MARINO VIANELLO – (Trieste 8.3.1936 – Canin 5.1.1970)
Testo di Giuseppe Baldo pubblicato su Alpi Giulie, 65: 5-8, Trieste 1970
E’ stato socio della Commissione Grotte dal 1956 al 1970
Il collegamento in ponte radio
Il collegamento in ponte radio, previsto per il 2 gennaio, non era riuscito e le prime notizie sull’andamento delle operazioni all’abisso Gortani – i sette uomini, impegnati nell’esplorazione dal 22 dicembre, avevano raggiunto la profondità di 892 metri, superando così il record italiano; stavano tutti bene ed avevano iniziato le operazioni di recupero – furono portate, insieme a quelle di un tempo splendido sulla zona, da una piccola squadra rientrata in città la sera del 3 gennaio.
Questa squadra, partita da Trieste il giorno precedente, aveva trasportato fino a 90 metri di profondità i materiali per le riprese cinematografiche accompagnando un’altra squadra di tre uomini, Enrico Davanzo, Paolo Picciola e Marino Vianello, che al campo sistemato a quella profondità, avrebbero atteso la risalita dei sette uomini impegnati nell’abisso per effettuare le riprese e collaborare nelle operazioni dei recupero. […]
Scesi nell’abisso i tre pernottarono al campo a -90 ed i giorno successivo 4 gennaio iniziarono il loro lavoro attendendo i compagni che stavano risalendo; gli esploratori giunsero al campo la notte fra il 4 e il 5 e l’intera mattina del 5 fu dedicata alle riprese.
Nel frattempo le condizioni atmosferiche erano andate rapidamente cambiando, la temperatura, che nella serata del 3 si era alzata da -23 a -14. il giorno 4 continuava a salire rapidamente, mentre un forte vento di scirocco aveva sospinto una cupa nuvolaglia su tutta la zona; ed una nevicata, iniziata nel pomeriggio, si era presto trasformata in pioggia dirotta.
Piovve tutta la notte e la mattina del 5 Sella Nevea rimbombava del cupo frastuono di valanghe. […] Alle tre del pomeriggio del 5 gennaio, Enrico Davanzo, Paolo Picciola e Marino Vianello raggiunsero la superficie: a quell’ora il grosso del maltempo era già passato lasciando segni evidenti; essi, con tutta probabilità, compresi della stessa preoccupazione che la neve bloccasse l’ingresso, decisero, malgrado tutto, di raggiungere il rifugio per esser pronti, il giorno successivo, ad aiutare i compagni che ritenevano più in pericolo che non loro stessi.
La grossa squadra proveniente da Trieste, cui si erano aggiunti alcuni amici del Gruppo Speleologico della Sezione di Gorizia e del CSIF di Udine, raggiunse, nella tarda mattinata del giorno 6, il rifugio Gilberti, vuoto. All’una si incontrò all’ingresso del Gortani, con gli uomini risaliti in superficie dopo 15 giorni di permanenza nell’abisso e gli uni e gli altri, con immediata, dolorosa angoscia, si avvidero che i tre compagni, i tre amici, loro tre, mancavano, dispersi dal giorno precedente fra le nevi di quell’altipiano che mai, come allora, apparve nella sua tragica desolazione. […] Le loro salme furono ritrovate il 30 giugno da due giovani della Commissione Grotte durante le ricerche, incominciate ormai da un mese dagli speleologi dell’Alpina in collaborazione con i volontari del soccorso Speleologico e del Soccorso Alpino. Furono trovati sotto sella Canin, vicini l’uno all’altro, con addosso tutto il loro equipaggiamento: essi avevano ormai superato i punti più pericolosi del tragitto quando, apparentemente al sicuro sulla via giusta. In vista del rifugio, furono travolti da una slavina di modeste proporzioni. […]
Un grave lutto per la speleologia italiana
Testo pubblicato su Rassegna Speleologica Italiana, 22 (1-4): 54-59, Como 1970
[…]
Trentaquatrenne vicepresidente della Commissione Grotte “Eugenio Boegan”, Marino Vianello arriva alla speleologia in un’età che a Trieste – per questa attività – è considerata ormai matura: 19 anni. Entra infatti all’Alpina delle Giulie nel 1955, facendosi subito socio della Commissione Grotte cui comincia a dedicare tutte le sue migliori energie e tutto il suo tempo libero. Nel giro di pochi anni diventa l’animatore della squadra esplorativa che contribuisce non poco a formare, raccogliendo intorno a sé un gruppo di giovani che condurrà negli abissi del Cansiglio, negli inghiottitoi del Ciaorlecc, nelle grotte del Carso.
