Ruggero Calligaris – Trieste 08.11.1956 – Trieste 14.08.2015
Ruggero Calligaris nacque l’8 novembre del 1956 a Trieste, fin dalla prima adolescenza in seguito ad un’escursione in Carso guidata da Fabio Forti si interessa al Carso ed alla geologia, che sarà il suo interesse principale fino alla fine dei suoi giorni avvenuta il 14 agosto 2015.
Dopo gli studi presso il liceo scientifico Galileo Galilei di Trieste, dove si diploma nel 1976, si iscrive a Scienze Geologiche presso l’Università degli Studi di Trieste, nel frattempo si applica con passione alla divulgazione della geologia e alla conoscenza del Carso nelle scuole e molti dei suoi alunni, nel corso degli anni, proprio grazie alla sua passione si sono dedicati alla geologia. L’interesse per lo studio delle scienze geologiche è tale che, per approfondire alcuni aspetti, per alcuni anni tra il 1977 e il 1979 si imbarca sulle navi oceanografiche del CNR o partecipa a campagne del CNR per il rilevamento geofisico in Italia, di cui serberà sempre un grande ricordo.
Si laurea il 12 aprile del 1982 discutendo una tesi di laurea in paleontologia riguardante molluschi provenienti da quattro carotaggi prelevati lungo un allineamento a sud ovest dell’isola di Andikitira – Mediterraneo orientale con relatrice la prof.ssa Maria Luisa Zucchi Stolfa, e con due tesine di laurea in geologia stratigrafica, una sulla geologia della val di Braies avente per relatore il prof. Furio Ulcigrai, e la seconda tesina di laurea in paleobotanica sui resti vegetali in terreni ladinici della val di Braies con relatrice la prof. Camilla Pirini Radrizzani. Queste due vengono pubblicate sugli atti del Museo di Storia Naturale di Trieste e tradotte in tedesco a cura della Provincia di Bolzano; i reperti fossili esaminati, di cui alcuni furono nuove scoperte, sono stati donati al Museo delle Scienze di Bolzano nel 2007.
Nel 1983 tramite concorso ottiene l’abilitazione all’insegnamento per le materie scientifiche geologiche nelle scuole superiori.
Dal 1983 inizia la sua collaborazione con il Museo di Storia Naturale di Trieste, ideando e realizzando le sale di mineralogia e paleontologia nel 1984, poi seguite da numerose mostre frutto del riordino delle collezioni museali, partendo in ordine stratigrafico dai reperti più antichi. Tutti questi lavori portano alla pubblicazione di cataloghi delle mostre presso il Museo stesso ed anche all’estero, mentre altri lavori vennero pubblicati negli atti del Museo.
Fu direttore di varie campagne di scavi, grazie alle concessioni ministeriali fatte al Museo di Storia Naturale di Trieste, come ad esempio gli stambecchi dell’abisso Klondike nel 1987, i gasteropodi colorati di Zolla e Marcottini nel 1990 e 1991, la Grotta del Soldo 1991, quello del Dinosauro al Villaggio del Pescatore negli anni 1993 e 1995, i pesci fossili di Trebiciano nel 1993 e 1994 , l’Ursus spelaeus della cava di Sistiana sempre nel 1994, in Grotta Pocala di Aurisina dal 1998 al 2004, la cava Renice di Muggia 1999 e 2000.
Curò molto la divulgazione del Carso nei suoi diversi aspetti, dalla geologia, alle tradizioni popolari ed affiancava sempre lo studio dei luoghi, cercando di applicare sempre i sistemi più innovativi per poter scoprire e capire meglio il “perché” delle cose indagate.
Da queste ricerche sono scaturite anche tesi di laurea che ha sempre seguito personalmente, spronando gli studenti ad usare la “testa” andando anche “contro” quanto veniva loro insegnato, ed a ragionare per capire le cause di quanto ricercato o scoperto.
