SCIACCA: QUANDO L’ESPLORAZIONE NON È SOLO IPOGEA
Pubblicato su Progressione n. 59 anno 2012
Per uno speleologo esplorare è una attività naturale… inebriante, quando va bene… bambinescamente deludente, quando non attende alle aspettative ma ad ogni modo emozionante. Richiede abilità, entusiasmo, motivazione, tenacia… oltre che una spontanea predisposizione alla voglia di scoprire, alla voglia di raggiungere per primo, al mondo, un qualsivoglia luogo. Esplorare è un privilegio sconosciuto ai più e forse anche questo contribuisce a renderlo esclusivo.
Se poi a questo aggiungiamo l’esplorazione delle risposte del nostro organismo mentre svolgiamo questa attività siamo davanti ad un’esperienza unica. Così fu quando si fecero i prelievi ematici nell’Abisso Gortani per capire gli adattamenti biochimici dell’organismo all’esplorazione ipogea e speleosubacquea nelle fredde grotte del Canin (i primi a pubblicare i propri risultati su riviste mediche internazionali); così è stato quest’anno quando abbiamo deciso di riproporci in una sperimentazione simile ma nelle bollenti ed umidissime grotte di Sciacca.
Lo studio delle risposte del nostro corpo alle malattie rappresenta la normalità in ambito medico, e sebbene nella sua complessità, la letteratura aiuta a comprendere. Poco esiste invece sulle risposte di un organismo sano sottoposto a situazioni estreme, se non altro per le difficoltà a trovare sperimentatori e atleti in grado di svolgere queste attività d’elite.
Problema non sentito a Sciacca, in realtà, dove quest’anno sperimentatori e “speleocavie” non mancavano!!! Ma perché proprio Sciacca? Beh, semplicemente per il fatto che l’impegno fisico, potenzialmente minimo, necessario per percorrere il modesto sviluppo e profondità della grotta diventa un’esperienza ad alto rischio a causa dell’elevata temperatura (quasi 40°) e al tasso di umidità presente nell’aria vicino al 100%. Sostanzialmente questi due fattori messi insieme impediscono al nostro organismo di traspirare e quindi di eliminare calore. L’aumento della temperatura corporea può causare vari danni agli organi interni, principalmente cuore, reni e cervello che, se consistenti, possono diventare irreversibili. Qualche prelievo prima e dopo la discesa in grotta, un po’ di tecnologia moderna ed un gruppo di esploratori inarrestabili ci hanno permesso di misurare alcuni parametri fisiologici ed ematici che possono segnalare, in questo particolare scenario ambientale, eventuali disfunzioni d’organo.
La parte organizzativa è stata un’impresa stoica. Attraverso un paio di consultazioni ed incontri telematici siamo riusciti a definire un protocollo molto snello ed efficiente… ma se dal punto di vista teorico e scientifico le problematiche erano state valutate e risolte, dal punto di vista pratico c’era ancora del lavoro da fare. Appena arrivati a Sciacca ci siamo impossessati di una stanzetta subito all’uscita della cavità dove in modo un po’ adattato si potevano eseguire i prelievi ed informatizzare i parametri raccolti. Ovviamente, visto che la sfortuna non è quasi mai cieca, lo stesso punto è stato attrezzato anche col necessario per diventare un punto di emergenza in caso di incidente. L’operazione di intelligence ha poi permesso di trovare la collaborazione con l’Ospedale di Sciacca, di eccezionale ospitalità e professionalità, che ci ha messo a disposizione il suo laboratorio per processare i campioni ematici e svolgere immediatamente le analisi che non potevano essere posticipate.
Passando poi alla fase di studio vera e propria, abbiamo raccolto dati riguardanti lo stress cardio-circolatorio, la perdita di acqua corporea misurata in peso, la saturazione di ossigeno dei tessuti (misurata con uno strumento di nuova generazione che non necessita l’inserimento di sonde) con stima indiretta del consumo di ossigeno che, come sappiano, è imponente in condizioni di sforzo massimale. Inoltre sono stati raccolti una serie di parametri biochimici per valutare eventuali alterazioni e/o adattamenti dell’organismo all’ambiente ed il grado di recupero a distanza di 24 ore dalla discesa in grotta. Inattesa tanta partecipazione e rigore metodologico del gruppo che, “volentieri” , ha donato sangue e pipì a più riprese, sin dal primo mattino.
