Ursus spelaeus ladinicus

 

L’URSUS SPELAEUS LADINICUS IN UNA GROTTA DELLE DOLOMITI

Foto n.1 – Panoramica versante SE con posizione della grotta della Conturines (foto F. Forti)

Premessa
Nell’area dolomitica dell’Alta Badia (Parco Naturale Fanes – Sennes – Braies) nei pressi del Piz dles Conturines (3064 m), alla base della parete sovrastante la conca valliva fortemente detritica posta sul suo versante orientale, alla quota di poco inferiore ai 2800 metri, c’è il relitto di una cavità a galleria, dove si sono trovate ossa di almeno qualche centinaio di Ursus spelaeus ladinicus –Pleistocene. Presenze queste assolutamente incompatibili con la supposta esistenza di “periodi glaciali”. Quindi, se le condizioni climatiche supposte per il Pleistocene sono diverse, ad esempio diluviali anziché glaciali, altro deve essere anche il risultato relativo allo studio delle morfologie carsiche ivi presenti. (foto 1)
Onde chiarire detto pensiero o proposta di studio, analizziamo brevemente ciò che la scienza ufficiale ci elargisce da circa duecento anni in merito ai periodi glaciali, che avrebbero condizionato e caratterizzato la vita sul nostro pianeta nella così detta Era Neozoica, per altri Era Quaternaria. Considerato che tale “mini era” definita “fredda”, essendo stata caratterizzata dai… periodi glaciali che avrebbero però avuto numerose intercalazioni “calde” chiamate con semplicità interglaciali, ci permettiamo di ritenere che tali alternanze, non rappresentino altro, che una semplice parziale proposta, per non abbandonare una realtà completamente diversa: diluviale anziché glaciale. È noto che le ricerche scientifiche, partendo dal concetto propositivo, perché nella realtà non si tratta d’altro, di vari Autori che si sono occupati della materia glaciale, avrebbero portato a tale scelta seguendo le proposte di Penk e Bruckner, che hanno elencato tali glaciazioni con i nomi: Gunz, Mindel, Riss e Wurm, suddivise a loro volta, almeno da altrettanti periodi interglaciali. Ma tale proposta si basava soprattutto sulla famosa Curva di Milankovic, coronata in seguito anche da dubbi o al massimo da semplici precisazioni che nella realtà erano però volte solo a confermare l’esistenza di tali particolari periodi.

Foto n. 2 Sezione della galleria impostata nell’interstrato (foto F. Forti)
Foto n. 3 Imbocco della grotta (foto F. Forti)

Eppure già dagli inizi degli studi carsici, specie se rivolti alla tipologia dei contenuti dei depositi di riempimento delle grotte o cavità, sempre ricchi di faune pleistoceniche, c’era il dubbio: per fare un semplice esempio, L. Laureti (2013) ci ricorda che ancora nel 1823 veniva pubblicato a Londra l’opera dal titolo: Reliquiae diluviante or, observations on the organic remains contained in caves, fissures, and diluvial gravel, etc. La domanda che dobbiamo farci è come mai proprio negli anni in cui veniva concepito il concetto “glaciale” (1815 – 1830), c’era qualcuno che partendo dallo studio delle grotte, vedeva o riteneva tale periodo climatico pleistocenico in maniera completamente diversa.
Passarono molti anni prima che un semplice studioso di carsismo, F. Forti, in una sequenza di lavori tra il 1974 ed il 2009, sommessamente ricordasse che tutti gli elementi conoscitivi sui depositi di riempimento, non presentano alcun riferimento a periodi glaciali, ma decisamente e solamente delle evidentissime tracce di lunghi ed articolati eventi diluviali, anche piuttosto caldi. Veniva inoltre accertato, sempre dallo studio sulle grotte, che il “freddo” è arrivato solo nel corso dell’attuale Olocene.

