MONGOLIA – VIAGGIO ALLA CAVERNA MAGICA

Pubblicato sul n. 61 di Progressione anno 2013
Mongolia, venerdì 7 febbraio 2014. Che quella data fosse la più adatta lo dicevano non solo gli sciamani e coloro che di professione leggevano il futuro, ma anche la gente comune. Quel giorno la luna sarebbe stata in una fase astrale particolarmente propizia e gli spiriti celesti avrebbero guardato alle richieste umane con speciale benevolenza. Quella era la data giusta per mettersi in contatto con il mondo del divino. Soprattutto andando in una località dove, per tradizione, il colloquio con gli spiriti era più facile e diretto: come ad esempio a Eech Khad, la Madre Roccia ad una ottantina di chilometri dalla capitale Ulaan Baatar o ancora meglio da quella grotta quasi irraggiungibile, dal nome così difficile a memorizzare, che si apriva lassù a Nord, ad Est del lago di Hosvgol, nascosta in un labirinto di fitti boschi, ampi fiumi e ripide colline. 715 chilometri di neve e ghiaccio via da Ulaan Baatar. Là si apriva la grotta misteriosa: Dayan Derschiin Agui.
Nel suo libro “Mongol Ornvi Agui”, il professor Erdenedalain Avirmed descrive la grotta di Dayan Derschiin come la quarta cavità più estesa del paese attribuendole 224 metri di lunghezza. Ricorda che nel lontano 1672 uno scrittore mongolo di nome Balganshadavdorj dedicò alla cavità un libro, di cui c’è testimonianza in altri scritti, ma che ora è andato perduto. Il libro si imperniava soprattutto nella descrizione delle cerimonie che qui si tenevano durante l’epoca d’oro degli sciamani, ovvero negli anni 1200-1300. Lo studioso, prima di passare ad una minuziosa descrizione dei vari ambienti sotterranei, ricorda come nell’anno 1998, più precisamente l’8 gennaio, venissero fatti all’interno della cavità dei rilievi morfo metrici, con carotaggio del terreno e prelievo e successivo sezionamento di campioni di roccia. L’autore ricorda inoltre che: “… la cavità è considerata dalla popolazione locale come un posto sacro, al quale ogni anno venivano portate delle offerte…”.
Non segnala che questo era forse il più importante posto sciamanico, il luogo d’incontro fra mondo terrestre e mondo celeste, di un’aria vastissima. Non scrive che i buddhisti tentarono in qualche modo di colonizzare e fare proprio questo sito costruendo un monastero laddove dalla valle principale, percorsa da un fiume di grossa portata, aveva inizio la valle secondaria che in 15 chilometri portava all’ingresso della cavità. Non racconta che durante le purghe anti religiose degli anni 1935-1938 quel monastero venne completamente distrutto e ridotto in rovine e molti monaci vennero uccisi. Da quel momento sino alla metà degli anni ’90 fu assolutamente vietato raggiungere la grotta. Giustificazione ufficiale era la vicinanza al confine sovietico, mentre nella realtà il governo, di rigida impostazione marxista-leninista, non desiderava che alcuna espressione di fede religiosa venisse celebrata dal popolo.
La prima volta che sentii parlare della grotta era una quindicina di anni fa. Ero seduto in un locale nel centro di Ulaan Baatar, intento a sorseggiare una buona birra. Mi si avvicinò un amico tedesco, l’addetto culturale dell’Ambasciata del suo paese. Michael, che era nato in quella che al tempo era la Germania dell’Est e che si era laureato alla prestigiosa Humboldt University di Berlino, intendeva e si esprimeva perfettamente in mongolo. Mi disse: “Sai, ero per motivi di lavoro a Moron, il capoluogo della regione di Hovsgol. Parlando di vecchie tradizioni è venuto fuori che da qualche parte, là fra le montagne a destra del lago, c’è una grande grotta dove la gente andava un tempo a parlare con gli spiriti. Prima era vietato, ma adesso hanno ripreso nuovamente ad andarci anche se è molto difficile raggiungere quel posto. Dicono che la grotta sia molto lunga e che quando entri nel nero devi stare attento a che una forza misteriosa non ti trattenga senza lasciarti più uscire. Dicono anche che dentro la grotta ci sia un forte vento che viene dal profondo e che quella sia la voce degli spiriti. Volevo solo raccontarti questo perché so che ti interessi di grotte. Forse potrebbe interessarti”. Certo che mi interessava! Era iniziato a piovere due giorni prima e da allora non aveva mai smesso. Anzi: adesso grossi chicchi di grandine sbattevano con un ticchettio forte ed incessante sul parabrezza del nostro fuoristrada. La grandine, simile ad un manto nevoso, aveva iniziato a coprire il terreno ed il bosco tutto attorno. La fitta foresta di alberi di larice e di betulle che ci circondava era tagliata in due dalla serpeggiante striscia marrone, invasa dall’acqua e dal fango, che era la nostra pista. Era il mese di agosto del 2009 e con altri amici, fra cui il consocio CGEB Umberto Tognolli, tentavamo