PAROLE PAROLE PAROLE ….
Pubblicato sul n. 47 di PROGRESSIONE – anno 2002
William Shakespeare, “Amleto” (atto 2, scena 2)
“Hai già cominciato a scrivere l’articolo per il prossimo numero di Progressione?” mi chiese sabati fa l’ineguagliabile Pino Guidi, mentre scaricavamo dal fuoristrada di Glauco il nostro ciarpame speleologico.
“Ma come,” gli dissi “non ti ho consegnato il relativo manoscritto poco tempo fa?”
“Si” continuò lui “ma quello era per il numero ora già in corso di stampa; quello di cui ti parlo è per quello successivo”. Già, ti pareva…
“Va ben” gli dissi “appena porteremo a termine l’esplorazione del buco in cui siamo impegnati, vedrò di buttare giù qualche riga in proposito”. Pacatamente l’amico mi rispose, come il professore che bonariamente redarguisce l’allievo: “Quello è sottinteso! Io però vorrei da te qualcosa d’altro, per esempio un articolo sui tuoi ricordi, i tuoi punti di vista sulla speleologia e sugli speleologi e così via. Dài, che ce la fai!” (Dove ho già inteso questa frase?)
Durante la vestizione mi sono infilato l’imbrago e, rimuginando sul compito che Pino mi aveva affibbiato, non ho avvitato la ghiera del bloccante “maillon rapid”, ma di questo ovviamente mi sono accorto solo all’uscita quando mi sono spogliato. Grazie al cielo mi è andata bene! Si vede proprio che la fortuna aiuta gli audaci, gli incoscienti e nel mio caso i distratti.
Cosa scrivo di tanto avvincente da non annoiare i lettori che, modestia a parte, parecchie volte si sono complimentati per i miei articoli? Voglio approfittare ditale loro buona predisposizione nei miei riguardi sperando questa volta di non deluderli. Non vorrei, insomma, scendere dalle stelle alle stalle! (la parola “stelle” è in perfetta armonia di rima con “stalle”, anche se nel mio caso invece di stelle dovrei chiamare in causa asteroidi o al massimo pianeti!).
Venendo al dunque, saltando di palo in frasca, così, a bruciapelo, se chiediamo ad una persona che pratica la speleologia, oppure che a suo tempo l’abbia praticata, quando, come e dove ha avuto il suo primo impatto col mondo sotterraneo, essa ci racconterà con dovizia di particolari il quando, il come e il dove, anche se l’approccio con la grotta non abbia avuto ripercussioni positive. Io penso che la prima grotta sia come il primo amore: non si scorda mai!
Se questa domanda invece fosse rivolta a me sarei un po’ imbarazzato a rispondere. Di caverne e cavernette, insieme a mio padre, ne ho visitate parecchie negli anni della mia prima infanzia, e non mi posso certo ricordare quale sia stata la prima. Avevo nove anni quando sono sceso nella prima grotta “seria” usando le scale e, strano a dirsi, ne sono rimasto alquanto deluso. Logicamente sulla delusione deve aver giocato il fatto che a quell’età la fantasia è galoppante: non so cosa mai speravo di vedere o di trovare in quella fangosa cavità.
Comunque ecco il mio primo incontro ravvicinato con l’ipogeo (mi piace questa parola: “ipogeo”, riempie la bocca ed è molto più significativa del banale “sottoterra”), se in tal modo posso chiamare quella profonda frattura aprentesi in un campo solcato che non sono più riuscito a rintracciare negli anni successivi.