Foto n. 5 – Campanile di Val Montanaia (foto F. Forti)
Foto n.4 – Evidenze della dissoluzione sui banchi di concrezione calcitica (foto F. Forti)

 

 

 

 

 

 

 

 

D’altra parte, in tutti gli scavi archeologici e paleontologici delle grotte a galleria del Carso triestino, gli studiosi che eseguirono dette ricerche, ad esempio il Marchesetti ed il Battaglia, hanno sempre ricordato che i “reperti” erano inglobati in terre ed argille chiaramente derivanti da enormi eventi alluvionali pleistocenici.
* * *
Passiamo ora all’analisi del sistema roccioso di appartenenza della regione do­lomitica in cui si trova il Piz dles Conturines.
Siamo in presenza della Dolomia Principale (Hauptdolomit) del Triassico superiore. Si tratta di sedimenti depositatisi, secondo A. Bosellini (1989), dall’inizio del Norico in ambiente di piana tidale, costituita da una imponente successione di dolomie, con la continua presenza di grossi molluschi la-mellibranchi, i megalodonti. Strati questi che risultano alternati da tappeti di alghe verdi cianoficee, che andavano poi a costituire delle fitte successioni di lamine stromato-litiche, da raffrontare ad un suolo calcareo indurito. La potenza di tale complesso roccioso, sempre fittamente stratificato è stimabile in quasi 1000 metri. Soprastante a questo, in continuità stratigrafica (ma attualmente non più presente in loco), vi è stata la sedimentazione del Calcare di Dachstein del Retico, che si estende poi fino all’inizio del Giurassico. Tali calcari sono stati ricordati, perché con tutta probabilità all’epoca dell’orogenesi oligocenico – miocenica, dovevano sovrastare la Dolomia norica e subivano evidentemente un incarsimento e la conseguente consumazione dissolutiva, che nel corso dei milioni di anni trascorsi sino al presente, ne ha causato la quasi totale scomparsa. Non è escluso però che questo antico incarsimento, abbia prodotto dei sistemi di gallerie paleo fluviali, che abbiano poi continuato a svolgere il loro corso nel complesso dolomitico sottostante, in condizioni nettamente da interstrato, come si osserva nel così detto relitto di cavità, rappresentato dalla attuale grotta delle Conturines. (foto 2)
Il suo ingresso costituisce dunque la traccia residua, della continuazione verso lo “spazio” esterno, dei banchi dolomitici, scomparsi per dissoluzione – erosione diluviale continuata, nel corso dei milioni di anni trascorsi nel periodo post orogenetico, fino al presente. (foto 3)

Da una relazione di Gernot Rabeder et alii, dell’Università di Vienna, tradotta in italiano dal geologo Ruggero Calligaris, apprendiamo che certo Willy Costamoling di Corvara (A) nel 1987 “scopriva” detta cavità, dove all’interno giaceva da tempo immemorabile un intatto e ricchissimo sito paleontologico ad Ursus spelaeus,… oltre alla presenza di due giovani leoni. Gli scavi “scientifici” si protrassero dal 1988 fino al 2001 e furono eseguiti da una équipe diretta appunto dal dott. Gernot Rabeder. La definizione generica che è stata data con estrema leggerezza a tale importante sito, come appartenente al – periodo glaciale – è tutta da dimostrare. Anche agli esperti pale­ontologi, pareva strano che delle centinaia di orsi delle caverne, e per di più anche erbivori, fossero andati a vivere in una grotta, sulla cima di una montagna dolomitica, dove secondo loro, tale – sito – avrebbe dovuto essere completamente coperto dall’enorme calotta glaciale che sovrastava l’intera ca­tena alpina. Quindi, in base alla datazione di tali resti scheletrici, di età compresa tra i 50 mila ed i 35 mila anni, testualmente si afferma che ci fu in quel lontano tempo: un periodo caldo sulle Alpi,… Interessante, se non del tutto essenziale, la grotta o meglio quel relitto di cavità a galleria di indubbia origine paleo fluviale, sicuramente databile… almeno al Miocene, si presenta ancora oggi ricca di un concrezionamento calcitico posto sia lungo le pareti che sul fondo della cavità stessa e si deve essere sviluppato nel corso di un lungo periodo climatico completamente diverso rispetto a quello presunto, avente una conclamata caratteristica “glaciale”. A confermare tale considerazione, viene (da loro) precisato che: il pavimento della grotta è coperto da incrostazioni finemente stratificate che secondo le misurazioni (serie Uranio – Torio) fu depositata in un periodo di 600 mila anni…. Secondo il parere di chi affronta gli studi di “geomorfologia carsica”, in particolare di quella ipogea, si tratta di una normale deposizione di potenti banchi di concrezione calcitica. Tale situazione deposizionaria è largamente presente in tutte le grotte del tipo a galleria ed è as­solutamente impossibile che questi banchi calcitici fittamente stratificati, abbiano avuto origine in un qualsiasi periodo glaciale, quindi – almeno – nel corso degli ultimi 600 mila anni si è avuto un periodo caldo umido molto piovoso, sicuramente di assoluta caratteristica diluviale. Il così detto – periodo glaciale – che da due secoli di studi sulla geologia del nostro pianeta, imperversa in tutti gli insegnamenti, non è mai esistito. Il famoso raffreddamento nella realtà climato-logica generale si è infatti verificato appena nell’Olocene, in pratica come ricordato, nel corso degli ultimi 12 mila anni.