Difficile descrivere la velocità con cui si è dovuto organizzare i prelievi e le registrazioni degli altri parametri, soprattutto nei momenti di vero sovraffollamento dove tra sperimentatori, cavie, archeologi autorità curiose e riprese non era facile muoversi. Assoluta attenzione invece è stata data alla privacy nel momento delicato della misurazione del peso da effettuare dopo essersi asciugati e senza vestiti addosso… come atteso.
Quanto ai risultati, siamo ancora in una fase di analisi preliminare. Ad ogni modo, da una prima osservazione la frequenza cardiaca e la pressione arteriosa non sembrano essere diverse da quelle osservate durante esercizio fisico in superficie, e questo depone probabilmente per le ottime condizioni fisiche dei singoli giovani e soprattutto meno giovani. Evidentemente l’esperienza conta. La perdita di peso in un tempo che è variato tra i 25 ed i 45 minuti, tutto sommato si è dimostrata importante (in media un chilo di acqua), senza però un rialzo significativo dell’ematocrito, che misura la parte corpuscolata del sangue. La saturazione arteriosa di ossigeno non ha subito variazioni, come del resto ci si aspettava. Invece è stato interessante osservare come la saturazione tissutale di ossigeno non solo non è cambiata ma anzi è aumentata al termine dello sforzo a differenza di soggetti malati in stato di shock settico dove l’apparato cardiocircolatorio è sottoposto ad enorme stress, ma con metabolismo cellulare tissutale alterato. Questo dimostra ancora di più come il nostro organismo è in grado di compensare le richieste anche in condizioni di sforzo in ambiente chiaramente ostile (Diagramma 1).
La temperatura cutanea si è innalzata di un grado circa (da 35,7° a 36,7°), confermando l’adattamento dell’organismo all’alta temperatura ed umidità ambientali. Dati di laboratorio, come la creatinina, la mioglobina e la creatinifosfochinasi non hanno evidenziato una sofferenza/danno muscolare eventualmente associato allo shock termico. Forse la brevissima durata della permanenza ipogea e del tratto percorso non sono stati sufficienti per muovere tali marker sebbene molti hanno “lamentato” con espressioni anche colorite, una discreta fatica soggettiva associata anche a dolore muscolare, specie durante la risalita dell’ultima rampa di scale. Interessante il calo della latticodeidrogenasi, enzima che per mestiere trasforma l’acido piruvico in acido lattico, molecola temuta per la sua nomea di essere la causa del dolore muscolare. In realtà, sembra che il dolore sia dovuto esclusivamente al danno delle cellule del muscolo scheletrico dovute all’esercizio muscolare intenso, mentre l’acido lattico, allontanato, si dice, velocemente dal muscolo scheletrico, viene sostanzialmente riutilizzato ai fini energetici. È noto che i livelli di acido lattico possono essere influenzati da pressione parziale di ossigeno dell’atmosfera e dalla temperatura. A parità di lavoro, in condizioni di diminuita pressione parziale ed elevata temperatura -ad esempio nelle grotte di Sciacca- aumenta la produzione di acido lattico. Purtroppo tale parametro richiede una preanalitica delicata, non compatibile con le nostre condizioni di sperimentazione, per cui non ci è stato possibile monitorarlo ma tale calo della latticodeidrogenasi forse ci spiegherà, in modo indiretto, cosa è accaduto.
Quanto alla risposta allo stress, se di stress si parla, siamo andati a vedere la risposta del cortisolo e prolattina, tipici ormoni sensibili all’emotività e vigilanza e come atteso si è osservato un aumento degli stessi, seppure di modesta entità (Diagramma 2).
Ora non resta che leggere uno sfacelo di letteratura per capire i dati per ora ottenuti e dai quali, se ci sarà una prossima volta, ripartiremo per ottimizzare la sperimentazione così da completare l’analisi delle informazioni rimaste.
Elisabetta Stenner e Marino Viviani