoi denti; in costume da bagno, con elettrica in mano, inseparabile orologio al polso e ‘toscano” alla Ferluga fra i denti, si tuffò a raggiungerle a nuoto. Intanto Luciano ed io aiutavamo Max che avrebbe fatto l’immersione ricognitiva. L’acqua era sempre limpida e confortevole. Sei metri la profondità del fondo perlopiù sabbioso. Sotto la china detritica scendeva una galleria, fra massi di crollo, lunga un centinaio di metri che sbucava poi dall’ altra parte della grande sala. Max recuperò alcune ceramiche sicuramente Maya ed antiche che, molto alterate, una volta fuori riuscimmo, con la dovuta attenzione, a sbriciolare. Luciano ed io perlustrammo in apnea tenendo d’occhio Massimo e mentre galleggiavamo, affascinati dai giochi d’ombre che la luce del pozzo di ingresso disegnava intorno a noi ritornò Capelli d’Argento.  La galleria era lunga una cinquantina di metri, disse, si restringeva e comunicava con l’esterno. Ad un tratto aveva visto un cordino colorato in una nicchia. Subito aveva pensato che il posto doveva già esser stato esplorato da altri speleo, a dispetto di quanto aveva assicurato Eulogio. Aveva allungato la mano per prenderlo e farcelo vedere ma un’ispirazione gli aveva suggerito di lanciare prima una pietra: il nodo del cordino si era sciolto ed il cordino, ad anelli rossi e neri, era strisciato via. Era un serpente corallo! Se volevamo fotografarlo, disse flemmatico il nostro vecchio dando un’occhiata all’orologio, probabilmente non era andato lontano. Non volevamo e cominciammo a nuotare con circospezione verso riva ben consci che anche quei serpenti nuotano.
Usciti, Eulogio confermò il corallo. Ce n’erano molti, disse, ma i Maya conoscevano l’antidoto al suo veleno; poi c’era un cenote, non molto lontano, dove c’erano tantissimi serpenti “quattro narice” che sono molto più velenosi del corallo e stanno più volentieri di lui in acqua, ma fortunatamente si trovavano solo in quel posto. L’ultima informazione non ci convinse, ci sfuggiva la sua logica, e da quel momento, affrontammo le immersioni successive con tutt’altre cautele e minor spensieratezza.
In quei giorni Eulogio ci mostrò altri tre cenotes. Ingannati dal primo, Chan Missil, che avevamo raggiunto percorrendo un agevole sentiero e dalle sue assicurazioni (È qui vicino, saranno dieci minuti) seguimmo la nostra guida, alla ricerca del secondo, in sandali, calzoni corti o costume da bagno, maglietta o petto nudo. La foresta rivelò ben presto un’incredibile concentrazione di piante spinose o taglienti che prima ci era sfuggita. Inoltre la traccia che Eulogio apriva nell’intrico, con il suo machete, era a sua misura, centoquaranta centimetri, e risultava per noi penosa. Sudati, graffiati, sanguinanti e tormentati dagli insetti, quando capimmo che anche Eulogio si era perso, cominciammo a considerare una ritirata. Qualcuno nel gruppo brontolava, si facevano strada fosche prospettive, la notte veloce dei tropici non era lontana e non ci sembrava che la nostra guida, per quanto allungasse il collo, dal basso della sua statura potesse fare molti progressi d’orientamento. Improvvisamente un rumore: qualcuno che camminava. Un richiamo di Eulogio ebbe risposta ed apparve un suo cugino che stava rientrando al villaggio per un sentiero che correva a pochi metri da noi. Lui sapeva dove era la grotta. Era li vicino, più o meno era un’ora che ci giravamo attorno. Ci avrebbe accompagnato lui. Rincuorati, ma non del tutto entusiasti lo seguimmo. Ci vollero ancora una decina di minuti di passione ma lo spettacolo, alla sua vista, ci cambiò immediatamente l’umore. Il cenote era assolutamente fantastico: un ciglio ellittico e sottile di trenta metri di diametro scampanava con pareti che si immergevano poi verticalmente venti metri più sotto. Da tutto in giro scendevano a pescare nell’acqua limpida lunghe, diritte, sottili radici in qualche punto tanto fitte da sembrare una tenda. A mezz’altezza, sulla parete che si immergeva di fronte a noi, si intravedeva una cengia che portava ad una nicchia.