A conferma di quanto sopra, nella Grotta delle Conturines, attualmente lo stillicidio inesorabilmente tende a consumare tali banchi concrezionari (foto 4), poiché il gas chiamato anidride carbonica è fortemente solubile nelle acque fredde, quindi sono (ora) maggiormente aggressive per solubilità chimica delle rocce carbonatiche calcaree e dolomitiche e conseguentemente anche dei potenti depositi calcitici (allora) prodotti dalle acque di circolazione interna alla cavità, assieme a quelle provenienti dallo stillicidio con la conseguente formazione delle stalattiti e stalagmiti. Così, tutti i concrezionamenti calcitici presenti nelle grotte sono avvenuti e continuano attualmente, sebbene diminuiti di intensità e con notevoli differenze cromatiche, rispetto ai periodi temperati o caldo umidi intensamente piovosi, che secondo il nostro modesto punto di vista, hanno caratterizzato tutto il Pleistocene.
Ci permettiamo di aggiungere che lo stes­so nome della montagna dove si trova tale importante cavità fossilifera, ossia Piz des Conturines, deriva dal ladino: “con turrines” = con le torri. Infatti la parete Sud di questa imponente montagna appare articolata con numerosi pinnacoli di roccia. Del resto in tutta l’area dolomitica, torri, torrioni, pinna­coli, sono delle morfologie molto comuni e tutte derivate esclusivamente da eventi piovosi, dissolutivo – erosivi, protrattisi per milioni d’anni. Sono questi dei tipici esempi di erosione selettiva attuati da una intensa piovosità condizionati dalla litologia delle singole località. L’esempio più classico si trova nelle così dette “Dolomiti Friulane” (Prealpi Carniche), con una struttura chiamata -Campanile di Val Montanaia – avente un’altezza che supera i trecento metri (foto 5). La domanda che dobbiamo farci, se mai fosse esistita un’era glaciale che avrebbe coperto tutte le nostre Alpi con una coltre compatta di ghiaccio che, secondo certi Autori, T. Taramelli (1870) in testa a tutti, citato nel lavoro di B. Martinis (1993), sul -ghiacciaio del Tagliamento – avrebbe dovuto avere uno spessore di 700 metri ed una sua estensione verso la pianura di ben 80 km., come mai un “ghiacciaio” in presenza di una tale imponente torre rocciosa, un tempo misteriosamente formatasi, non l’abbia abbattuta… per semplice “spinta”? Ci è difficile credere che tali torrioni si siano formati nell’arco degli ultimi 12 mila anni, geologicamente parlando l’altro ieri, in un periodo in cui, per almeno 6 mesi all’anno, si verificano precipitazioni nevose, a differenza del lungo periodo piovoso necessario per la formazione della torre o campanile.
Nei suddetti studi inoltre si afferma che -in pianura – (non si sa come) un ghiacciaio sarebbe anche riuscito ad avanzare per 80 km, portando sulla groppa i così detti massi erratici. A proposito di massi che si trovano sul fondo delle valli alpine, osservando con attenzione, si può affermare che provengono dalle varie nicchie di distacco presenti sulle pareti delle nostre montagne. Ma non sempre tali frane rocciose da distacco rimangono alla base delle pareti; nei grandi diluviali pleistocenici l’enorme forza delle masse idriche scorrenti nelle valli, che tra l’altro le stavano anche dinamicamente scavando, sono riuscite a far rotolare sui materassi alluvionali massi rocciosi anche molto lontano dallo sbocco delle valli nelle contermini pianure alluvionali.
A fare testo di quanto sopra esposto, nel corso di questi ultimi vent’anni, quante volte si è dovuto constatare che gli enormi trasporti solidi di fiumi in piena riescono, in un unico evento piovoso (le così dette bombe d’acqua con i loro 400 – 600 mm di pioggia o più, in 1 o 2 giornate), a cambiare intere geografie di valli o pianure? I risultati sono davvero impressionanti!
Altra considerazione, attualmente i ghiacciai si stanno rapidamente ritirando, ma nella realtà dei fatti, cosa si osserva come – tracce – lasciate dalla loro presenza? Solo delle deboli striature. (B)
Nella pubblicazione citata sulla Grotta delle Conturines, viene fatto osservare, con eloquenti immagini dei suoi dintorni, che un immane e continuo ghiaione, quasi privo di qualsiasi tipo di vegetazione, fatta eccezione per alcune specie rupicole, oggi occupa tutta l’area, e di conseguenza gli orsi erbivori anche quelli di allora di cosa si sarebbero potuti nutrire?

