SÀO VICENTE I°: PREAMBOLO

SÀO VICENTE I°: PREAMBOLO

Fa caldo, buio, per gli sterrati abbiamo impolverato tutto, ho la gola secca, in giro non c’è anima viva, solamente un bar poco illuminato in fondo alla strada.

Di fronte a noi l’albergo: piccolo, non molto accogliente, l’unico di tutto il paese. Entriamo, non c’è il banco, quello su cui noi triestini passiamo gran parte delle se­rate appoggiati per ore ed ore a bere e chiaccherare, qui non c’è.

-Cristo, e adesso che si fa? -Mah! Pro­viamo a chiedere, forse qualcosa la rime­diamo ugualmente. Detto e fatto, ci sedia­mo in una specie di “salottino” e stappiamo quattro birre. Adesso si ragiona. Di là ci sono i brasiliani, già seduti a tavola per cenare, che oltre a tutto stanno aspettando educatamente noi, quindi siamo obbligati ad alzarci, cambiare sala e raggiungere i nostri futuri colleghi d’esplorazione.

Non è che siano pesanti, più che altro, è che noi siamo un po’ stanchi e sballottati dal viaggio e non riusciamo a reggere trop­po. Ti parlano di una cosa, ti chiedono un’al­tra e tu che sei stanco capisci poco la lin­gua portoghese, la parli ancora meno, fai una fatica boia a stargli dietro e non puoi nemmeno far finta di ascoltarli facendo ogni tanto qualche cenno col capo tanto per dire di si. La cosa migliore è togliere il disturbo e uscire.

Improvviso il silenzio, come appena ar­rivati: la strada deserta, senz’anima viva e laggiù in fondo un bar: andiamo. Qui il ban­co c’è, piccolo ma c’è, noi ordiniamo sei “caipirinhe”. Per il resto penseremo domani.

Iniziano i preparativi: noi all’ingresso e loro all’uscita: no, viceversa: anzi metà e metà, cioè tutto noi. Non è che ieri sia sta­ta una mia impressione dovuta alla stanchezza, è proprio che questi brasiliani sono proprio … tutti agitati, incasinati come i ragazzini quando sanno che andranno a fare una gita avventurosa. Comunque, quello che conta è che nostro malgrado ci hanno divisi. Tre da una parte e quattro dall’altra coll’idea d’incontrarci in esplorazione alla presunta congiunzione delle grotte o altri­menti tra quindici giorni in hotel.

Fatto tutto, partiamo: io, Guido, Tuliet­to, tre francesi e un ceppo di brasiliani. Non ricordo dopo quanti chilometri raggiungia­mo il punto massimo percorribile in furgo­ne, da qui copriremo a piedi l’ultimo tratto che ci separa dalla grotta.

Sono le ore 12, fa caldo, c’è un po’ di vento, il sole è alto, forse una leggera fo­schia, il silenzio rotto da alcuni pappagalli curiosi in avvistamento sulla cima degli al­beri tra i quali scorgiamo una capanna fat­ta in terracotta e paglia. E’ la casa del si­gnor Costa, un vecchio contadino che da ormai 17 anni è solito andare incontro, sa­lutandole, a tutte le spedizioni offrendo la sua ospitalità e disponibilità in tutto.

Più avanti, un po’ più dentro alla selva, un corso d’acqua stanco ed accaldato dal sole, dopo un lungo e faticoso scorrere, trova rifugio sotto un altopiano calcareo: il Rio Sao Vicente. Qui all’ingresso allestia­mo il campo e … bè, adesso continua a rac­contarvi Guido.

                                                                                    Scrat (Spartaco Savio)