Nella nicchia un blocco di pietra non appariva naturale. Anche secondo Eulogio poteva essere un manufatto Maya. I Maya usavano molto fare offerte nei cenotes, luoghi sacri nella loro cultura, a volte luoghi di sacrifici. Tutt’intorno i più alti alberi della foresta si riflettevano, come lunghe braccia scheletriche, nello specchio d’acqua sottostante che s’era incupito alla luce dell’imbrunire. Quel posto magico si chiamava Nuk Missil.
II giorno dopo esplorammo per primo Chan Missil, che era più facile da raggiungere. Eulogio bonifico il suo Ingresso da alcuni nidi di vespe con il fumo. Scesi per primo a dare un occhiata in apnea mentre Massimo si preparava all’immersione. L’ambiente era davvero impressionante; la solita volta a campana con un ingresso però piuttosto stretto che non faceva passare molta luce. Quindici metri più sotto un’acqua limpidissima e scura che la lampada non riusciva a penetrare mi accolse.  Confesso una certa soggezione che mi fece nuotare subito verso un angolo dove batteva il sole, che presentava rassicuranti riflessi color smeraldo. Dopo qualche attimo di ambientamento percorsi pinneggiando tutta la circonferenza e ovunque le pareti scendevano a balze verticali senza mostrare fondo. Arrivo Max e si immerse con la telecamera. Lo seguivo dall’alto e mi apparve anche lui impressionato. Sulla prima cengia aveva fatto una breve sosta. Poi riprese a scendere lentamente scrutando le pareti in cerca di gallerie. Finalmente i fari potenti della telecamera illuminarono I massi del fondo. Lo vedevo bene e valutata la profondita che aveva raggiunto sui trenta metri. Quando emerse seppi che non aveva toccato il fondo per non sollevare polvere, ma si era fermato un paio di metri più sopra, dove il profondimetro aveva segnato -48 metri. L’acqua limpidissima mi aveva tratto in inganno di venti metri. Non c’erano gallerie lateral1 ma era veramente un immersione eccezionale in un posto fra i più suggestivi di quelli fin 18 visitati.
Ritornati in superfice ci trasferimmo con tutta l’attrezzatura a Nuk Missil, stavolta meglio vestiti e ciascuno con centoventi centimetri di machete in pugno. L’ambiente era bellissimo: più aperto del cenote precedente, meno cupo, estremamente suggestivo con tutte quelle liane e radici che pendevano nell’acqua e quella cengia che portava alla nicchia, incuteva rispetto ma non timore. Ci immergemmo Luciano ed io, mentre Max, Capelli d’Argento ed Eulogio fungevano da appoggio esterno. L’acqua era meno limpida dei solito probabilmente a causa del materiale organic0 in disfacimento proveniente da un gigantesco intrico di tronchi che giacevano sulla sommità e lungo il pendio di un conoide di crollo ricoperto di sabbia finissima.
Ci si immergeva tutto il braccio senza sforzo alcuno. Sembravano sabbie mobili. Costituiva, ostruendo ogni prosecuzione, il fondo, da -1 5 a -27 metri, celando invincibilmente qualsiasi eventuale reperto Maya. Tutt’intorno dalle pareti scendevano gigantesche colate e colonne dietro le quali era agevole nuotare. I rami contorti, in controluce nell’acqua verde, rendevano L’ambiente onirico, magico. Anche qui purtroppo non trovammo nessuna galleria percorribile. L’acqua penetrava e defluiva interstrato, con flussi impercettibili. Solo in una nicchia di pochi metri, in risalita, una curiosità: un termoclino con una temperatura di 24° sotto e 30° sopra. Emergemmo ma non avevamo finito.
Dovevamo raggiungere la cengia, sette metri pih sopra, per vedere cos’ era quella strana pietra che avevamo osservat0 con i teleobiettivi il giorno prima. Ci liberammo dalle bombole, dai jackett, dai fari, dalle pinne ed effettuammo una facile e breve arrampicata. Poi, a gatto, percorremmo la stretta cengia fino alla nicchia. Li stava la  pietra che senza dubbio era stata lavorata dall’uomo: era un “metate” che pesava circa cinquanta chili, un grande mortaio per il mais, e sapevamo che si trattava di una delle otto offerte tipiche che i Maya usavano collocare nei cenotes. Dalla nostra posizione ne vedemmo un’altro sulla parete opposta e, dall’esterno, Capelli d’Argento ne scopri un terzo dall’altra parte. Erano disposti a triangolo, second0 una raffigurazione che si ricollega alla luna, simbolo di fertilità, ci spiego in seguito Adolfo Lopez, l’amico archeologo. Dopo averlo ben guardato e rigirato lo rimettemmo rispettosamente a posto e tornammo indietro.