Foto n.6 – Particolare del deposito di ossa sparse (foto F. Forti)

Quando il suo scopritore raggiunse la parte più interna delle cavità, trovò ossa e crani sparsi un po’ dappertutto. Facciamo cortesemente osservare che i resti ossei degli orsi presenti all’interno della Grotta delle Conturines erano sparpagliati ed anche ammucchiati e non sono stati trovati degli scheletri interi. Ciò significa che le ossa sono state movimentate da correnti idriche prove­nienti dai piani superiori della cavità e quindi accumulate nella parte della caverna che si presenta semi pianeggiante. Per chiarire il tutto, si sarebbero dovute risalire le parti a camino poste nella parte sommitale della caverna dove sono state rinvenute le ossa, che, tra l’altro dista poche decine di metri dall’uscita sul soprastante altopiano, posto sotto la cima Conturines ad una quota di circa 2900 m. (foto 6-7)
Viene inoltre riportato, che tali reperti fossili: erano parzialmente o completamente ricoperti di sabbia o incrostazioni. Sarebbe molto interessante ma soprattutto importante conoscere, quale sabbia: quarzosa od altro? Si vorrebbe cioè conoscere qualcosa di più, relativamente al tipo di trasporto che ha subito e soprattutto la sua genesi o meglio origine, forse anche lontana, nello spazio-tempo dell’esistenza della Grotta delle Conturines! Seconda osservazione: ciò che viene definito “incrostazioni” non è altro che una cementazione calcitica avvenuta anche questa in un periodo caldo e molto umido (piovoso all’esterno). Attualmente, con il “freddo” olocenico, rispetto al “caldo” plei­stocenico, anche questa cementazione può ripassare in soluzione. (foto 8-9)
Con gli scavi “scientifici” operati dall’U­niversità di Vienna, è stato appurato che si trattava di Ursus spelaeus, conosciuto con questo nome già dal 1794 ed appartenente ad una specie diversa, rispetto all’attuale orso bruno, che dal 1758 era stato chiamato Ursus arctos. Ma per due secoli, si era ritenuto che fosse esistita una sola specie di Ursus spelaeus. Fu proprio Gernot Rabeder che nel corso di scavi in grotte del Totes Gebirge (Ramesch- Knochenhoehle) rinvenne i resti ossei di un orso delle caverne di piccole dimensioni, mentre un un’altra grotta posta a delle quote inferiori (Gamssulzenhoehle), sarebbe vissuto un orso molto più grande, più massiccio e più evoluto. Si trattava allora di due gruppi diversi che avevano comunque convissuto negli stessi luoghi ma risulta anche che non si fossero mai accoppiati. Tutto ciò è stato in seguito confermato dalle analisi sul DNA dei fossili. È così risultato che gli orsi, definiamoli alto alpini, (di Ramesch) si distinguono da quelli delle caverne della Germania, Francia ed anche da quelli larga­mente presenti sul Carso triestino. Ma l’orso delle Conturines è ancora diverso sia rispetto agli orsi delle caverne poste alle basse quo­te, che a quelli alto alpini e si mostra più evoluto di quello di Ramesch. Concludendo, secondo il pensiero di Gernot Rabeder, nel linguaggio chiamiamolo biologico, sono esistiti degli Ursus spelaeus spelaeus, cioè l’orso delle caverne “tipico” e Ursus spelaeus eremus, l’orso di Ramesch e del Carso triestino, mentre l’orso delle Conturines è stato battezzato Ursus spelaeus ladinicus.
Sarebbe così apparso che l’orso ladinico era un tempo piuttosto diffuso su tutte le Alpi ed è stato trovato – finora – nel Totes Gebirge, nel Raeticon e almeno un paren­te prossimo nel Vercors (Prealpi presso Grenoble). Ma il centro di origine è ancora poco noto, come del resto anche la data­zione della sua espansione nel complesso della regione alto – alpina.