Negli anni tra 1998 e il 2000 oltre agli scavi eseguiti nella grotta Pocala ha portato avanti un progetto di ricerca, che è stato interrotto forse per i risultati raggiunti, al di fuori di quanto ufficialmente riconosciuto. Il progetto prevedeva la perforazione fatta all’interno di alcune grotte o nella zona degli ingressi di queste, finalizzato allo studio dei sedimenti di fondo per poter ricostruire l’evoluzione delle varie fasi che hanno interessato il riempimento di queste cavità o di alcune grotte residuali o solchi. Studio ideato e condotto assieme a Fabio e Fulvio Forti.
Dopo lo studio della grotta Pocala, di cui venne analizzata all’epoca solo la carota prelevata dalla perforazione esterna, discussa in una tesi di laurea da Antonella Tremul, la carota interna venne studiata solo recentemente da persone estranee al progetto; venne pure eseguita una serie di cinque carotaggi nel relitto di cavità o “Solco di Borgo Grotta Gigante” ed un parziale studio ed indagine su alcune carote. Lo studio che era stato pianificato nella grotta dell’Orso non venne mai eseguito.
Anche in questo caso oltre al tradizionale e ”innovativo” studio delle carote, per poter trovare il fondo originale delle grotte, capirne le serie di riempimenti, e quindi il mutare delle variazioni climatiche, furono applicati metodi innovativi come il paleomagnetismo, effettuato sulle carote della Pocala e del Solco di Borgo Grotta Gigante da Peter Prunner e Pavel Bosak dell’Accademia delle Scienze di Praga, la racemizzazione degli amminoacidi sui denti dell’orso della Pocala, fatto da Belluomini del CNR di Roma (oggetto di un’altra tesi di laurea).
Numerose sono state le pubblicazioni dei suoi studi e ricerche come pure la partecipazione a simposi e congressi in Italia e all’estero, e non meno numerose le conferenze tenute per gruppi, associazioni e enti.
Negli ultimi anni si era dedicato allo studio della storia del paese dove risiedeva (Borgo Grotta Gigante) e condusse pure delle ricerche sulle acque del Carso Classico finalizzato alla costruzione della ferrovia Meridionale (Vienna – Trieste), che lo portarono a fare più visite anche all’estero per la ricerca di documenti nei vari archivi.
La padronanza della lingua tedesca lo portò a tradurre in italiano la guida del Museo di Storia Naturale di Vienna. Fece il traduttore in simultanea durante varie conferenze tenute al Goethe Institut di Trieste e tradusse la pubblicazione sugli orsi delle Conturines, realizzata da Gernot Rabeder per il Museo dell’Ursus ladinicus di San Cassiano in Val Badia (Alto Adige).
La visione di una terra in espansione lo incuriosiva e per più volte tentò di recuperare materiali e di creare un libro sui pro e contro di questa teoria, ma questo lavoro è rimasto in fase embrionale. Era comunque convinto che la “tettonica a zolle” non spiegasse completamente la formazione e l’evoluzione della terra.
La didattica fu uno dei suoi punti principali e per questo ideò delle schede didattiche su vari argomenti, dalla formazione del Carso (Capitan Rudista), alle cave, alla produzione della calce, al Flysch, al Timavo, ed altre ancora in fase di studio.
Sempre per far meglio capire il Carso nel 1996 realizzò un primo sentiero didattico chiamato “Parco delle rocce”, un sentiero auto guidato da pannelli in 4 lingue presso il Centro Didattico Naturalistico di Basovizza, gestito dal Corpo Forestale della Regione FVG, per spiegare il Carso e i suoi fenomeni. Riteneva che vedere le rocce tutte raccolte in un luogo, ma spiegate singolarmente senza girare l’intero Carso facesse vedere le differenze nei vari ambienti di sedimentazione e che il tutto restasse più impresso anche visivamente.
Curò la realizzazione dei testi e di alcune fotografie per la guida Carso – Kras 2009
Si interessò al problema delle foibe ed allo studio della foiba di Basovizza, quale sondaggio esplorativo per la realizzazione di un eventuale miniera per l’estrazione di carbonfossile. Ideò, seguì e curò la realizzazione della riapertura della galleria antiaerea denominata “Kleine Berlin” costruita dalle truppe Tedesche dopo il 1943, lavoro fatto in collaborazione con il CAT che la gestisce tutt’ora.