Anche quel giorno era finito e ci aveva regalato non poche emozioni. Ricompensammo Eulogio e lo salutammo, dandogli appuntamento per l’ultimo cenote che intendevamo esplorare nella zona di Yokdzonot: il cenote freddo di Pilachen. lntanto saremmo andati a Merida a fare aria, passando per la costa nord del paese dove sapevamo che c’era qualcosa di interessante da vedere, oltre all’area archeologica di Chichen ltzh ove avevamo contattato un altro archeologo per due cenotes particolarmente interessanti proprio dal suo punto di vista e dove contavamo di visitare le piramidi Maya ed il vicino “Cenote Sacrado”: quello dal quale erano stati estratti molti oggetti votivi ed ossa umane di vittime sacrificali che, ci dissero, vi venivano gettate legate, e da quanto tempo impiegavano per affogare si traevano auspici.  Strade lunghe e diritte ci portarono innanzitutto a Tizimin ove la fortuna ci fece incontrare Carlos, un vecchio subaqueo di mare, che conosceva molti cenotes li intorno. Riconoscemmo in lui mescolati i tratti di due nostri gloriosi concittadini: Martinuzzi, famoso campione pescasportivo e Genzo, noto istruttore e commerciante subacqueo. L’aspetto familiare favori la simpatia unitamente ai marcati segni che Bacco e tabacco avevano lasciato su di lui, senza saper di Venere. Proprietario di un albergo ove ci ospitera a prezzo di favore, non aveva nulla da fare e si aggrego al gruppo come guida. Per primo, con l’aria che ci era rimasta, esplorammo il Cenote Grande di Kikil: Nohoh Dzonot Kikil. Simile agli altri ma con il ciglio poco marcato, presentava un diametro di una cinquantina di metri. Si immerse Max, imboccando verso sud ovest una specie di gigantesca galleria. Tenendosi vicino al tetto di questa raggiunse i -46 metri, senza vedere fine ne fondo, ne più luce.
A quel punto torno indietro. Non erano profondità alle quali potevamo essere operativi. Ci dissero in seguito che il cenote era stato sondato con una sagola fino a -80 metri.
A quel punto l’aria era proprio finita e ci trasferimmo a Merida per fare il pieno. Di passaggio visitammo Chichen ltza la cui piramide che contiene un’altra piramide che contiene, nella camera sommitale, il giaguaro rosso Eialam con gli occhi di giada e la statua antropomorfa del Chac Mool, fra le cui mani i sacerdoti Maya ponevano una ciotola con i cuori delle vittime dei sacrifici, e uno dei luoghi sacri più emozionanti che io abbia mai visto.
In qualche modo non riuscimmo ad incontrarci con L’archeologo senza il quale non avevamo il permesso di esplorare i due cenotes li vicino essendo L’area di grande interesse archeologico. Visti solo dal di fuori ci fecero venire L’acquolina in bocca.
Apparivano entrambi estremamente interessanti e la speranza fu subito quella che fossero solamente rimandati.
Riempite d’aria le bombole a Merida, ritornammo da Carlos, a Tizimin, per esplorare alcuni cenotes che ci aveva indicati nell’estremo nord del paese, vicino ai parchi naturali di Rio Lagartos (vuol dire alligatori) e di San Felipe. In proposito la notizia che in alcuni cenotes della zona, che comunicavano col mare, erano stati visti i piccoli esemplari dei poco simpatici rettili, non ci rallegro, anche se preferimmo pensare che fosse stata una battuta per vedere la nostra reazione.