Foto n.7 – Crani di Ursus spelaeus ladinicus (foto F. Forti)
Foto n.9 – Colata calcitica ormai da tempo inattiva (Olocene) (foto F. Forti)
Foto n.8 – Evidenze di dissoluzioni parietali legate all’attuale climatologia “fredda” (foto F. Forti)

A proposito del problema – ambientale – dell’Ursus spelaeus, in particolare della sua dentatura, appare con estrema evidenza che prima di 100 mila anni fa, i suoi molari erano ancora a cuspide, mentre dagli 80 – 70 mila anni in giù, avvenne una progressiva sparizione delle cuspidi, con un’evidente passaggio ad una dentatura più da orso erbivoro, con l’agenesia della dentatura premolare. Ciò si è verificato in un periodo di progressiva e costante presenza di climi caldi piovosi con una vegetazione sempre più invadente in ogni luogo, con un limite vegetazionale che doveva superare i 3000 – 3500 m, tale da provocare una migrazione degli orsi, a quote sempre più elevate e ad un loro lento passaggio da carnivori ad erbivori. La causa è evidentemente condizionata da una generale e continua variazione climatica, che portò come principale conseguenza ad avere delle pianure costantemente allagate, causa una forte presenza di precipitazioni piovose (di tipo diluviale) con enormi apporti ciottoloso-detritici e terroso-argillosi, che si sedimentavano allo sbocco dei grandi sistemi vallivi provenienti dalle Alpi.
È altresì noto che nei testi di paleontolo gia si attribuisce il ritrovamento di orsi delle caverne sempre collegato al periodo glaciale, fatto questo che va completamente in antitesi con l’idea di un orso vegetariano. È ormai certo che nello stesso periodo, il ritrovamento di ippopotami nel Tamigi o nelle piane russe, dimostra con estrema evidenza, che il clima doveva essere più caldo con una tipologia subtropicale anche alle nostre latitudini. È quindi evidente che l’orso delle caverne doveva essersi particolarmente sviluppato in una fase climatica molto temperata, di­versamente da quanto viene invece sempre indicato, e cioè un lungo periodo glaciale, altrimenti come avrebbe potuto diventare erbivoro a delle quote di quasi 3.000 metri?
Resta però indubbio anche l’interesse per il ritrovamento di due mandibole dei tipici predatori, ossia di giovani leoni delle caverne. È quindi inequivocabile, che nel pieno dell'”era glaciale” (sic) la Grotta delle Conturines risulta essere il sito di rinvenimen­to alla maggiore quota (finora), non solo per l’orso delle caverne ma anche per il leone! È noto da lungo tempo, che sul Carso triestino tale predatore è stato rinvenuto in quasi tutti gli scavi che si riferiscono agli “strati ad Ursus spelaeus”. A questo proposito va ricordato che nella cavità più celebre sul Carso triestino, per i resti ossei dell’orso delle caverne, ossia la Caverna Pocala di Aurisina, dopo gli scavi del Battaglia degli anni 1926 e 1929, a partire dal 1999 Ruggero Calligaris, allora del Civico Museo di Storia Naturale di Trieste, fece riprendere tali scavi nei siti lasciati alquanto sconvolti dopo 70 anni di abusivismi. Tolto tutto il materiale di risulta degli scavi precedenti, si raggiunse il livello ad Ursus ed immediatamente sottostante apparvero numerose ossa di leone delle ca­verne (Felis leo spelaea) che si presentavano inglobate in suoli terroso – argillosi rossastri, di indubbia provenienza idrica da scorrimento piuttosto energico, paragonabile come in­tensità ad un vero trasporto di tipo fluviale. Coloro che intraprendevano detto scavo, si meravigliavano di tanta energia di trasporto idrico, evidentemente di tipo “diluviale” che caratterizzava tale deposito osseo (C).Non vi è alcun dubbio sull’identità del raffronto (orsi erbivori prede di leoni) tra la Pocala e la Grotta sulle Conturines. Si tratta di situazioni protrattesi per centinaia di migliaia di anni, in una situazione clima-tologica costante e non episodica avvenuta in tutto