di raggiungere la grotta. Avevamo lasciato il villaggio di Tunel e facevamo rotta verso l’ultimo centro abitato, Tsagaan Uur Sum. Tentavamo di procedere, adocchiando, quasi isole salvifiche, i tratti di pista non sommersi da quel diluvio. Ogni tanto ci impantanavamo: bisognava scendere, spingere, trainare una vettura con l’altra. Le mani si gelavano, l’acqua entrava ovunque, faceva freddo. Dopo un tempo che sembrava infinito avevamo percorso una frazione ridicola del tragitto. Peggio: davanti a noi la pista sprofondava in un mare di fango dove non si vedeva alcuna possibilità logica di traversare. Decidemmo di rinunciare. Tornammo a Tunel e trovammo rifugio in una grande stanza messaci a disposizione dal sindaco (una donna). La signora ci informò che: “È impossibile andare alla grotta d’estate. Chi vuole raggiungerla e passa di qui, lo fa d’inverno quando i fiumi sono ghiacciati e si possono usare come fossero strade. Comunque, anche d’inverno, è molto difficile andarci. L’ultima parte, parecchi chilometri, vanno fatti a piedi. E d’inverno non è facile”. Mi misi a cercare altre informazioni e altra documentazione. Nel 1245, Giovanni di Pian del Carpine ci offre una dettagliata e precisa relazione della sua missione diplomatica intrapresa per conto del papa Innocenzo IV e finalizzata ad una alleanza fra papato e mongoli. La missione si sviluppava nell’ottica di ottenere sostegno militare da parte mongola nella futura liberazione e conquista di Gerusalemme (…dobbiamo pensare che all’epoca le conoscenze geografiche occidentali non superavano le sponde asia-tiche del mare Mediterraneo e che l’oceano Atlantico, ad occidente, era assolutamente incognito…). Ad un certo punto, nel suo “Historia Mongalorum”, l’inviato papale scrisse: “. Partiti di là, arrivammo ad un mare non molto grande, del quale ignoriamo il nome per non averlo domandato. Lungo il litorale di questo mare c’è un piccolo monte nel quale, dicono, c’è una fenditura dalla quale, in inverno, escono raffiche di vento così impetuose che gli uomini possono passare a stento e con grande pericolo. Il sibilo del vento vi si sente anche in estate, ma questo, come ci riferiscono gli abitanti, esce dalla fenditura più debolmente. Costeggiammo le sponde di quel mare per più giorni…”. Confesso di avere pensato che la descrizione si adattava bene alla grotta che cercavo. Solo in un secondo tempo, ad una verifica storica più approfondita, capii che i luoghi erano diversi. Giovanni di Pian del Carpine descriveva l’imbocco di una cavità che era distante circa 600 chilometri in linea d’aria, posizionata sul lago Ala Kol, oggi in territorio del Kazakistan, ai confini con la Mongolia. Però, pur nella delusione, trovai curiosa e stimolante la somiglianza: due laghi nell’Asia Centrale, quello di Ala Kol e quello di Hovsgol ed entrambi con una cavità che si apriva misteriosa nella loro parte orientale.
Confortato dalla presenza dell’amico Adriano della Società Alpina delle Giulie e dei tre amici Gianpaolo, Flavio e Nicola del CAI di Monfalcone tentammo nuovamente per un altro e nuovo percorso. Direttamente da Sud, via Erdenbulgan Sum. Era l’agosto 2011 e la pista correva via facile e veloce. Il tempo era bello, le colline della Mongolia tutte bianche di stelle alpine che qui si chiamano Tsagaan Od (stelle bianche). C’era anche una novità: l’ultima edizione della guida “Lonely Planet” parlava della grotta e ne dava le precise coordinate geografiche. Passato Erdenbulgan, mentre il fuoristrada saltellava sull’acciottolato della pista, guardavo il progressivo ridursi dei chilometri mancanti sul GPS. I numeri scendevano velocemente e quando mancavano meno di 10 pensai: “È cosa fatta !”. Comunicai con gioia la distanza agli altri. Ma gli Spiriti non volevano così. D’improvviso la pista aveva termine davanti ad un fiume di grande portata, larghissimo, intransitabile. Invano cercammo un posto dove guadare. Dovunque c’erano solo acque veloci e profonde. Acque potenti e limacciose che facevano capire che, nuovamente, il tentativo di raggiungere Dayan Deerschiin Agui era fallito. Era bastato un filo azzurro segnato a mala pena sulla carta geografica per porre fine al nostro andare. Ciò che non sapevo erano però due altre cose. La prima: che quel corso d’acqua, l’Ural Gol, questo il suo nome, era uno dei maggiori affluenti mongoli del sistema Ider-Selenge-Angara-Yenisei, che sfociando nel Mare Glaciale Artico lo rende con i suoi 5926 chilometri il quinto sistema fluviale più lungo del mondo. La seconda: che la posizione GPS della cavità era assolutamente sbagliata (…un errore di 15 chilometri in linea d’aria…). Certamente il curatore della “Lonely Planet” aveva desunto la posizione da qualche approssimativa carta geografica senza essere mai stato là.