L’area è quella del villaggio di Yalsihorn, segnalataci gia in ltalia dall’amico Luigi Casati che VI aveva effettuato alcune immersioni. II primo cenote che esplorarnmo fu quello posto nel rancho S. Manuel di Luis Fernelli Rodriguez che con la rnediazione di Carlos ci consenti l’immersione, confermandoci che mai nessuno l’aveva fatta. Anche questo era un cenote molto bello con la tipica struttura a carnpana. Scese Massimo fino alla profondità di -36 metri senza trovare alcuna prosecuzione.   II secondo cenote che andammo ad esplorare si chiama Cervera ed era stato visto in parte, anche da Casati. Si tratta di un crollo del piano campagna, nell’acqua di una caverna immediatamente sottostante, determinato dall’apertura di una lunga fessura naturale che si sviluppa in direzione nord est sud ovest per molte centinaia di metri. Con un salto di un metro Massimo, che aveva le bombole mezze vuote per l’irnmersione precedente, si immerse in ricognizione, individuando una galleria larga 10 metri per 5 metri che scendeva in direzione sud.
La percorse per una sessantina di metri e poi ritorno indietro. Ci preparammo Luciano ed io. L’acqua era limpida e fra i soliti pesci d’acqua dolce riconoscemmo qualche specie marina. Evidentemente i collegamenti con il mare c’erano, sperammo non ci fossero anche gli alligatori. La galleria era larga per i primi sessanta metri, fino ad un bivio, aveva sezione meandriforme ed era cosparsa sul fondo e sulle pareti da sabbia bianca finissima. Sulla volta occhieggiavano conchiglie fossili. La prosecuzione di sinistra, dopo quaranta metri, chiudeva in una stanza il cui soffitto si abbassava fino a diventare impraticabile. Quella di destra proseguiva, più stretta della principale per altri sessanta metri fino ad un altro bivio: a sinistra chiudeva ancora mentre a destra proseguiva ma era molto stretta. In tutto questo ultimo tratto il minimo movimento sollevava una candida e finissima polvere bianca che in pochi secondi riduceva la visibilità da ottima a poche decine di centimetri. Con l’aiuto della sagola ritornammo sui nostri passi considerando conclusa anche questa esplorazione.
Avevamo percorso complessivamente quasi duecento metri di gallerie. Salutammo Carlos e ci trasferimmo a Merida un’ultima volta per ricaricare d’aria le bombole. Ci attendeva l’ultimo cenote di Yokdzonot Presentados. Eulogio ci accompagno al Cenote Pilachen, per il quale nutrivamo grandi aspettative in quanto pareva avesse l’acqua molto più fredda degli altri e ciò ci faceva sospettare l’esistenza di un maggior ricambio, quindi di corrente, quindi di gallerie. Luciano stava male con le orecchie e ci immergemmo Max ed io. lmmaginavamo l’acqua ancor più cristallina del solito. Eulogio calo un secchio nel cenote e lo recupero pieno d’un’acqua fresca che bevve con soddisfazione a grandi sorsi. Scendemmo  con la corda, come sernpre in quella zona, una quindicina di metri nel vuoto, ed arrivammo in un acqua che effettivamente era fredda.
II termometro segnalava 17°, sei-otto gradi meno del solito! Curiosamente fu una delusione: non si vedeva niente, la visibilita era di 30 centimetri e l’acqua sembrava essere un fango liquido. Anche l’odore era cattivo. Eulogio ed i suoi dovevano essere immuni da tutto se bevevano regolarmente quella roba, come testimoniava la presenza del secchio. Provammo a scendere e, a circa sette metri di profondità andammo a sbattere contro un fondo di fango impalpabile, pieno di rami e vegetali marci e contorti. Demmo lo stesso un occhiata in giro provando a filmare, perdendoci l’un l’altro e ritrovandoci di tanto in tanto, poi decidemmo di risalire. Era l’ultima immersione che potevamo permetterci: mancavano due giorni al volo di rientro in Italia.
Salutammo Eulogio nella solita cantina brindando alla nostra amicizia e lui ci racconto anche di una grotta subaerea che aveva esplorato li vicino, con un suo cugino, tanto lunga che c’erano stati dentro tutto un giorno a camminare e vi avevano trovato dei reperti antichi che ci regalb come ricordo. Gli prometternmo che saremmo tornati per questa grotta e per gli altri cento cenotes e, dopo aver salutato anche le sue bambine, ce ne andammo. La spedizione subacquea in Yucatan era finita.
                                                                                                  Toni Klingendrath

Nota: I rilievi dei cenotes, inseriti nel testo, sono riprodotti in scela 1:2000

YUCATAN

(Foto T.Klindendrath)

E strano l’impatto che si prova con l’ambiente entrando nella foresta dello Yucatan. Boscaglia bassa e fitta su un pianoro di calcare uniforme senza colline ne doline o carnpi solcati, dove l’unica panorarnica possibile si può avere dall’alto delle piramidi di Coba o Chichen Itza. Il suolo e traforato da grotte che si estendono per chilometri, ma a pochi metri di profondità.