Partecipò a numerose trasmissioni radiofoniche e televisive con argomenti inerenti il Carso e la geologia. Fu anche giornalista pubblicista dal 1988 e capo redattore della rivista in lingua tedesca “Adria & Mehr”.
Dopo la fine dei rapporti di lavoro con il Museo di Storia Naturale di Trieste, cui rimase fino al 2001, e di cui fu esperto conservatore, lavorò per la Cava Romana di Aurisina, la SAG come guida in Grotta Gigante, e negli ultimi anni collaborò con la grotta delle Torri di Slivia.
Le ricerche degli anni 2000 sul carbone del Carso e dell’ Istria con particolare riferimento all’ Arsia, portarono alla realizzazione della mostra “Le miniere del Carso Triestino”, nonché alla scoperta di un pozzo di sondaggio presso Basovizza; condusse pure un progetto Interreg per il recupero e la valorizzazione di carrelli di miniera provenienti da Tupliacco (HR), dalla fornace Zaccaria di Aurisina e in dono dal Parco Delle Grotte di San Canziano, alcuni di questi musealizzati sono visibili presso la strada che da Basovizza conduce al valico di Lipica.
Altro tema che sviluppò fu quello dello studio dell’orso delle caverne con la partecipazione a vari scavi anche all’estero, nonché alla partecipazione a vari simposi internazionali; organizzò presso il Centro civico di Opicina, il simposio sugli orsi delle caverne, e la mostra inerente agli scavi allora in corso nella grotta Pocala. (2001).
Una delle sue caratteristiche era di saper rendere comprensibile anche alle persone più semplici concetti complessi, di rendere partecipi delle ricerche le persone che lo volevano ed avvicinare anche semplici appassionati alla geologia; proprio grazie alla segnalazione di queste persone fu possibile recuperare i ricci fossili di Opicina in mostra permanente presso il Centro Civico di Opicina, o il recupero delle foglie nel Flysch nella cava Renice di Muggia. Per tutti era semplicemente Ruggero non il dott. Calligaris.
Si interessò anche di botanica, vincendo fin da giovane studente dei premi, di zoologia, di storia più o meno recente, di tradizioni e leggende legate al territorio, di letteratura partecipando al concorso Kugy di cui fu vincitore e quarto classificato in occasioni diverse; ottenne il secondo posto anche al concorso indetto in occasione del centenario dell’apertura al pubblico della Grotta Gigante. La fotografia fu uno degli interessi sempre presenti, e spesso le immagini dei suoi lavori erano da lui realizzate, anche se utilizzavano tecniche diverse come per esempio i disegni a china.
La speleologia fu uno degli argomenti che seguì, in relazione ai suoi studi sul Carsismo, e fu socio onorario di molti gruppi presenti sul territorio.
Il suo grande amore per il Carso si può riassumere nella frase “Ho tanto amato il Carso e a lui ritorno”.
Antonella Tremul
ELOGIO A RUGGERO CALLIGARIS, STUDIOSO DEL CARSO
Sono stato invitato a scrivere su Ruggero Calligaris, dapprima con un necrologio, ma non sentendomi all’altezza giacché non sufficientemente edotto sul dettaglio dell’attività professionale e in ambito speleologico del Nostro (peraltro già ben esposta da Diego Masiello e Franco Gherlizza sulla rivista “Cronache ipogee”) optai verso un per me più semplice, suo ricordo, che, nella riflessione che seguì, decisi poteva solo esser fondato su un intimismo inserito in alcuni episodi, forse cruciali, della sua vita, questi sì riguardanti la sua formazione culturale, la sua etica e i suoi meriti nella ricerca a favore della conoscenza – in senso ampio – del Carso.
Ecco la ragione per cui il titolo porta “Elogio” ed ecco perché, essendo la sua attività scientifica e di divulgazione sicuramente rivolta alla conoscenza geologica del Carso, la specifica che segue è “studioso del Carso”.
Detto ciò, una sintesi del suo impegno – che però non comprende per intero la sua multiforme attività – debbo pur darla.
