Gortani ’76

Pubblicato sul n. 1 di PROGRESSIONE – Anno 1978
Scendo il Col delle Erbe e mi trovo nuovamente sull’orlo del primo pozzo del Gortani; non è come le altre volte.
Il discendere questi pozzi non mi entusiasma, non stimola come altre volte il mio spirito esplorativo; scendo in grotta apatico, disinteressato, nulla riesce a muovere questo mio stato d’animo. Risalire in superficie causa dimenticanze per ben due volte non mi fa imbestialire come sarebbe successo due o tre anni fa; continuo a discendere i pozzi e raggiungo i miei compagni, che intanto erano andati avanti.
Scendiamo armando la grotta con sole corde, Daniela, Louis e Fulvio non hanno alcuna difficoltà con questa tecnica che ci permette di raggiungere in nove ore la «galleria dell’aragonite» a 450 metri di profondità, dove piazziamo il campo.
Anche qui, come mi era già successo nel Natale del ’75, non mi trovo a mio agio, non ho lo spirito di chi partecipa ad una spedizione; neppure l’ambiente, che è tra i più belli che uno speleologo possa vedere, riesce a farmi uscire da questa apatia. Non mi sono d’aiuto nemmeno i ricordi di quando scendevo l’abisso «Davanzo» con Roby, Mauro e Tony.
L’unica spiegazione a questa situazione è che ormai speleogicamente sono finito, come spesso accade a Trieste: uno dà tutto fino ai vent’anni, e poi è bruciato. E’ questa una realtà alla quale non voglio credere, e per questo continuo ad andare in grotta.
Ormai sono in ballo, e bisogna portare a termine il programma della spedizione; partiamo quindi per la prima punta, scendiamo il pozzo da 45 metri e gli altri due da dieci, mi arrampico sopra il «pozzo delle lame» e quindi percorriamo la «galleria del vento». Dopo un frugale pasto, inizio ad attraversare sopra il pozzo da cento metri, quasi subito mi accorgo però che non c’è nulla da fare; la prosecuzione della galleria non esiste: davanti a me ci sono soltanto le pareti che sprofondano nel grande pozzo, foto di rito e rapido ritorno al campo.
Dopo aver passato una decina di ore in sacco-piuma si parte per la seconda punta, della quale avrei fatto volentieri a meno: molto più volentieri avrei risalito i pozzi che portano alla superfice, che non scendere quelli che portano a — 700 m. Non so perchèlo faccio, forse per dimostrare agii altri e a me stesso che non sono ancora da buttare.
Ripeto l’arrampicata fatta da Gherbaz nel ’69, il quale aveva visto un meandro che secondo il suo parere doveva superare il sifone di —700; il meandro c’è, ma è quello del «rendez vous» come mi confermano le voci dei miei compagni rimasti sotto l’arrampicata e che intanto avevano iniziato a vagare per il meandro finale dello stesso ramo. Foto di gruppo, una delle migliori da me viste, e si inizia la risalita recuperando il materiale.
Gli ultimi tre pozzi che portano al campo sono battuti dalle cascate, perché evidentemente fuori piove; ben umidi ci cacciamo nei sacchi-piuma.
L’indomani telefoniamo fuori avvertendo che iniziamo a risalire, e grazie all’aiuto di Sergio, Mauro e Paolo che scendono a —90 a darci una mano, usciamo dalla grotta recuperando tutto il materiale in dodici ore.
Su al bivacco Davanzo, Vianello, Picciola» troviamo un gruppo di speleologi inglesi che si apprestano a scendere al «Gortani», dopo aver armato la grotta fino a 200 metri di profondità. E’ gente molto simpatica, anche se un po’ particolare; una delle loro stranezze è quella di staccare i frazionamenti delle nostre corde sui pozzi; un’altra è quella di mettere un telefono in bivacco, collegato con l’interno dell’abisso, senza lasciare nessuno all’esterno.
Il giorno dopo rientriamo a Trieste, anche questa volta non ho dato una risposta al perché continuo ad andare in grotta, visto che non ne traggo più le soddisfazioni di una volta, e anzi questo mi pesa. Chissà quante volte ritornerò sul Canin senza sapere perchè lo faccio.
Vi ritorno forse per trovare una risposta a tanti interrogativi che proprio qui si ripropongono in maniera più pressante.
Tullio Ferluga