Ma ecco i fatti:
Correva l’anno 1944 e, come ben si sa, in quel periodo si era in piena guerra mondiale e civile. Il mese, se non vado errato, doveva essere marzo; infatti in quel tempo, prima di trasferirmi con la mia famiglia ad Aurisina, abitavo nel paesino di Prepotto. Era una bella mattinata riscaldata da un sole primaverile e, cogliendo l’occasione di questo, mia madre mi portò a fare una breve passeggiata nei dintorni. Ci sedemmo in un piccolo spiazzo erboso e, mentre la mamma sferruzzava, io giocavo con alcune pigne che avevo raccolto nell’attigua pineta. Ogni tanto mi distoglievo dal gioco e alzavo gli occhi verso le alture che delimitano l’orizzonte a settentrione per osservare la cupola rocciosa del Monte San Leonardo e le cupe pinete del Monte Gradine sulle cui balze persistevano ancora chiazze di neve. Ad un tratto quell’idilliaca pace agreste fu bruscamente interrotta da alte grida, scoppi di bombe e raffiche di mitra: a qualche centinaio di metri da noi, al limitare del villaggio, si era accesa una scaramuccia fra le truppe tedesche e i partigiani che operavano in quella zona. Mia madre, spaventatissima, balzò in piedi e presomi in braccio si mise a correre nella direzione opposta alla sparatoria. Dopo un po’ si fermò ansimante e, dopo avermi deposto a terra, con qualche esitazione, si infilò in una stretta spaccatura tra le rocce poi mi attirò a sè prendendomi nuovamente in braccio e raccomandandomi di non parlare. Stavamo rannicchiati in quel buco, ad un paio di metri di profondità in attesa degli eventi che non tardarono ad arrivare: quattro o cinque persone in abiti borghesi con un balzo saltarono oltre la spaccatura del nostro provvidenziale rifugio. Mia madre si trattenne a stento dal gridare allorché l’ultimo degli inseguiti si fermò e sparò una lunga raffica di mitra contro gli inseguitori, inondandoci con una dorata pioggia di bossoli espulsi dall’arma. Dopo un brevissimo tempo giunsero altre persone e pure loro sparando balzarono oltre il nostro nascondiglio. Erano sicuramente soldati germanici, in quanto non capivo nulla di quello che gridavano. Fortuna volle che, impegnati come erano a sparare e guardare avanti, nessuno rivolse lo sguardo in basso: se così fosse stato ci avrebbero visti e, dato che in quei tempi non si andava troppo per il sottile, una sventagliata di mitra o qualche bomba a mano non ce l’avrebbe tolta nessuno. Dopo che le grida e gli spari si furono affievoliti in lontananza tornammo all’aperto e frettolosamente rincasammo.
Stando rannicchiato in quel minuscolo vano, protetto dalla sua compiacente penombra, forse si fissò nel mio subconscio la passione per la speleologia (ci vorrebbe Freud), passione che dura tuttora. Alla mamma, invece, quel nostro momentaneo rifugio fece un effetto diametralmente opposto: ogni qualvolta che, passeggiando per la campagna, rasentavamo l’ingresso di qualche grotta lei, inorridita, se ne allontanava subito.
Da quel fatidico 1944 erano passati diversi anni ed io, diventato ormai un ragazzo, bazzicavo in lungo e largo, insieme ai miei coetanei, le zone carsiche di Aurisina alla ricerca di caverne e pozzi. Se le cavità scoperte erano caverne queste venivano subito visitate con l’aiuto di qualche torcia elettrica o mozzicone di candela; se invece si trattava di pozzi dato che non avevamo né l’attrezzatura né l’esperienza necessarie per affrontarli, ci limitavamo a osservare stupiti quegli inquietanti imbocchi, gettandovi dentro pietre e fantasticando su chissà quali bellezze si trovassero là sotto.
I nostri fratelli maggiori invece si erano adeguati alla bisogna e in breve il loro parco attrezzi speleologico si arricchì di due scale di corda per un totale di 40 metri, di uno spezzone di corda di 30 metri, 5 lampade a carburo, qualche cmturone artigianale e … nessun elmetto. Mi sono sempre chiesto come hanno fatto a procurarsi quel materiale, ma sono quasi certo che si è trattato di un “dono” di qualche disattento gruppo di speleologi cittadini che, in quei tempi, ogni domenica invadevano i miei “dominions”.