il corso del Pleistocene. Per quanto riguarda gli orsi delle Conturines, ne fanno testo l’enorme quantità di ossa di tutte le età e soprattutto di denti, in particolare per quelli – di latte – ivi rinvenuti, che starebbero a dimostrare che la grotta veniva usata dagli orsi durante il corso della loro vita. Tutto ciò significherebbe che, secondo il Rabeder et alii, gli orsi delle caverne potevano vivere solo in una ambientazione in cui vi fosse ricca disponibilità di nutrimento, quindi ag­giungiamo noi, con uno zero termico di ben superiore ai 4000 m. Secondo G. Rabeder, dalla datazione della loro presenza sulle Conturines in un periodo compreso tra i 50 mila ed i 35 mila anni, è stata formulata l’ipotesi che: ci fu un episodio caldo, in cui sulle Alpi non vi erano ghiacciai, che venne chiamata “fase calda del Ramesch, in base agli scavi nella Ramesch-Knochenhoehle. È un vero peccato che non si siano accorti che i 600 mila anni da loro stessi segnalati per l’età (continua) dei banchi di concrezio­ne calcitica, non si potevano collegare nel modo più assoluto, con qualsiasi periodo glaciale.
* * *
Quale considerazione conclusiva faccia­mo cortesemente osservare che si è sempre parlato che i ghiacci pleistocenici abbiano scavato ed inciso le valli alpine. Ora tale affermazione andrebbe contro ogni principio fisico. Una massa di – acqua – ghiacciata ha delle caratteristiche fisiche che non gli permetterebbero mai e poi mai di scavare la roccia. Il ghiaccio ha un peso specifico di 0,5-0,9 ton/metro cubo, quindi di molto inferiore alla roccia che presenta densità di 2,3-2,6 ton/metro cubo, una resistenza meccanica alla compressione di gran lunga inferiore alla roccia, quindi considerando una massa di ghiaccio compatto del valore di 400-600 kg/cmq, contro quella di una roccia che varia da un minimo di 600 kg/ cmq ad un massimo di oltre 2000 kg/cmq; inoltre presentando il ghiaccio dei gradi di durezza nettamente inferiori a quelli della roccia, è un po’ difficile comprendere co­me possa scavare delle rocce per formare delle valli!
Va poi ricordato che nel suo lento movi­mento, i più veloci ghiacciai si spostano di poche decine di metri all’anno; il ghiaccio ingloba materiale detritico posto sul fondo delle valli e queste pietre, strisciando, pos­sono solamente creare delle abrasioni e striature sulle rocce delle valli stesse, feno­meno questo che in un periodo di continui ritiri dei ghiacciai alpini è molto ben visibile nelle zone dove si appoggiavano i ghiacciai.
In conclusione, è praticamente impos­sibile ammettere che i ghiacciai riescano a scavare per centinaia e centinaia di metri in profondità qualsiasi tipo di roccia e creare quindi delle valli alpine. Se prendiamo invece in considerazione la dinamica dell’acqua scorrente, con il suo moto turbolento, è evi­dente che riesce a trascinare grandi masse di materiali: blocchi, sassi, ghiaie, ed infine anche enormi quantità di sabbie, limi, ecc. che, tutti insieme, riescono ad incidere in modo erosivo (meccanico – fisico) anche le rocce più dure, in maniera determinante agli effetti morfologici. Di non minore impor­tanza è la dissoluzione chimica delle rocce carbonatiche che imprime una ulteriore ac­celerazione ai processi di scavo (D).
* * * (A) Va ricordato che il Costamoling in realtà era alla ricerca soprattutto di minerali, contenuti nelle grotte ed in particolare con­tava di trovare delle caratteristiche formazioni di sabbia consolidata chiamate “Bambole di Travenanzes” (val Travenanzes, posta tra le cime del Lagazuoi – Fanes e quelle delle Tofane). Curioso è il fatto che in Istria e sul Carso triestino, tali sabbie cementate sono conosciute invece con il termine di “bam­bole di saldame”. Il saldame è una sabbia quarzosa, di cui citiamo due dei principali Autori che si interessarono della sua genesi: L. Waagen (1915) e C. D’Ambrosi (1943).