Partecipa a varie spedizioni in altre regioni italiane: nel 1955 lo vediamo in Sardegna, l’anno successivo in Puglia ed in Sicilia, nel 1958 e nel 1959 alla Spluga della Preta, ove collabora con Busulini alla stesura di un rilievo di precisione sino a quota -398. Il 1960 lo vede sempre impegnato alla Preta, nella spedizione combinata Falchi-Commissione Grotte, ove dirige i lavori all’interno della cavità; in quell’occasione la squadra di punta riesce a superare le strettoie considerate terminali ed a raggiungere la sala del Serpente, a quota -450.
Dal 1961 la sua attenzione viene attirata dalle grotte dell’Alburno, che visiterà ogni anno, ad eccezione del 1967, anno in cui si recherà sul vicino Cervati. Di tutte le spedizioni in terra di Salerno egli è l’instancabile organizzatore ed il maggior descrittore: i suoi lavori sul fenomeno carsico ivi instauratosi sono oltre una decina, tutti contributi originali frutto delle osservazioni dirette delle cavità in cui scendeva. Nonostante la sua età, già avanzata per uno speleologo, partecipa infatti personalmente all’esplorazione delle grotte più importanti della zona: Grava dei Gatti, del Fumo, di Melicupolo, di Madonna del Monte, di Frà Gentile, delle Ossa, per non citare che le maggiori.
Per alcuni anni si dedica alla speleologia subacquea: il lavoro da lui impostato costituirà un prezioso contributo per la formazione della squadra subacquea della Commissione Grotte, che appoggerà poi dall’esterno con immutato entusiasmo quando altri impegni gli impediranno di proseguire ad immergersi.
Comanda la squadra triestina che nel 1966 [recte 1965] accorre a Como per recuperare la salma di uno speleologo precipitato nell’ultimo pozzo della Grotta Guglielmo; l’anno successivo è a Roncobello ove, assieme al bolognese Pasini, dirige i lavori di recupero delle salme di due sventurati speleologi morti nella Grotta del Castello nel generoso tentativo di portare soccorso a degli amici rimasti bloccati da una piena. Fra queste due esperienze partecipa attivamente alla formazione del Corpo Soccorso Speleologico di cui diviene responsabile per la II Zona.
E’ istruttore ai corsi della Scuola Nazionale di Speleologia che si tengono a Trieste dal 1958; degli ultimi tre è pure l’organizzatore. Organizza e dirige pure tutti i corsi locali di speleologia della Commissione Grotte. Convinto assertore della necessità di una organizzazione che coordini in seno al CAI i vari corsi locali di speleologia dedica a questo problema molto del suo tempo ed un’appassionata energia, riuscendo a vedere il coronamento dei suoi sogni con l’istituzione del Corpo Nazionale Istruttori di Speleologia del CAI; nel 1969 è chiamato a fungere da segretario del I Corso Nazionale per Istruttori.
Eletto nel Direttivo della Commissione Grotte nel 1960, con il 1969 assume la carica di vicepresidente; è grazie alla sua opera di sensibilizzazione che alcuni consiglieri regionali presentano dapprima (1966) la legge “Speleologica” e qualche anno dopo (1969) quella sul soccorso Alpino e Speleologico, grazie alle quali i gruppi grotte della regione e le squadre locali del Corpo Nazionale di Soccorso Alpino e Speleologico possono lavorare con una certa tranquillità finanziaria.
Dal 1961 è presene a tutti i Congressi, Nazionali ed Internazionali, ove presenta numerosi lavori. Cura la traduzione di alcuni lavori dei maggiori speleologi stranieri (Trimmel, Woodward, Boegli), traduzioni che hanno contribuito non poco alla conoscenza e diffusione di nuove teorie speleo genetiche in Italia.