Entriamo all’interno della foresta cercando, con l’aiuto della nostra guida Eulogio, dei cenote sicuramente inesplorati, non solo per la mancanza di strade; ci troviamo nella zona di Valladolid, 200 Km fuori dal flusso turistico, e da queste parti gli americani non hanno interessi ne comrnerciali ne esplorativi. Nei paesi all’interno il rapporto con le persone e l’arnbiente B diverso. Si stabilisce uno spirit0 di cordialità, non completamente disinteressat0 pero, ma questo e ovvio. La gente, dopo aver subito per secoli i “conquistadores” antichi e moderni, seppur cordiale, concede la sua fiducia solo dopo aver capito con chi ha a che fare. Orgogliosi senza essere arroganti, sono sicuri di se, grazie alla continuità della loro identità culturale, tant’e che lo Yucatan e la zona del Mexico con la massima concentrazione di Maya puro sangue, mentre nel resto del paese gli incroci razziali con gli europei sono prevalenti.
La nostra ricerca di fenomeni carsici non pub essere disgiunta dalla speranza di trovare negli stessi posti delle testimonianze di un passato di civiltà che in qualche modo si avverte ancora oggi. La popolazione parla un idiorna Maya, pratica dei riti antichi, anche se mescolati con il cristianesimo e utilizza le stesse grotte sacre ai loro avi come punti di culto e di raduno. Queste pratiche nel corso dei secoli non si sono mai interrotte.
Questo rapporto uomo-ambiente era sentito un tempo in modo esasperato e L’unione con la natura ed il cosmo era vissuto nelle cerimonie con riti cruenti di sangue, visti come sacrifici di se in un alternarsi di vita e morte, quest’ultima come un aspetto della vita unica che tutto pervade.
Possiamo ancora notare nei negozi di souvenir degli scheletri di legno, rappresentanti la morte come una continua presenza, e nello stesso tempo esorcizzandola. Qualcuno dei cenote esplorati da noi ben si colloca tra le credenze sacre come luogo di rispetto e paura, anche in considerazione del fatto che in certi periodi dell’anno dal fondo di uno di questi si sentono dei rumori e L’acqua si alza di 15 metri. In un cenote vicino, nelle nicchie al di sopra della superficie dell’acqua, ai vedono pietre lavorate posizionate in mod0 da formare tra loro una triangolazione; è la rappresentazione di un simbolo lunare, legato probabilmente alla fertilità.
II fondo di questo pozzo nasconde sicuramente, a 28 metri di profondità, sotto il fango e i detriti vegetali qualcosa di molto interessante, ma fuori della nostra portata visto il poco tempo e i mezzi a nostra disposizione.
Sono stati presi accordi interessanti per l’anno prossimo, sperando sempre nella buona volontà del Dio Chac e degli uomini.
                                                                             Luciano Russo

IL CENOTE CHAN MlSSlL

Discesa a Chen Missil (Foto L.Filipas)

Siamo a Jodzonoth Presentado. Paesetto perso al centro dello Yucatan e circondato da una selva pili o meno fitta, fatto dovuto, alla presenza o meno del sentiero.
Ieri Eulogio ci ha portati a vedere gli ingressi di due cenotes dove tra non molto ci immergeremo, nella speranza di sfogare tutto il campionario di ‘ Fantasie Erotiche ‘ preperato con cura certosina, dopo aver esaminato svariati video americani sui cenotes della costa e dopo essserci immersi a Doa Ojos ed al Gran Cenote. (temp. acqua 26°, viaibilità 300 metri).
Prepariamo con cura l’attrezzetura. Sistemiamo tutto il materiale negli zaini ed in fila indiana ci spariamo nella selva con il machete in mano, pronti a confrontarci con liane, serpenti, giaguari e…. moschitos.
Il giorno prima, Tony e ‘Capelli d’Argento” hanno sistemato degli ometti lungo il tracciato e oggi Eulogio lo facciamo stare in mezzo al gruppo per fargli vedere che anche noi sappiamo muoverci nella jungle senza problemi. lo dovevo immergermi nel primo dei due cenotes programmati per oggi.
