GROTTE CUBANE – DAL VOSTRO CORRISPONDENTE ALL’ESTERO
Pubblicato sul n. 23 di PROGRESSIONE – Anno 1990
Le mie grotte cubane sono state una meraviglia.
lo non sono un gran speleologo (infatti corrisponde a verità la voce per cui indebitamente occupo prestigiose e remunerative poltrone nei più importanti organismi speleologici italiani) ma converrete con me che:
- girare per una grotta svariate ore indossando semplicemente una maglietta di cotone
- affrontare, lungo alcuni chilometri di percorso, solamente un paio di salite e discese (non pozzi eh! ma salite e discese!)
- dover abbassare la testa per non urtare stalattiti con una frequenza di una volta al chilometro
- ondeggiare a destra e a sinistra per illuminare alternativamente le pareti
- chiacchierare amabilmente in italiano con i locali (che si sa, parlano lo spagnolo), rendendosi conto che la vostra speleologia è anni luce avanti (immaginarsi la mia!), consente ad uno come me:
a)di fare bella figura
b)di non stancarsi e non «pericolare»
c) vedere cose splendide ed interessanti per la prima volta e nel contempo comprenderle forse meglio dei locali.
Le mie grotte cubane quindi sono state una meraviglia.
Che dire delle cavità? Ne ho visitate tre, una turistica e due in corso di studio in quanto sembra che vi siano ancora alcuni chilometri non rilevati da esplorare (delle due una è un complesso consistente in almeno 45 km di gallerie, l’altra in più di 32 km).
Tutte si aprono nella zona di Vinales – Pinar del Rio, nel nordest dell’isola, area classica (Sierra de los Organos, Sierra del Rosario) per il carsismo tropicale: con i rilievi, tavolati calcarei ripidamente emergenti da una articolata pianura e intensamente incarsiti. Tropicalmente lussureggianti i rilievi, più o meno ampi gli spazi piani (localmente detti hoyos) racchiusi tra i rilievi ed in cui sono artisticamente coltivati i campi. Gallerie ampie ed estese su più livelli (cuevas e cavernas), corsi d’acqua ipo ed epigei con sorgenti (resolladeros)ed inghiottitoi (sumideros),
La Cueva de los indios
è una cavità-risorgiva turisticamente visitabile per un breve tratto (due chilometri circa): lasciato dietro le spalle e/resolladero, ci si addentra in una galleria «paraautostradale» a morfologia freatico-vadosa con belle forme parietali per giungere ad un “imbarcadero» che consente il proseguimento su battello data la presenza sul posto del livello di base locale. Eravamo in troppi, avevamo il tempo contato, non abbiamo nè nuotato (l’acqua lì ha temperatura di 24°C) nè navigato, ma mi dicono che il percorso (fra l’altro da una parte si va, da un’altra si torna) sia affascinante e divertente.
Il sistema carsico della Cueva ore Santo Tomas
è un plurichilometrico complesso su più piani (anche se alcuni secondo me sono livelli di riempimento a quote diverse e non episodi di livelli di base in abbassamento) estremamente interessante (sistema ,‹cavernario» Majaguas-Cantera, circa 45 km). L’imboccatura si apre poche decine di metri in quota rispetto la «Escola de Espeleologia» (una ex caserma, riattrezzata a scuola di speleologia, con dormitori, mensa, aule) e dà in una hall ove i fenomeni di alterazione parietale (ridissoluzione accelerata) per flusso d’aria in entrata si sprecano. Dalla hall si accede ad alcuni chilometri di gallerie in cui il perdere il contatto visivo con le guide significa perdere l’orientamento e acquisire angoscia.
Abbondanti le forme freatiche e quelle gravitative, i riempimenti fisici e chimici (dalle eccentriche alle colate, dai gours alle piramidi di terra); piacevole e non stancante la visita anche date temperatura e suborizzontalità, decisamente tollerabili.
Il sistema carsico della Cueva de Tumbadero
da quanto ho capito, è uno dei principali sistemi ipogei del paese (Sierra de San Carlos – Cordillera de Guananiquenico, 35 km). Basterebbe considerare l’ingresso per crederci. Attraversati luminosi campi verdeggianti di tabacco e rosseggianti di terra arata dai buoi, in una zona che ho scelto per scrivere la premessa alle mie memorie, si arriva ad una risorgiva vicina ad una vastissima caverna con due ingressi (o meglio cui si accede da due vaste entrate). La caverna si estende da una parte con una breve galleria che porta a una dolina di crollo e quindi alla quasi inestricabile giungla di un hoyo interno, dall’altra consente di accedere al sistema ipogeo vero e proprio. Questo consiste in un dedalo su più piani di gallerie e sale piuttosto ampie in cui morfologie dissolutive, erosive, sedimentarie, tettoniche, si alternano (fra l’altro ho avuto netta l’impressione che anche le nostre guide ad un certo momento non sapessero da che parte passare per uscire). Resta il fatto che i chilometri percorsi prima di arrivare ad un sifone in sabbia sono stati praticamente un compendio di geomorfocarsologia. Il sifone insabbiato (che alcune settimane prima non c’era, ma li il regime pluviometrico è piuttosto intenso, anzi «tropicale”) ha fatto terminare anzitempo la nostra esplorazione, ma ci ha consentito di rivedere con tranquillità le morfologie ipogee durante il ritorno al hoyo principale, morfologie prima appena intraviste per tener dietro agli scatenati locali. Ancora oggi ho presente una cupola sulla volta, contraddistinta nella parte apicale da roccia nuda, candidamente spiccante da volte e pareti completamente arrossate dai sedimenti argilloso-limosi incollati alla roccia dalle acque scorrenti in pressione durante antiche piene. Fra l’altro una visione che ha rinfrancato chi, come me, cerca di spiegare a increduli 13 paleomorfologi» che morfotipi uguali possono derivare da fatti genetici diversi.
Insomma, un carso da vedere, da gustare, da ricordare.
Franco Cucci