(B) A proposito del tema riguardante l’inesistenza dei periodi glaciali,  per chi volesse avere un parere indubbiamente più autorevole, rispetto a quello di un “semplice carsista”, provate a prendere contatti con la Facoltà di Geografia dell’Università di Mosca (Russia), dove sono giunti alla conclusione che è molto più facile accettare il concetto di un “Diluviale” rispetto ad un “Glaciale”.

(C) Del  resto come ci  racconta  R. Calligaris (1999), lo stesso Battaglia a que­ sto proposito ci ha voluto trasmettere tale dubbio, ma con la conseguente secondo lui, doverosa giustificazione:… la provenienza delle acque che invasero la caverna e quella dei materiali di trasporto.. secondo la mia opinione le acque che invasero la Pocala sono connesse a episodi prevalentemente locali d’origine pluviali e derivati dalle fondità (?) primaverili delle nevi. (…) È possibile che queste acque abbiano originato – in certi periodi dei veri e propri ruscelli, che dovevano perdersi all’interno delle caverne…  Il commento che si dovrebbe fare dinanzi ad una simile assurdità è il seguente: Delle ere o periodi glaciali, nelle scienze geologiche se ne parla – in modo ufficiale – dal 1830, il tutto impostato su concetti sorti in Svizzera ancora nel 1815. Rimasero lettera morta le considerazioni da noi svolte a partire dal 1995 sul “diluviale” anziché “glaciale” (vedi bibliografia citata). Eppure a coloro che nel corso di quest’ultimo secolo operavano nè gli studi geomorfologici sul Carso triestino, soprattutto nelle grotte a galleria che hanno la facoltà di conservare tracce di depositi di riempimento, anche per dei milioni d’anni erano, evidentemente sorti dei seri dubbi sulla reale situazione climatica pleistocenica. Ne fanno testo, ad esempio, G.A. Perko (1906) con: La fauna diluviale nella caverna degli orsi presso Nabresina, oltre a F. Muhlhofer (1907) con: Ueber Knochenfuehrende Diluvialiscen des Triester Karstes und Karstentwalkdung..
Siamo perfettamente a conoscenza che a parziale giustificazione, su tali evidenti periodi diluviali in pieno regime glaciale, sono sorte innumerevoli giustificazioni interglaciali. Ma allora i leoni le iene, gli ippopotami, i rinoceronti, gli elefanti ed anche quei poveri orsi delle Conturines, certamente nei “glaciali” non potevano fare altro, che tornarsene a casa (ma dove?) e poi risalivano i ghiaioni ormai completamente spogli di vegetazione, per ritornare nella loro grotta e,… i leoni die­tro? Purtroppo gli studi geologici continuano a basarsi su delle cognizioni o meglio dei principi sorpassati, alcuni anche sbagliati, che non traducono in maniera almeno logica quelle che sono state le situazioni geomorfologiche che hanno modellato la crosta terrestre.
(D) È alquanto strano che a proposito delle così dette morfologie glaciali (more­ne, massi erratici, ecc.), non vi sia traccia di una tipica morfologia profondamente da incisione erosivo-meccanica sicuramente non di origine glaciale, ossia quella delle -forre – largamente presenti, ad esempio nei sistemi fluviali delle Prealpi Carniche e Giulie. Sarebbe a questo punto da aggiungere e confrontare, anche con i grandi sistemi fluviali – a canale – vedi ad esempio la Val Canale nelle Giulie ed il Canale d’Agordo nel Veneto. Tutta questa particolare tipologia di strutture profondamente erosivo-incisive, sono state prodotte, da una dinamica di acque scorrenti con una sostenuta energia di trasporto, attraverso delle grandi portate d’origine diluviale con dei risultati che appa­iono in tutta la loro grandiosità anche al più semplice visitatore. Ignoriamo se nei tempi andati, siano stati fatti studi particolari sulla dinamica delle forre, certamente le prime segnalazioni sulla loro origine e tipologia della consumazione in approfondimento per effetto erosivo-dinamico, sono state eseguite nella Forra del Torrente Cosa nella zona di Pradis (Prealpi Carniche), il tutto ricordato in un lavoro riassuntivo di F. Forti (1998), di cui diamo una sintesi illustrativa del complesso fenomeno. In conseguenza delle forti piovosità del giugno e ottobre 1996, in cui il livello dell’acqua scorrente nella forra si alzò di ben 8 metri, le stazioni poste in alveo per le misure delle consumazioni strumentali in centesimi di millimetro, poste di poco al di sopra del limite delle acque di portata normale nel corso dei precedenti 10 anni di misure, fornirono un valore totale di consumazione delle rocce in alveo, tra 0,10 e 0,20 mm mentre: un solo evento di piena in poche ore è riuscito a consumare, in un punto, quasi 1 mm di superficie rocciosa.