Si tratta di une immersione di ricognizione per vedere se ci sono gallerie o comunque degli sviluppi orizzontali ed eventualmente iniziare una esplorazione sistematica. Tutto questo per non sprecare aria inutilmente, visto che la stazione di ricarica bornbole dista da Jodzonoth 150-200 chilometri.
Si sta camminando lungo il sentiero in fila indiana, faccio delle zoomate in giro che serviranno per il video della spedizione, Due o tre bimbi, sono tutti uguali questi nijos, ci seguono contenti e stupiti del trambusto che da un paio di giorni sconvolge la tranquillità del paese.
Mentre cammino penso a questo viaggio, che dall’ltalia ci ha portati in questo paesino dello Yucatan, dove il nostro arrivo sarà sicuramente ricordato per molto tempo. Cosa potranno pensare gli abitantj del pueblado di questi personaggi arrivati dall’ltalia per scendere nei poni dove si riforniscono d’acqua? Cosa ci sarà di tanto interessante la dentro? Comunque tra una puntura di zanzara ed un’altra arriviamo all’imboccatura del pozzo.
Questo si apre in una radura, creata a colpi di machete, dove passa anche una larga pista utilizzata dai Maya per portare la legna fino al centro abitato. Qui, su di un masso, c’e il necessario per attingere L’acqua dal cenote per bere. Il diametro del pozzo principale è di circa 4-5 metri, poi ci sono due bocchette di diametro molto più piccolo ai lati.
Preparo l’attrezzatura per l’immersione. Tony e “Capelli d’Argento” sistemano l’armo. II pelo d’acqua si trova a circa quindici diciassette metri più sotto. Il pozzo si apre a campana e dai quattro metri dell’ingresso, raggiunge i trenta quaranta di diametro sulla superficie del lago interno.
Vista la presenza di un vespaio, all’ imboccatura della cavità, Eulogio lo brucia con un rudimentale sistema Maya. Ciano, aspettando il finire dell’operazione, si allontana nel bosco mimando un’attacco di diarrea, cosa non creduta dai presenti, visto che si e riportato a casa il risultato di 19 giorni di lavoro intestinale, supposte comprese.
Benissimo, tutto è pronto. Ultime riprese esterne; Tony si cala per primo e mi aspetta in acqua dove un raggio di sole molto suggestivo lo colpisce entrando dalla volta. Mi aggancio al discensore, faccio un paio di giri di rinvio per frenare la discesa, visto che la bombola tenta in tutti i modi di girarmi a testa in giù. Splash!!! Sono in acqua. La volta enorme della cavità è zeppa di stalattiti gigantesche. Le radici degli alami scendono fino al pelo d’acqua dove formano dei grumi spettacolari e tetri al tempo stesso. Mi libero dalla corda e raggiungo Tony sottoparete … si tocca. Il raggio di sole che entra dalla volta si infrange in acqua formando uno specchio luminoso. Molto coreografico, manca solo la statuetta d’oro e Harrison Ford. Tony mi comunica che non si vede il fondo. Penso all’andazzo dei giorni precedenti: superficie ingannatrice, riflessi, pietre bianche, acqua pseudo-limpida e … trak! 10 15 metri di profondità e fine del pozzo. Solita routine. Ma un sesto senso mi avverte che non sarà cosi.
Aspettando l’arrivo di Ciano e della telecamera sub, decido di fare una prima immersione ricognitiva. Scarico il GAV e inizio la discesa. Non vedo ne il fondo, ne la parete che mi stanno davanti. Scendo lentamente parallelo alla parete più vicina. Guardo in superficie e riesco a vedere chiaramente il mio compagno e il pozzo che si apre 15 metri sopra di lui. Continuo la mia caduta libera fino ad una cengia a -30 metri; ti mi fermo in piedi e faccio il punto della situazione. II raggio luminoso del faro da 150 Watts che ho in mano si perde nel nero più assoluto. lnizio a guardarmi in giro: dei pesci gatto curiosi, mi girano attorno e a me strani pensieri iniziano a girarmi nella mente.
Eulogio, ieri ci parlava di strani fenomeni che accaddono in questo Cenote nella settimana precedente la Pasqua quando questo Cenote, ed un altro che si trova nella zona, iniziano a sputare acqua nebulizzata in superficie come un drago furioso. Chissa perchè proprio prima di Pasqua? Leggende Maya?