COTTIMO A RIO SÀO VICENTE: LA CONGIUNZIONE

Foto U.Tognolli

Ormai Brasilia è solo un ricordo, ora che con un “Combi” stracarico entriamo in Sao Domingo. Caspita che velocità: l’altro ieri Venezia, oggi non solo Brasile, ma già in zona di ricerca.
Fra noi, brasiliani e francesi siamo in 23: mica uno scherzo. Con i francesi c’è un mostro sacro della speleologia, Michel Lebret, che ha quasi settant’anni ed il no­stro stesso entusiasmo, poi Paul Courbon e Claude Chabert, i due autori dell’atlante speleologico. I brasiliani sono guidati da Max Haim, proprietario di uno stabilimento industriale a S. Paulo, mentre con noi c’è il “vecchio” Elio Padovan. Ceniamo con pol­lo, riso e patate, e tanta buona birra con cui buttiamo giù anche le idee per la futura esplorazione.
Il giorno dopo, divisi in due squadre (una formata da Guido, Spartaco, Tullietto, tre francesi, la moglie di Claude e una parte dei brasiliani, l’altra da Elio, Jumbo, Tolo, Croce Rossa, Lebret e tutti gli altri) si ini­ziano i lavori. La prima scenderà il fiume nella Grotta Sao Vicente 1, mentre la se­conda risalirà “Craibinha”. Le squadre do­vrebbero incontrarsi in quanto il fiume che entra nella prima grotta dovrebbe uscire dal­la seconda. Staremo a vedere.
Diciassette spedizioni hanno cercato la congiunzione, ma senza successo. Ci divi­diamo e noi si prosegue sino alla Fazenda Agua Fria, di proprietà del “Serior Costa”, dove abbandoniamo i mezzi e proseguia­mo a piedi sino all’entrata della caverna che inghiotte il rio Sao Vicente, ove si piaz­za il campo. Ottimo pasto, ombra, fresco, la possibilità di fare il bagno e centinaia di zecche. Dopo varie discussioni sul modo di portare avanti l’esplorazione prendiamo in pugno la situazione e proponiamo più “pun­te” al fine di evitare i campi interni. I brasiliani sono un po’ scettici (non è il loro modo di operare), ma alla fine acconsentono.
Si parte di buon’ora per la prima punta ed i brasiliani, che già conoscono la grotta, ci fanno da guida; il fiume ha una portata di 7 m3 al secondo, la grotta è molto calda e gli ambienti grandi e suggestivi. La pro­gressione è resa pericolosa dalla forte cor­rente ed i punti più delicati vengono at­trezzati con corde fisse, nei percorsi semiasciutti siamo sempre con l’occhio vi­gile per non calpestare eventuali serpenti trascinati dalle varie piene – e dunque incazzati – e molto pericolosi. Dopo circa sette ore arriviamo al punto in cui s’era fermata la precedente spedizione.
La corrente è molto forte, il fiume pro­fondo e le pareti verticali: i nostri prede­cessori s’erano fermati di fronte alla dif­ficoltà della traversata. Per noi questo non era un problema, solo questione di tempo; avevamo dieci giorni a nostra disposizione e quindi già sapevo che la nostra “banda” ce l’avrebbe fatta. I nostri compagni ritor­nano all’esterno e noi si comincia a lavorare.
Inizia il lavoro Spartaco che sfruttando ancoraggi naturali e qualche spit conclude la traversata in tempi brevissimi: più avanti la corrente non è molto forte e, con l’acqua alla cintola, ci permette brevi soste ai lati del fiume. Bisogna proseguire, e per guada­gnare tempo adottiamo un metodo di esplo­razione alla kamikaze: siamo tutti con i corpetti salvagente (meno male) e fatto un buon ancoraggio il primo si lancia nella corrente assicurato ad una corda; appena trovato un’altro attacco, fissa una nuova corda e con il fischietto chiama gli altri (a voce dopo qualche metro non ci si sente più, tanto è il fragore dell’acqua). Ci si dà il cambio nei vari lanci, fino all’esaurimen­to delle corde: dopo venti ore siamo fuori a portare la buona novella agli altri. I no­stri amici non si danno pace e non capi­scono come abbiamo fatto tutto quel lavo­ro in così poco tempo: “Eh, dura scola el Canini” rispondiamo. Comunque anche se l’acqua ha 24° C, venti ore in ammollo si fanno sentire e decidiamo di far ferie la mattina dopo.
Si torna in grotta la sera, noi davanti ed i francesi dietro per il rilievo; i brasilia­ni, a parte un paio, sono solo speleo alle prime armi e quindi non in grado di colla­borare più che tanto. Proseguiamo l’esplorazione con il collaudato sistema “uomo a perdere”, per gallerie e cascate, finchè non ci si presenta un nuovo problema: il fiume precipita in una cascata e la corrente è fortissima, per cui serve un altro traverso aereo. Inizia il lavoro Spartaco (meno male che è il suo turno, perchè nessuno ha voglia di spittare…) che dopo parec­chio tempo, fra mille imprecazioni verso le levigate pareti di granito che si lasciano perforare malvolentieri, giunge alla base della cascata. Ora tocca a me dargli il cam­bio, ma proseguire in artificiale porterebbe via troppo tempo, per cui decido per i “lanci alla cieca”.