Il Canin. Questa montagna lo affascina: apre sulle sue pareti una nuova via e scende negli abissi che innumeri vi si aprono. E’ presente nell’abisso Boegan a tutte le esplorazioni, anche se non come uomo di punta: sapeva sacrificarsi ed aspettare su di un ripiano il ritorno dei compagni più fortunati; il Gortani lo vede abituale frequentatore, nelle squadre d’appoggio che si sobbarcano non lievi fatiche trascinando materiali ai vari campi interni. Durante una puntata, nel 1968, vi raggiunge quota -450.
Nella campagna invernale, al cui termine perderà la vita, doveva collaborare all’assunzione di alcune riprese filmate e – soprattutto – aiutare la punta nel recupero dei materiali. Amaro destino ha voluto che questa sua fatica fosse l’ultima.
Ulteriori notizie su Marino Vianello si possono trovare in:
- Baldo G., 1970: Il collegamento in ponte radio, Alpi Giulie, 65: 5-8
- Del Core P., 2001: Trent’anni dopo, Alpi Giulie, 95/1: 49-54
- Finocchiaro C., 1970: Relazione dell’attività della Commissione Grotte “E. Boegan” nell’anno 1969, Atti e Memorie CGEB, 9 (1969), Trieste 1970: 9-10
- Guidi P., 1970: Ricordo di tre amici, Speleologia Emiliana, Notiziario, 2, 2 (1): 3
- Guidi P., 1970: Enrico Davanzo, Paolo Picciola, Marino Vianello, Le Alpi Venete, 24 (1): 75-76
- Guidi P., 1970: Un grave lutto per la speleologia italiana, Rass. Spel. It., 22 (1/4): 54-59
- Marini D., 1970: Abisso Michele Gortani, Alpi Giulie, 65: 9-13
- Marini D., 1990: Vent’anni, Progressione 23: 78
- R. B. [Bernasconi R.], 1970: Abisso Gortani: record tragique: -882, Stalactite, 20 (1): 39, aout 1970
- R. G. [Gigon R.], 1970: Marino Vianello, Stalactite, 20 (1): 39, aout 1970
- Salvatori F., 1991: Eraldo e Marino, SpeleoCai, 2 (3): 1-3, Costaccciaro aprile 1991
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Marino Vianello, speleologo triestino di un glorioso passato
Testo pubblicato su Cronache ipogee nel 2010
Monte Canin, 5 gennaio 1970. Un luogo e una data che per ogni speleologo che si rispetti, a Trieste, o per lo meno abbia il senso della storia, assumono un preciso significato. Quel giorno sono stati dati per dispersi Enrico Davanzo, Paolo Picciola e Marino Vianello, presi da una valanga sul Canin, dopo esser usciti dall’Abisso Gortani, mentre procedevano verso il Rifugio Gilberti. Dato che quest’anno è ricorso il quarantesimo dell’evento, la celebrazione è stata fatta sul Canin il 17 gennaio, da una Commissione Grotte – quella che accomunava i tre – che, onestamente, non dimentica mai i propri morti. Ci sarei andato volentieri, dato che ne ero stato informato, ma un po’ perché la ritenevo una commemorazione “di famiglia” poi perché mi trovavo all’estero, ho rinunciato.
Ciò che mi accingo a fare, è rileggere, in una chiave particolare, la figura e l’opera di Marino Vianello (Trieste 1936-Monte Canin 1970). Certamente, il più noto fra i tre, sia per le sue esplorazioni, che per i suoi studi e i suoi scritti, come pure per l’impegno nel campo dell’organizzazione speleologica, che travalicava i confini di casa inserendosi in un contesto nazionale, se non internazionale. Ma, al di là di queste sue riconosciute qualità, noto anche perché, nell’ambiente speleologico, era considerato “il delfino”, insomma il predestinato a guidare in futuro la Commissione, e, velatamente, anche a incidere con un ruolo di rilievo sull’intera speleologia triestina. Questa rilettura ha uno scopo ben preciso, oltre a quello ovvio di cogliere i quaranta anni trascorsi, quello di estrapolare tramite la sua figura i pregi e i meriti di una speleologia triestina che non c’è più, semplicemente perché completamente trasformata. Sintetizzarli, portarli a un rapporto con la speleologia triestina attuale, trarre, se possibile, degli insegnamenti, delle riflessioni, utili a far maturare nelle nuove leve, e non solo, soprattutto nelle dirigenze odierne, quei concetti che, perduti lungo il cammino, andrebbero – anzi, decisamente vanno – assolutamente recuperati poiché produttivi e moderni, giacché, adattati e conciliati con gli interessi della comunità speleologica del 3° millennio, sono sempre fondanti la nostra attività.