Un giorno, sempre i nostri fratelli maggiori, hanno avuto la bella pensata di visitare la grotta Natale (2744 VG, P. 20, P. 44, grande caverna) con i soli 40 metri di scala più uno spezzone di 10 metri di fili telefonici “made in USA” attorcigliati ed annodati tra di loro e quindi attaccati alla fine della campata di scale nel pozzo interno di 44 m. Se la discesa su quel fatiscente spezzone di fune non aveva dato soverchi problemi, la risalita è stata tutto un altro discorso. Sono riusciti a “riveder le stelle” (anche se in effetti diluviava…) soltanto a notte fonda, abbandonando tutta l’attrezzatura fuori della grotta scioccati dalla poco piacevole avventura di cui sono stati protagonisti e che per mera fortuna non si era tramutata in tragedia. La mattina seguente raggiunsi il luogo della débàcle a recuperare (ed ereditare) tutto il materiale speleo, meno i trenta metri di corda che qualcuno più solerte di me aveva già “espropriato”. In seguito sentirò sempre la mancanza di quel benedetto pezzo di corda, considerato che tutte le discese effettuate da me e dai miei amici nelle grotte del circondano di Aurisina sono state fatte senza sicura e, naturalmente, senza caschi. A parte qualche graffio e qualche bozzo sulla testa ce la siamo sempre cavata. Come ho detto poc’anzi la fortuna aiuta sempre gli audaci e gli incoscienti.
Con il passare del tempo il mio gruppetto di grottisti pian piano cominciò a fare acqua. Infatti, vuoi per un motivo, vuoi per un altro, la loro passione per la speleologia andava scemando. lo però, prima di appendere l’elmetto (che non possedevo ancora…) al chiodo, volevo a tutti i costi scendere nella Grotta Noè, 90 VG, ampia voragine con un pozzo iniziale di oltre sessanta metri e spauracchio di molti grottisti, in erba e non. Dato che non avevo sufficiente materiale speleo, un giorno mi decisi di interpellare qualche gruppo di grottisti triestini per chiedere loro in prestito un paio di spezzoni di scala e, ovviamente, una corda per la sicura. Per non tirarla tanto per le lunghe tediando i lettori, finii per approdare alla “Commissione Grotte Eugenio Boegan” (tanto, per quello che volevo chiedere, un gruppo valeva l’altro), la cui sede sociale in quegli anni era ancora ubicata i.n via Milano. Alla persona che mi venne àd aprire mi presentai ed esposi il mio problema. Mi ascoltò con attenzione e poi mi accompagnò nella saletta riservata agli speleologi e lì mi presentò ad un ragazzone di alta statura, molto gioviale e simpatico che mi piacque subito: era Marino Vianello. Anche a lui spiegai il motivo della mia visita, ma subito mi rispose che la società non poteva prestare materiali ai non soci. Ci rimasi male e lui, vedendo il mio disappunto, mi disse che la domenica successiva effettueranno, con un camion militare, una breve spedizione nelle Grotte di La Val, a Pradis: se volevo unirmi a loro sarei stato il benvenuto. Non sapevo dove si trovasse Pradis, né come erano fatte le grotte di La Val, ma accettai con entusiasmo.
Correva l’anno 1957, si era in novembre, ed era il giorno 21: la mia prima uscita con la “Commissione Grotte”. Esattamente 42 anni dopo, il 21 novembre 1999 mi bagnavo nelle acque del Timavo sul fondo della “Grotta Meravigliosa di Lazzaro Jerko”. Una coincidenza davvero incredibile. Se qualcuno, quarantadue anni prima mi avesse predetto gli awenimenti che ho vissuto gli avrei dato del visionario.
Sono invecchiato nella “CGEB”, senza rimpianti, senza ripensamenti. Un fatto in particolare mi inorgoglisce: la squadra speIeologica di cui facevo parte non era, per modo di dire, sottoposta ad altre componenti della Commissione più anziane, eravamo sempre noi sulla breccia. Questo è stato quando avevo vent’anni, indi trenta; figuriamoci poi se potevo avere squadre più anziane a quaranta, cinquanta e ora sessanta e passa anni. Il motivo è chiaro: negli anni cinquanta e sessanta erano molto rari gli speleologi militanti che superavano la trentina. Ho conosciuto soci e non che alla mia proposta di riprendere l’attività speleologica si mettevano a ridere chiedendomi se ero matto. Eppure erano persone sui trenta — quaranta anni al massimo, cioè in piena prestanza fisica e psichica. Logicamente rispettavo il loro punto di vista in quanto anch’io, quando avevo vent’anni mi stupivo enormemente nel vedere una persona di dieci anni più vecchia di me andare in grotta. Oggi, alla mia età, non mi stupisco di vedere speleologi di trenta, quaranta e cinquanta e passa anni scendere in grotta, bensì, a volte mi preoccupo per i giovanissimi che svolgono questa attività oltremodo pericolosa senza avere, in certi casi, una preparazione adeguata.