La corrente è fortissima, non si vede dove vada a finire l’acqua e si potrebbe incappare in un’altra cascata. Montiamo un paranco per un eventuale contrappeso e Spartaco rimane pronto al recupero. Mi lancio in acqua fra spruzzi, gorghi e scari­che di adrenalina; dopo una trentina di me­tri riesco a fermarmi, giusto giusto sul bor­do di un altro salto; dalla mia parte parete verticale di granito, mentre la sponda op­posta è fatta di calcare concrezionato e – almeno in apparenza – facilmente arram­picabile. Devo raggiungere in qualche modo la parete opposta; gonfio il corpetto al massimo e cerco di raggiungere la sponda nuotando il più velocemente possibile. Strano ma vero, riesco a farcela; provo ad arrampicare, ormai sto gia pregustando la sigaretta che mi fumerò appena all’asciut­to, quando una stramaledetta concrezione mi resta in mano: addio Guido! La cor­rente mi porta velocissimamente alla ca­scata e sono del tutto inutili i miei dispera­ti tentativi di riguadagnare la riva. Meno male che “San Spartaco” intuisce al volo la situazione e blocca la corda a cui sono assicurato. C’è troppa corda però e così’ finisco appeso in mezzo alla cascata (…che sfiga). Non domandatemi cosa ho pensato in quel momento, perchè non lo so nemmeno io, ma nostro Signore e tutti i Santi “ga fato musade”.
Scrat comincia a recuperarmi in con­trappeso invocando l’aiuto di Tullietto, che però non sente i richiami a causa del fra­gore della cascata a monte; nel frattempo sento la corda tendersi allo spasimo, non mi muovo di un centimetro e non riesco a respirare. Ghe la fa o non ghe la fa? Da­ghe drio Scrat, ara che crepo, penso fra me e me, visto che non posso parlare. Mi­nuti o secondi? Non lo so, ma il “fratellino” riesce e finalmente ho la testa fuori e pos­so volare. Mi recupero sino a lui, ormai non ce la faccio più a nuotare. Ora mi gusto una sigaretta mentre Tullio si scusa per non essersi reso conto di quello che stava accadendo. Fine dell’esplorazione per oggi!!
Altre venti ore e siamo fuori, cicole e ciacole e molti brindisi con la “caipirinha”.
Il terzo giorno esplorativo rifaccio il ten­tativo, ma questa volta pianto uno spit nel punto critico e mi faccio raggiungere da Spartaco. Ora prova lui ad attraversare mentre io lo assicuro: tutto bene. Tiriamo una teleferica da una parte all’altra e ci facciamo raggiungere da Tullio. Proseguia­mo l’esplorazione con il solito sistema ka­mikaze, ma ora è tutto più facile, il letto del fiume s’allarga e la corrente è molto meno impetuosa. Ad un certo punto Tullio trova uno spezzone di cordino da 8 mm appeso ad una concrezione. Siamo certi sia un se­gnale lasciato dai nostri compagni che do­vevano risalire l’altra grotta: la giunzione è fatta!
Ritorniamo all’esterno e festeggiamo la buona sorte con la solita “caipirinha”. Gli amici brasiliani ormai ci venerano, ed an­che i francesi non fanno che complimen­tarsi con noi. Scrivo un messaggio per Elio e compagnia, ormai non ha più senso continuare la risalita. Dò il messaggio al “Serior Costa” che provvederà a recapitarlo (a cavallo) all’altro campo.
Ora non resta che finire il rilievo e scat­tare foto. Il giorno dopo arriva la “Banda Padovan” e si decide di entrare insieme per turismo e disarmo. Anche questa è fat­ta! I traversi ed i punti chiave li abbiamo lasciati attrezzati (non si sa mai, qualche buontempone potrebbe decidere di farsi la traversata integrale); abbiamo portato lo sviluppo complessivo della grotta a più di 12 km..
E’ finito tutto troppo presto, ben prima di ogni nostra aspettativa e ora non abbia­mo nulla da fare; d’altra parte questo lavo­ro era un “cottimo”, finita l’esplorazione, fi­nito il lavoro.
Ed ora?… Turisti!!!

Guido Sollazzi

SPEDIZIONE BRASIL 91″ – congiunzione Rio Sao Vicente 1

spedizione BRASIL 91 – Ramo all’ingresso inferiore di Sao Vicente 1

RILIEVO ALESSANDRO TOLUSSO, ADRIANO LAMACCHIA – COMMISSIONE GROTTE E.BOEGAN – AGOSTO 1991 (SCALA 1:2000)