Ruggero Calligaris nel 1982 si era laureato in Geologia all’Università di Trieste, nel 1983 abilitato all’insegnamento di scienze naturali, geografia e chimica nelle scuole superiori e professore iscritto quale insegnante di scuola media. Operò come perito ed esperto su materiali paleontologici per conto della Dogana, della locale Soprintendenza BAAAS, del Tribunale, dell’Osservatorio Geofisico Sperimentale, ma soprattutto per il Museo di Storia Naturale triestino. Fra i suoi interessi scientifici, oltre alla paleontologia, ci furono miniere di carbone, Flysch triestino, stagni e cisterne carsiche, grotte. Ottimo divulgatore, s’impegnò moltissimo in tale attività, anche come curatore di mostre e convegni, oltre che come accompagnatore e guida, spaziando pure nella speleologia in cavità artificiali, tanto – grazie a lui – da far valorizzare i sotterranei della “Kleine Berlin” a Trieste, a favore del Club Alpinistico Triestino, divenuti (assieme allo Speleovivarium e al Museo della Grotta Gigante) uno dei poli museali della speleologia triestina.
Senza dubbio, la formazione del geologo Ruggero Calligaris fu rivolta principalmente alla paleontologia. Fu la mammalofauna quaternaria che, soprattutto, lo interessò. Dall’ambiente speleologico locale, da più parti e più volte gli furono chiesti pareri e interventi, anche su problemi al di fuori di quel Carso che lo occupò precipuamente. Cosa che fece, disinteressatamente, impegnandosi in classificazioni e ricostruzioni paleontologico-ambientali, come nel caso dei fossili di stambecco ritrovati in un abisso della Catena Carnica durante le esplorazioni del Gruppo Triestino Speleologi. Rimase però il Carso, il suo ambito geografico preferito, in particolare dopo il suo ingresso come collaboratore esterno e poi nel ruolo di conservatore al Civico Museo di Storia Naturale di Trieste. Qui, il suo ufficio si trasformò in un porto di mare ove fecero capo innumerevoli studenti, appassionati, studiosi e amici. Posso dire, per aver visto, come il suo lavoro fosse a volte frenetico, proteso a cogliere e – attenzione – a far cogliere, il risultato scientifico di prestigio. È ben documentata la sua attività di studio nella Grotta Pocala (Carso) con una nuova campagna di scavi nell’area delle vecchie trincee, anteguerra, del Battaglia. E di come, in questa cavità, coinvolse l’Università di Vienna nelle ricerche sui reperti osteolo-gici, pervenendo, in particolare, a moderni e originali risultati nello studio delle dentature degli Ursus spelaeus giovani; qui il 7th International Cave Bear Symposium, organizzato nel 2001 a Trieste proprio da Ruggero Calligaris fa testo. Sempre nella Pocala ebbe l’idea, originale, di investigare il potente deposito della sala finale, sino a raggiungere il bottom e inoltrarsi, per la certezza, nella roccia di fondo, mediante una perforazione a carotaggio continuo che, partendo da una poligonale topografica strumentale interno/esterno, oltrepassasse la roccia di superficie, sbucasse dalla volta della grotta, si attestasse sul suolo ipogeo e iniziasse a sondare il sottosuolo. Ricordo, il Museo, per la specificità della mia azienda, mi commissionò il lavoro. Che portai a compimento nel migliore dei modi. Momenti importanti furono allorquando lo scalpello montato sulla testa della batteria di aste di perforazione sbrecciò in un turbinio di polvere (me lo dissero, giacché io non ero presente) la volta calcarea della grande sala e, innestando aste su aste, superato il vuoto si posò poi sulle argille per iniziare il carotaggio continuo del deposito di riempimento sostituendolo col carotiere. Il deposito – come si appurò – aveva una potenza di quasi una ventina di metri, con molti livelli sedimentari e concrezionali, fino a quello inferiore (ricordo, fresco, nelle cassette catalogatrici, di color quasi bluastro) dove alloggiavano resti di alluvioni arenacee. Con l’occasione, interessato personalmente affinché Ruggero potesse produrre risultati, di là delle indagini mineralogiche che egli fece eseguire presso l’Università di Trieste, donai il mio laboratorio di sedimentologia, ormai in disuso, che installato nel silenzio degli spazi degli scantinati del museo fece risentire la voce della pila di setacci nel vibrovaglio durante la separazione meccanica per le granulometrie. Poi Ruggero fece perforare un altro deposito di grotta, in una cavità superficiale, nei pressi di Borgo Grotta Gigante, con gli stessi intenti.