Non lo so, però mi trovo all’interno di questo mostro che incute timore e rispetto agli abitanti del luogo. Eulogio ci ha anche spiegato che i Oiscesa a Chan Missil Maya lanciavano nei Cenotes gli oggetti d’oro per non farli cadere in mano agli invasori. Cosa troverò sul fondo? Arriverò sul fondo?
Continuo la discesa sempre più attaccato alla parete, guardando ogni tanto verso la superficie sulla quale il raggio di sole penetrato dalla volta da una luce sempre più misteriosa ai miei pensieri. Sono a quasi 40 metri di profondità. Ricordo un articolo letto su una rivista americana riguardante L’esplorazione del famoso Zacaton, sito nel Messico Nordorientale, dove J. Bowden e lo scomparso S. Exley da una valutazione stimata intorno ai 50 metri, finirono a 300 metri. Questo non e il mio caso, perche a -45 metri inizio a vedere l’orlo della china detritica del fondo.
Cosa troverò?Preziosi, scheletri, mostri? Sono forse venuto fin qui per essere sacrificato alla dea dell’acqua Chalchiuihtlicue? o per finire nelle fauci del serpente piumato sempre più bisognoso di nuove offerte? Vada come vada, mi sposto al centro del pozzo. Noto che al posto dei miei più tenebrosi pensieri non trovo oro ma massi di crollo, qualche tronco caduto dall’alto, e proprio guardando in alto vedo i miei amici in superficie. Mi chiedo se stanno provando invidia o gioia per non essere al mio posto. lnizio la risalita e riemergo lentamente, prendo la telecamera e mi riporto sul fondo. Questa volta pili coraggioso e senza idee infauste. Raggiungo l’altro lato del pozzo, sono a quasi -50 rn. E riprendo la superficie da sotto. Spengo le luci, abituo i miei occhi all’oscurità. Mi godo uno spettacolo incredibile: mille riflessi, mille tonalità di blu e posso distinguere perfettamente i due amici che mi stanno aspettando in alto.
Sul fondo grandi massi bianchi. Faccio un paio di panoramiche e risalgo. Decompressione di rito, coi pensieri a 200 all’ora per immagazzinare nella memoria ogni istante di questa immersione. Quando si inizia un’esplorazione all’interno di un sifone si sa quello che si trova: roccia ed acqua. Quando invece si entra per primi in un Cenote in mezzo alla giungla si entra in un mondo fantastico fatto di leggende, riti antichi, superstizioni e magia. Tanto che mentre aspettavo di iniziare la risalita in corda me ne stavo ben lontano dal centro del lago con maniglia e croll attaccati alla corda. Provare per credere.
                                                                                   Massimo Baxa

I pozza Yokdzonot Presentados (foto LFilipas)

DZIBICHEN LA GROTTA CON ISCRIZIONI

Nella grotta di Dzbichen (Foto T.Klindendrat)

Dobbiamo la parte più interessante della nostra esperienza yucateca ad Adolfo Lopez, un amico spagnolo, appassionato di archeologia, che un giorno ci fece vedere uno splendido libro ove si parlava di questa grotta. In esso era chiarnata anche Dzibi aktun ma al suo interno era stata trovata la scritta “sibichen” che indicava come l’altro 4 nome fosse più antico. Inoltre in yucateco entrambe le parole “aktun” e “chen” significano grotta, ma “chen” si riferisce a grotte e pozzi con acqua. Gli autori parlavano infatti di una pozza al suo interno, senza dare però informazioni sulle sue grandezza e profondità. Sapendo che i Maya tenevano in grande considerazione L’acqua delle grotte e che spesso vi gettavano offerte, la nostra curiosità crebbe a dismisura. Dovevamo saperne dl più. L’unico modo era andare a vedere di persona.
Neppure Adolfo sapeva bene dove questa grotta si trovasse. Leggemmo che doveva essere nel pressi di un villaggio dal nome improbabile di Yokdzonot Presentados. Lo trovammo con più difficoltà sulla mappa stradale che non nella realta: la strada lo attraversava ed era costituito da una piazza e poche case sparse nella foresta.
La seconda persona alla quale chiedemmo informazioni sapeva dove si trovava la grotta e si offri come accompagnatore. Era Eulogio Caamal Cuxin, un maya all’ottanta per cento. ci disse, perchè aveva un po’ di sangue spagnolo come tutti ormai, che ci sarebbe diventato presto prezioso informatore, guida e amico.