Marino Vianello non fu uno speleologo qualunque, tra le centinaia che in tanti anni di speleologia triestina s’iscrissero a un gruppo grotte, grande o modesto e passeggero sia stato, e che il tempo ne ha sbiadito il nome, ormai rintracciabile solo dai puntigliosi storici del minimalismo, cioè da chi – giustamente – da certosino elenca i soci dei vari sodalizi affinché non vada perduta la cosiddetta “memoria”. No, Marino Vianello fu un grande protagonista. E come tale va ricordato. Come – avendolo conosciuto – non ho dubbi che oggi, salvo fatti imponderabili, egli sarebbe ancora “sulla breccia”. In primo piano – 2010, a settantaquattro anni – nella sua Commissione Grotte, e nella speleologia italiana.
Giacché il contributo alla speleologia di Marino Vianello è stato ben ricordato negli scritti dell’epoca, mentre oggi, grazie all’informatica, i giovani su di lui possono trovare in rete numerose notizie, posso esimermi dall’illustrarlo dettagliatamente. Tuttavia, per correttezza e per coerenza nello scrivere un articolo, debbo in qualche modo citare la sua “attività” seppur per sommi capi.
Marino Vianello inizia la sua attività speleologica, nella Commissione Grotte “Eugenio Boegan”, nel 1955 a diciannove anni (non giovanissimo, per i canoni dell’epoca). Diviene prestissimo un buon esploratore, un cultore degli studi speleologici, un organizzatore e, soprattutto, un elemento trainante. Fino al 1960 svolge una notevole attività, sul Carso, e negli ambiti regionali prealpini del Cansiglio e del Ciaorlecc, oltre che partecipare a campagne speleologiche in Sardegna, in Puglia, in Sicilia, anche talvolta elaborando e pubblicando i risultati secondo lo stile dell’epoca (1). Da menzionare che dal 1958 al 1960 partecipa a una serie di spedizioni congiunte alla Spluga della Preta, dove viene superato il limite raggiunto nel 1954 dalla Sezione Geo-speleologica della Società Adriatica di Scienze (spedizione “Maucci-De Martini”), raggiungendo la “Sala del serpente”, lungo la via che giungerà, più tardi, nel 1963, al fondo con la famosa spedizione congiunta tra bolognesi, torinesi e faentini. Scende, quindi, nelle grotte italiane più profonde dell’epoca, spesso trovandosi presente nelle squadre di punta, e soprattutto dedicandosi al rilevamento topografico; ma ciò non è disgiunto da una passione (che diverrà un serio impegno) per lo studio degli aspetti geomorfologici e idrologici delle cavità. In particolare, durante l’esplorazione dell’Abisso Polidori, nella Val d’Aip (Alpi Carniche), negli anni 1958-59, mette a frutto le sue capacità, pubblicando su Rassegna Speleologica Italiana (una delle due più prestigiose riviste italiane dell’epoca) uno studio pregevole della grotta (2), che è tuttora attuale. Nel 1961 iniziano le campagne speleologiche della Commissione Grotte sull’Alburno, dove Vianello, salvo un anno sul Cervati (3), vi parteciperà sempre, dando forse il meglio di sé nella sua ormai raggiunta (per l’epoca) “maturità” di speleologo. Su quel massiccio calcareo del Meridione, Vianello esplora quasi tutte le più famose grotte che vengono rapidamente scoperte, tra cui, per importanza, la Grava del Fumo e la Grava dei Gatti, come sempre dedicandosi non solo al rilevamento, pure alle ricerche geomorfologiche e idrologiche. Quello dell’Alburno è uno dei migliori “cicli” di esplorazioni, in Italia, per la costanza dell’impegno, per la qualità dei risultati, per l’ampia mole di documentazione, d’informazione e di studi che saranno prodotti. Vianello, assieme ai suoi più giovani – ma non per questo meno famosi – compagni, porta un contributo alla conoscenza del carsismo profondo non indifferente, pubblicando una nutrita serie di studi specifici sull’area (4), ma non solo, le indagini gli serviranno anche per studi di carattere generale, come quello su meandri e pseudo-meandri (presentato in sede internazionale), dove si richiamerà anche alle sue vecchie esplorazioni sul Ciaorlec (5). Postumo, su