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

  • Battaglia R. (1930) – Notizie della stratigrafia del deposito quaternario della Caverna Pocala di Aurisina. Le Grotte d’Italia, a. 4, (1). Riv. trim. Ist. Ital. Speleol. – R. Grotte Demaniali di Postumia.
  •   Bosellini A. (1989) – La storia geologica delle Dolomiti. Edizioni Dolomiti. Grafiche Lema di Maniago (PN)
  •  Calligaris R. (1999) – Ritorno in Pocala. Atti tav. rotonda.: “Un importante sistema carsico dei Monti Lessini (VR): i Covoli di Velo”: 87-100, Verona – Camposilvano.
  •   D’Ambrosi C. (1943) – Intorno alla genesi del saldame, della bauxite e di alcuni minerali di ferro nel cretaceo dell’Istria. Boll. Soc. Geol. Ital., 61, (3), (1942): 411-434, Roma.
  •   Forti F. (1974) – Considerazioni sui depositi di riempimento delle cavità carsiche nel Carso Triestino. Atti Mem. Comm. Grotte “E. Boegan”, 13, (1973): 27-37, Trieste.
  •   Forti F. (1981) – Genesi dei depositi di ri­empimento nelle cavità a “galleria” del Carso Triestino. Atti Soc. Preist. e Protost. Reg. Friul. – Ven. Giu., 4, (1978-1981): 127-132, Pisa.
  •  Forti F. (1992) – Gli studi sui riempimenti fissi e mobili delle grotte.(1) Progressione 27, anno 15, (2): 14-17, Trieste.
  •   Forti F. (1993) – I riempimenti fissi e mobili delle grotte. (2). Progressione 28, anno 16, (1): 12-15, Trieste.
  • Forti F. (1995) – Considerazioni sulla si­tuazione paleoclimatica quaternaria del Carso Triestino. Atti Mus. civ. Stor. Nat. Trieste, 46: 113-124, Trieste.
  • Forti F. (1998) – Il ruolo dell’erosione nel “carsismo indiretto”. Studi nella Forra del Torrente Cosa. “Sot la Nape”, (3), Sett. 1998, Soc. Filol. Furl.: 49-52, Ta-vagnacco (UD).
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