Dopo quasi tre chilometri lungo un sentiero di cacciatori nella foresta, inseguendo Eulogio che camminava scalzo e veloce, ed inseguiti da alcuni bambini curiosi, giungemmo alla grotta. L’ingresso era simile ad una dolina di crollo. Alla sua destra, sopra un masso, si trovava una croce di legno su una pila di piccole pietre. Si trattava di un’offerta a certi spiriti della foresta che fanno sparire la fatica dalle gambe dei cacciatori.
Dzibichen e costituita da un’unica stanza, larga venticinque metri e lunga cinquanta metri, che raggiunge la profondità di circa venti metri dal piano campagna. Vi si scende anche percorrendo una scalinata intagliata nella roccia e semisepolta dal detrito che guida al fondo, nei pressi della famosa pozza d’acqua che ci deluse profondamente: un metro per un metro, per cinquanta centimetri di profondità, alimentata da un pertugio troppo stretto per consentire il passaggio di un qualsivoglia subacqueo. Era sicuramente acqua di falda, perchè Eulogio ci disse che quella pozza non si asciugava mai, e, anzi, spesso aveva un livello più alto di quello. Purtroppo a noi non serviva.
Subito sopra la pozza e su tutte le pareti del fondo, graffiti o dipinti al carboncino, i segni dei Maya: scimmie, serpenti, giaguari, il sole, la luna, uccelli, figure antropomorfe, simboli oscuri, scritte e, sorprendentemente ma inequivocabilmente, una bicicletta! Meno inclini di Peter Kolosimo a spiegazioni soprannaturali o extraterrestri sospettammo subito L’inganno ma fummo prontamente smentiti: Eulogio spiego che alcune iscrizioni erano, in effetti, recenti poichè la grotta era utilizzata anche attualmente dalla sua gente e sciamani vi celebravano ancora riti magici e propiziatori, specialmente curativi. La maggior parte però erano autenticamente antiche, come lo comprovava anche il sottile velo di calcite che in certi punti le ricopriva. Qualche giorno dopo anche Adolfo Lopez confermerà questa spiegazione. Non potemmo fare a meno di considerare come anche qui, similmente a quasi tutta L’America Latina, la religione cattolica convivesse con i riti delle religioni preesistenti. Troppo poco tempo e passato dalla conversione di queste genti. Da noi son dovuti trascorrere più di millecinquecento anni di cristianesimo per cancellare dalla memoria collettiva che il giorno del Natale in realtà e stato sovrapposto alla festa romana, e forse precedente e sicuramente propria anche di altre culture, del solstizio d’inverno, della nascita del nuovo sole e del nuovo anno (Dies natali invicti solis).
Affascinati dai risvolti archeologici della visita ma delusi da quelli subaquei ci rivolgemmo, rassegnati, ad Eulogio, per sapere se conoscesse, per caso, li vicino, qualche grotta con acqua, qualche “cenote”. La sua risposta ci sorprese piacevolmente: ne conosceva centotrentacinque, nella foresta circostante.
Decidemmo di analizzarla con più cura davanti ad un pollo sepolto da patatine e circondato da un adeguato numero di birre. Eulogio ci condusse nel locale adatto. Le birre erano gia li, il pollo no ma andarono a giustiziarne subito uno. Nell’attesa ci facemmo spiegare: nei 51 64 ettari del territorio (ejidol competente a Yokdzonot Presentados) durante vari disboscamenti per coltivazione, ne erano stati scoperti tanti di cenotes, e molti di sicuro interesse archeologico, nessuno esplorato, anche perchè loro, i maya attuali, li ritenevano luoghi particolari: da frequentare con cautela alcuni, da rifuggire altri. Un paio ce li avrebbe mostrati anche subito dopo il pranzo, altri nei giorni futuri se ci sarebbero interessati. Per altri 17  ancora non era possibile in breve tempo perchè si sarebbe dovuto riaprire la pista nella foresta che vi conduceva ed era un lavoro di giorni.
Ci interessarono e ne esplorammo una magnifica decina nei giorni che seguirono e, senza ombra di dubbio, ci interessano ancora. Siamo all’inizio dell’ avventura.
Dal lavoro degli archeologi Andrea Stone e George Veni (1989) presentiamo un rilievo di Dzibichen alcune riproduzioni dei principali disegni presenti nella grotta.
                                                                                Toni Klingendrath