A proposito su quanto scritto sopra mi sovviene un episodio, sempre connesso all’età degli addetti all’attività speleologica. Negli anni 1958-1959 eravamo impegnati nell’ardua esplorazione dell’Abisso Silvio Polidori. Questa gelida cavità si apre a circa 1800 metri di quota nei calcari devoniani delle Alpi Carniche che si ergono a nord di Pontebba. Mi ricordo che per raggiungere il suo ingresso occorrevano parecchie ore di marcia trasportando a spalle oltre l’attrezzatura personale anche il materiale necessario per l’esplorazione: numerosi rotoli scale “pesanti” e “leggere”, più un cordone di canapa della lunghezza di metri duecento, pesantissimo. Tanto pesante che si è dovuto svolgerlo in modo che ogni uomo, oltre allo zaino stracarico, portasse sulle spalle pure un tratto di quella malefica fune. E questo camminando — anche di notte — tra dirupi e profondi precipizi. Inutile aggiungere che si arrivava alla meta stremati. Per ovviare a tale inconveniente il nostro esercito ci mise a disposizione, in occasione di altre due brevi spedizioni, una squadra di alpini con venti muli. Oggi tutto questo fa sorridere! Infatti, con le tecniche e le attrezzature moderne, tre speleologi affiatati potrebbero visitare in giornata la cavità utilizzando tre sacchi di corde e fettucce. Comunque il Polidori rimane sempre un abisso ostico, vuoi per l’abbondante circolazione di acque al suo interno, vuoi per la temperatura glaciale che vi regna sovrana. In quei tempi non esistevano tute impermeabili e sottotute in Pile, ma soprattutto non si aveva modo durante le fasi di armo di posizionare le scale fuori dagli scrosci d’acqua che, nel volgere di poche ore potevano diventare vere cascate se fuori si fosse messo a piovere. Ho ancora impresso nella mente come la violenza dell’acqua che cadeva nel P. 90 mi avesse, qualche metro sotto il suo inizio, strappato dalle scale. Ero assicurato con la famosa corda di 200 metri, che i ragazzi sul ripiano soprastante maneggiavano con destrezza: il mio cinturone da pompiere non cedette ed io potei felicemente emergere da quell’inferno liquido.
Durante le fasi del disarmo di una grotta, specialmente se la stessa è attrezzata con scale, per qualche intoppo si rimane fermi per tempi più o meno lunghi. Questi tempi di attesa al Polidori erano deleteri in quanto si rischiava veramente l’ipotermia. In uno di questi intervalli forzati Marino mi raggiunse a quota -40 e vedendomi ormai cianotico mi ingiunse di guadagnare immediatamente l’uscita. Fuori mi abbracciò un caldo sole estivo e, liberatomi all’istante dei miei stracci zuppi d’acqua gelida, mi esposi a lungo ai suoi benefici raggi, assorbendo nuovamente il calore disperso in tante ore di permanenza in grotta. Anche altri miei compagni si erano trovati nelle mie condizioni, per cui era d’uopo che uscissero all’aperto, rallentando però i lavori di recupero materiali. I ragazzi della squadra d’appoggio, anch’essi molto provati, nicchiavano e non se la sentivano di rientrare in grotta, con grande disappunto di Marino nelle eterne vesti di caposquadra. Fatto sta che per ultimare I disarmo il nostro presidente Carlo Finocchiaro è dovuto scendere nell’abisso sino a -30, con gravissimo disappunto di Marino Vianello. Per lui (ma non solamente per lui, anch’io la pensavo così) era allora assolutamente inconcepibile che una persona di quarantadue anni (sic!) dovesse scendere in grotta.
Oggi, che proseguo imperterrito l’attività speleologica e che potrei benissimo essere il padre di un quarantaduenne, direi a Marino — se questi non fosse tragicamente perito fra le nevi del Canin —che non io, allora ragazzo diciannovenne, dovevo essere di punta in quel logorante abisso in cui ho rischiato la vita (vedi Progressione 37, Bosco story), ma bensì tutti i quarantenni e cinquantenni che ci accompagnavano nelle spedizioni.
Sono sicuro che se il nostro caro Marino, mio compagno di tante avventure speleologiche, fosse ancora vivo, mi darebbe senz’altro ragione.
Bosco Natale Bone