6 febbraio 2014. Terzo tentativo, è il nostro sesto giorno di viaggio. Via Khara Khorum, Tsetserleg, Solongo Davaa, Moron. Freddo, tanto freddo. A Tosontsengel, mentre facciamo benzina e rifornimenti, ci dicono che quella notte c’erano -50 sotto lo zero. Comunque la temperatura media è sempre stata sotto i -30. Difficile fare ripartire le macchine al mattino. Nonostante il vecchio furgone russo dell’amico Buyaa somigli ad un catorcio, al mattino è sufficiente accendere per mezz’ora un bel fuoco sotto il motore e la scatola del cambio ed ecco che sputando e tossendo, come se fosse una antica vaporiera, la vecchia vettura a benzina (…in produzione in Russia dal 1969!) si scuote, si scrolla, trema e miracolosamente si avvia. Non così con la moderna 4×4 di Jambaa con riscaldamento e sedili in pelle, moderno fuoristrada diesel di produzione coreana. Due ore di sforzi sono il minimo… Freddo, tanto freddo: tento di fotografare e filmare. Mentre non ci sono problemi con le vecchie Nikon analogiche, tenere in mano la videocamera senza guanti è impossibile. Con i guanti, data la miniaturizzazione, schiaccio contemporaneamente più tasti con risultati disastrosi. Poi c’è il vento: difficile mantenere ferma la videocamera. E poi ci sono le lacrime che si congelano all’istante sigillando le palpebre con fastidiosi cristalli di ghiaccio. Partiti all’alba da Moron, abbiamo attraversato alle ore 11,00 Tunel Sum. Ora, sono le 18.00 del pomeriggio e siamo all’ultimo villaggio, Tsagaan Uur. Ci sono volute quasi 7 ore per coprire 120 chilometri. Chiediamo da dormire, ma qui non c’è nessun posto per dormire. Nella casa del governo si danno da fare e telefonano in caserma, dai militari. Andiamo lì, superiamo il divieto di ingresso, facciamo omaggio di qualche bottiglia di vodka. Ci aprono una casetta di legno, temperatura interna semplicemente gelida, una trentina sotto lo zero, ci sono solo 4 letti e noi siamo in otto. Siamo un po’ perplessi, ma: o così o niente. I militari promettono legno da bruciare a volontà. Ottimo! C’è una stufa nell’angolo e dopo due ore tocchiamo +8 gradi. Ci sembra di essere in una comoda sauna e usando una sega per ferro tagliamo a pezzi un pesce gatto di 1 metro e 20 comperato nei giorni precedenti. Congelato naturalmente. Risultato: una ottima minestra calda per una cena storica da ricordare.
7 febbraio 2014. L’idea era partire all’alba, molto presto e coprire, prima possibile, la settantina di chilometri che, in linea d’aria, mancavano alla cavità. Ma le macchine, con il freddo, non avevano nessuna intenzione di assecondare i nostri desideri. Poi finalmente il via ed è Siberia piena. Una traccia sottile, spesso molto tecnica, senza nessuno, in un brillare di cristalli di ghiaccio, nella penombra di rami contorti e caduti, nel rosseggiare di colpi di sole che filtrano fra un albero e un altro. Noi in silenzio, fiduciosi nel rumore del motore, intenti a capire e scoprire la direzione corretta.
Poi, d’improvviso, il muro di un monastero e la valle laterale. Altri fuoristrada, provenienti da Sud, da Erdenbulgan, la via più frequentata durante il periodo invernale. Chiediamo. Rispondono: “Sì. Mancano 15 chilometri, ma molto difficili. Questa è la via”. Ghiaccio, passaggi in diagonale su dei costoni ripidi e di dubbia aderenza, labirintici passaggi fra alberi ravvicinati, correre veloce sul fondo verde, blu, azzurro, bianco del fiume gelato. Poi, solo a piedi.