Ruggero, che conosceva i propri limiti, se per gli orsi si avvalse della partecipazione degli specialisti dell’Università di Vienna, per la serie stratigrafica della cavità di Borgo Grotta Gigante si avvalse dell’Università di Praga per le analisi paleomagnetiche. Egli, cercava sempre il meglio, senza curarsi della mediocrità locale (qualora, con la sua capacità di giudizio, lo ravvisasse), pronta sempre a ricevere e mai a dare, autoreferenziale con uno schermo di accademismo: atteggiamento questo – o meglio scelta – che gli procurò risentimenti. Un ambiente che trovò Ruggero insopportabile e che – come lui mi confidò – lo osteggiò.
Ricordo bene, quando Ruggero perse il lavoro. Per quella solidarietà che mai deve mancare, lo invitai nel mio ufficio (allora in Area di Ricerca), dove ebbi modo di offrirgli l’incarico di capo del laboratorio di geochimica isotopica per le sue spiccate qualità organizzative, precisandogli che in azienda sarebbe stato ben aiutato nella sua formazione, comprendente perlopiù una gestione tecnico-amministrativa e del sistema di qualità. Ruggero, pur avendo grande bisogno di un impiego, mi rispose, dopo aver un giorno intero meditato, ringraziandomi, ma di non sentirsi all’altezza, così declinando. Quando pochissimo tempo fa narrai l’episodio all’amico Corazzi, egli mi disse: “…trovami un altro che avrebbe fatto così!” Ebbene, questa è la risposta su chi fosse Ruggero Calligaris.
Ruggero Calligaris fu uno studioso atipico, conscio di non essere uno specialista di un determinato settore, di una branca particolare, bensì vocato – forse per la sua natura – a essere un generalista, però assai capace di far produrre la gente e ricco d’idee, che mise a frutto tali sue qualità con risultati che dir apprezzabili è poco. In fin dei conti, la migliore e più completa serie stratigrafica di una grotta del Carso (e importantissima!), è opera sua, poiché ciò si deve alla sua iniziativa e al suo ingegno. E, se poi altri hanno lavorato su quegli strategici carotaggi, e giustamente colto risultati scientifici grazie alla loro capacità, nulla toglie al suo merito di aver progettato, organizzato e realizzato il lavoro. Talvolta, però, ci si dimentica. Non si scrive. Si oblia.
Di Ruggero Calligaris – del Ruggero degli “anni buoni” che ricordo – mi rimane il suo sincero entusiasmo, la sua propensione ad aiutare il prossimo, il suo ordinato affaccendarsi in modo apparentemente convulso, caotico, riuscendo a districare e portare avanti incombenze e progetti diversi nello stesso tempo, senza sforzo alcuno. E poi la sua concretezza, unita a una buona dose della vecchia e mai fuori moda praticità e manualità, che lo distinse dalla moltitudine, ormai capace solo di dedicarsi allo specifico e intimorita a oltrepassarlo.
Fu un amico, sostanzialmente un uomo buono e impegnato, tra quei naturalisti un po’ vecchio stampo che ancora oggi si trovano nella società triestina – forse per una tradizione ottocentesca che da noi stenta a morire credo perché città di gente troppo legata al passato – che, prima negli affanni quotidiani degli ultimi anni e nella malattia poi, pagò un conto salato per la vita che aveva scelto. Ciò, almeno ai miei occhi, indipendentemente dagli intrinseci meriti, lo innalza. Anche se in questi ultimi anni mai lo rividi, il suo ricordo sempre mi seguiva e mi è caro. Seppi, appena dopo il funerale, di come non fosse più tra noi. Così, in solitario omaggio, un paio di settimane fa, mi recai a portargli un fiore, là, sul suo Carso, dov’è sepolto, con la catena del Lanaro che fa da sfondo tanto è vicina.
Riposi in pace.
Rino Semeraro