COL DELLE ERBE – TRAGICO RECUPERO
Pubblicato sul n. 3 di PROGRESSIONE – Anno 1979
Stavolta potevamo anche non tornare mai più la sera e lamentarci e scherzare alle spalle del rotto di turno, assieme a tutti ma realmente ognuno con sè, guardandoci talvolta con occhi eloquenti in sede o in altri luoghi … però è giusto e bello tornare, specie in certi casi.
Pensavo però che fosse l’ora di farla finita con le imprese più grandi di me, mentre la testa e le gambe mi ricordavano il troppo vino della sera prima. Certamente se fossi rimasto a casa non avrei avuto il piacere di conoscere il nuovo gestore del rifugio Gilberti … non avrei capito quanto poco so di ghiaccio e di nervi saldi dietro la sella Bila Pec.
Così un Col delle Erbe in festa per il sole si incrociava imbronciato con noi stessi … il saggio prof. Zucchi pazientava. Gli altri tre erano arrivati al bivacco prima di noi e ci credevano dispersi, tutto questo per farmi capire che si può giungere da casa propria agli abissi del Canin prendendo più di 24 ore. Allora il massiccio calcareo ebbe pietà e ci fece spedire nuvoloni e vento in abbondanza, sufficiente a spegnere quel mozzicone di entusiasmo che alcuni, al caldo e con la pancia piena, chiamano «grinta».
Molto bella resta comunque l’uscita degli speleologi dal bivacco modello «lancio paracadutisti» (la solita fiaba: Duri muli… !). E’ lì fra il buio che si apre, il buio dell’abisso Vianello. Corda al discensore senza ombra di convinzione; non è più settembre, con Icaro e Rasse, resta solo da capire che non può mai essere uguale. Anche gli altri timbrano svogliati il cartellino e scendono (Miroslavo, prof. Zucchi, Claude e Glavutto).
Riscontrato che la roccia a —150 se la passava come sempre e non aveva da raccontare niente di nuovo, passo a raccomandare calma e sangue freddo nel meandro. Oltre ansimante aspetto per 10 minuti il secondo arrivato e stringo la mano alla rimanente serie di bigoli e meandri. Schifo per l’ambiente represso e paura logica sulla corda del pozzo da 85 m; teste che picchiano le pareti dietro a me danno l’impressione che io non sia l’unico a scendere tappandosi gli occhi.
Mi urlano che è proprio un abisso duro, passato il «by pass» approvo e non oso sollevare i sacchi che hanno atteso pazientemente il nostro arrivo.
Ad un certo punto lo spettacolo finisce perchè Marco deve andare a lavorare (scusa d’effetto o 50% di verità), Claudio insiste col sacco fin sotto l’85 e Stefano si permette di punirmi con una pietra sulla spina dorsale da 3 m. Sono cretino, quindi voglio portare l’unico sacco pesante fin su; sguardi compassionati e lascio perdere.
Si scherza sotto le tre verticali: urli, nabresenze, risate … stanno scendendo altri tre «clowns» in PVC e si decide il pestaggio ai danni di Marino che osa scherzar: comunicandoci che fuori nevica, nevicherà … Ci sentiamo già nella neve quando Fabio comprova il fatto, Zagolin tace fingendo tranquillità, come sempre. Non c’è più fretta e Fabio e Zagolin vanno a prelevare alcuni sacchi rimasti e Marino, impianto distrutto, a commentare la risalita del filosofo sul p. 60 col sistema Jumar, al suddetto poco noto.
«Taci, sciocco gamel!» e finalmente dopo tante ore sprecate di «L 18» un Col delle Erbe imbiancato, tanti bei karren tanto profondi quanto nascosti. Occhi sgranati, bestemmie congelate nella nebbia, ma il bivacco invisibile non ne vuol sapere di spostarsi più vicino a noi neppure tramite la saggezza del d.p.S.Z., e alla fine afferro una gelida maniglia con altrettanto gelida mano.
Grosso barbuto ride (stupidamente) e mi fa bere della minestra, stesso grosso barbuto esce poco dopo per aiutare gli ultimi eroi e cade a sua volta (stupidamente – vedi Sella Grubia). Ci siamo, nell’intimità di un bivacco, in 9, poi c’è anche Grampamperle, quindi tutto è OK. La risata di 100 kmh a raffiche fa capire che la barzelletta è stata compresa ed apprezzata.
La mattina un primo coraggioso bardato apre la porta: stupisce che qualcuno fra gli ultimi non l’abbia chiusa. Il vento non perdona dal Montasio, e con la nostra ridicola attrezzatura riusciamo incolumi oltre il C. d. E.; —10° circa, l’ora di nuotare. E’ proprio tornata l’epoca del Matajur, anche quella volta nessuno o quasi possedeva ghette, duvet, scarponi e simili. Comunque alcuni si consolavano in blue jeans e pedulette, magari strizzando l’occhio (ghiacciato s’intende, non per altro); allora capisci, straccio o superman, che devi portare la pelle a casa e non senza gli altri.
Frequenti sono i cambi per battere la pista, poi, in vista della sella qualcuno devia a destra su un pendio più ripido ma meno innevato (con roccia marcia e chiazze di ghiaccio, disperazione sugli appigli, scene ugualmente buffe …). Meno buffo è stato l’urletto che ha trascinato 5 persone 10 metri più sotto (ulteriore bestemmia-mento e tutta strada da rifare). Fabio in cima si da da fare con cordini annodati, ma Grampamperle batte il record volando quasi per 20 metri insieme a Zagolin. Altri cordini quindi, mentre dalla caserma diroccata provengono pietose sfide al gelo che dovevano essere tentativi di cori atti al riscaldamento. Anche Zagolin è fuori dal punto chiave, ma molto provato; ma oltre, si sa, la neve è molto, molto più alta.
Poco dopo, quando ognuno ha sfogato verso il rifugio ormai in vista la propria carica nervosa, (si sa però che l’occhio cammina più veloce dei piedi) nei modi più disparati, Zagolin è sfatto.
Marco ulula per i piedi e trascina 2 zaini … chi batte la pista si diverte (?) a fare il marines per affondare meno nella neve. Mi trasformo in Caterpillar dietro «Orso barbuto» e «papaci»; «paesaggio da presepio!» oso dire quando al rifugio accendono tutte le luci per darci una mano (!).
— Butta la pastaaa!!! — sento gridare alle mie spalle poco prima di afferrare la più vicina struttura del Gilberti. — Barella!!! — urlo meno bello 2 o 300 metri più indietro: Zagolin è stecchito per un principio di assideramento. Qualche ora dopo battiamo contenti la pista per la barella della Guardia di Finanza e la funivia parte con il nostro amico ormai al sicuro.
L’indomani un’ultima risata davanti al muro di neve che presumibilmente copre l’auto di Fabio.
Sicurezza per ognuno di noi che siamo in pochi a provarlo, sicurezza che questo non sarà un episodio per noi inutile.
In milioni si affollano dietro la puzza di consumismo e di etichette che spregiano la bellezza della neve, ogni polemica è superflua, ma noi forse viviamo più intensamente. Spesso purtroppo lo dimentichiamo e stiamo male.
Paolo Fonda