La grotta è lassù, 150/180 metri di dislivello dal fondovalle. Una lunga fila di pellegrini sgambano e soffrono per raggiungere l’ingresso, un vuoto quasi rettangolare di circa 4 metri x 5. Un piccolo balcone naturale, una specie di diga di roccia, ostruisce la parte inferiore e impedisce lo sguardo sino a quando non ci si affaccia. In termini speleologici la cavità è nulla. Non riesco a capire con quale faccia tosta le venga attribuita una lunghezza di 224 metri. Penso che invece di una cordella metrica, il rilevatore abbia fatto uso di un elastico. Ma in termini sacrali, religiosi: “Mio Dio! Mein Gott!”.
Una ventina di pellegrini, quasi tutti in abito tradizionale, ruotano attorno ad un “ovoo”, un cumulo sacrale fatto di pietre, donazioni ed omaggi vari: biscotti, caramelle, sciarpe di preghiera, denaro. Il gelo, il ghiaccio, hanno bloccato tutto in un’unica gigantesca stalagmite biancastra. Latte e yogurth, simboli di buon auspicio, vengono lanciati verso l’ovoo, ma il gelo trasforma spruzzi e gocce in neve e ghiaccio. Questo, ancora prima che le offerte tocchino la lustra superficie. Decine di lumini sono incastrati nelle pareti. I credenti, approfittando di ogni singola spaccatura della roccia, parlano con gli Spiriti. Una di esse, la più profonda, è contesa, a forza, con spinte e strattoni, fra coloro che vogliono parlare con il mondo dell’Aldilà. Qui dentro tutto il mondo è circolare, come nel ciclo della vita. Se per entrare nell’antro c’è una piccola scala in legno che facilita la discesa, per uscire è più complesso. Migliaia di mani e di piedi hanno consunto la roccia che porta ad un canale laterale. Fuori è il sole ed il gelo del tardo pomeriggio.
Tempo di andare. Fra poche ore sarebbe stato buio e bisognava raggiungere, prima a piedi i nostri 4×4, poi in macchina il villaggio di Erdenebulgan. Visto che conoscevamo la strada solo in parte e che la distanza presunta era di almeno una settantina di chilometri ci sarebbero volute almeno due ore di guida per percorrere l’itinerario non conosciuto. Mentre scendevamo dalla cavità, si avvicinò una donna che parlava perfettamente in inglese. Ci raccontò di essere già stata lì, a Dayan Deerschiin, alla grotta sacra, l’anno precedente. Sua sorella desiderava avere un figlio, ma nonostante le insistenti preghiere non era successo nulla. Nessun figlio, nessuna figlia. Così, quest’anno, nel giorno propizio del 7 febbraio, erano ritornate nuovamente con tanta speranza… A giudicare dal linguaggio, dall’abbigliamento, dal modo di esprimersi quella donna non era certo una povera ignorante… Poi, più in basso ancora, una famiglia in abito tradizionale chiese di avere una foto: “Gherel zurag”, dissero. Gliela scattai volentieri e mentre stavo per allontanarmi e andare via, mi chiesero da dove venivo. “Italia” risposi. Dall’incrociarsi degli sguardi e dall’espressione perplessa e dubbiosa, capii che non avevano compreso. Così dissi in mongolo: “Bi Itariaas Hun bain”. Sono cittadino italiano. Nuovamente l’espressione del viso, un vero punto interrogativo fra occhi stretti e guance rosate, fece capire che quella parte occidentale del mondo era perfettamente sconosciuta.
Sorrisi fra me e me: in fondo, laddove si ha il privilegio di parlare e comunicare direttamente con gli Spiriti, che importanza può avere una nazione simile ?
Roberto Ive
Oltre allo scrivente hanno partecipato gli amici romani Massimo e Antonella Catania e gli amici udinesi Pierangela Micelli e Flavia e Maurizio Murdocco.

BIBLIOGRAFIA
- Giovanni di Pian del Carpine – “Storia dei Mongoli” – Centro italiano studi alto medioevo – Spoleto 1989
- Roberto Ive – “Gobi” – Bonanno Editore -Acireale/Roma 2005
- Roberto Ive – “Mongolia – Viaggio a Olgii e oltre” – Bonanno Editore – Acireale/ Roma 2010
- Roberto Ive – “Grotte di Mongolia” – in “Progressione n. 54” – CGEB Trieste 2007
- Mircea Eliade – “Lo sciamanismo e le tecniche arcaiche dell’estasi” – Edizioni Mediterranee – Roma 1974
- Dino De Toffol/Davide Bellatalla – “Sciamanesimo e sacro fra i Buriati della Mongolia” – Edizioni Natura Trekking Servizi 1996