Atti e Memorie della Commissione Grotte “Eugenio Boegan”, sarà pubblicato l’ultimo suo contributo sull’Alburno, che riguarderà lo studio della valle carsica di Santa Maria (6), le cui grandi cavità saranno successivamente dettagliatamente indagate dai suoi “allievi”. Nel frattempo, il Canin viene “aperto” nel 1963 dalla Commissione Grotte. Vianello – che rimarrà, come tutti noi, affascinato da questa straordinaria montagna carsica – parteciperà alle più importanti spedizioni, tra cui quelle all’Abisso Boegan e all’Abisso Gortani, anche se (come è stato già ricordato) non nelle durissime “punte”, ormai ad appannaggio di altri. Sarà destino, proprio dopo esser uscito dal Gortani nella spedizione d’inizio anno del 1970 dove, com’è ben noto, aveva collaborato alle riprese filmate RAI nell’abisso, che sulla montagna dove, con entusiasmo giovanile, aveva speso sette anni della propria vita trovasse la morte. Io che, come tanti altri, accorsi per trovare, inutilmente, i corpi sepolti dalla neve, ne ho sempre vivo il ricordo. Tuttavia, il contributo alla scienza di Marino Vianello sarebbe parziale se non si citasse il suo lavoro di traduttore d’importanti testi stranieri, tra cui (per l’influenza che ebbe) quello famoso, dello svizzero Alfred Bögli, sulla “Mischungkorrosion” (o “corrosion par mélange d’eaux”), pubblicato su “International Journal of Speleology” e, grazie a lui, ripubblicato in italiano su “Atti e Memorie” (7). Gli altri due testi (8) furono, uno del viennese Hubert Trimmel, sui depositi di riempimento, che fu presentato nel 1960 al Symposium Internazionale di Speleologia di Varenna, innovativo per l’epoca dato che l’Autore ipotizzava carsismi alpini nel Terziario, che colpì Vianello (così mi confidò), il quale ebbe poi l’intelligenza di far rivedere il testo tradotto al triestino prof. Walter Maucci, l’altro, un lavoro di Herbert P. Woodward, del New Jersey, pubblicato su “Bulletin of the National Speleological Society” nel 1961, sulla “stream piracy theory of cave formation” (che in effetti non ebbe gran seguito): lavori che catturarono, entrambi, la sua curiosità prima e attenzione di speleologo-studioso poi. Il ricordo dell’opera di Vianello non sarebbe ancora completo, e compreso nella sua globalità, se non fossero menzionati i suoi impegni nell’ambito dell’organizzazione della speleologia, sia a livello locale sia nazionale. Anche perché questi oneri furono realmente gravosi, pur se da lui assunti con entusiasmo, e realmente importanti. Senza citare l’impegno di organizzatore di Marino Vianello nell’ambito della Commissione Grotte, che fu indefesso, ma che onestamente altri più e meglio di me hanno il diritto e la capacità di affrontare, egli va innanzitutto ricordato quale uno degli artefici, in Italia, della nascita del “Corpo Soccorso Speleologico”, nell’ambito del C.A.I. Il “Soccorso” sorse all’epoca degli incidenti mortali alla Grotta Guglielmo del 1965 e al Buco del Castello del 1966, dove (in quest’ultimo) proprio Vianello fu uno dei coordinatori il recupero delle salme dei bolognesi Donini e Pelagalli, poiché era ormai chiara l’indifferibile necessità di un’organizzazione a livello nazionale. Ai problemi del “Soccorso” Vianello dedicò molto del suo tempo, sia come responsabile della “2a Zona”, sia come teorico dell’istituzione e tecnico, molto attento (come lo era sempre stato) ai materiali, anche pubblicando (del resto, già prima l’istituzione del “Soccorso”) diversi scritti specifici sull’argomento in sede nazionale e internazionale (9). Come altrettanto importante fu il suo apporto all’organizzazione dell’insegnamento della speleologia nell’ambito del C.A.I. Si tenga presente che, all’epoca (anni Sessanta), non esisteva ancora un’organizzazione parallela nell’ambito della Società Speleologica Italiana, che in quegli anni era un’associazione, per così dire, “di élite” (cioè fondamentalmente una società scientifica, a modello delle altre consimili in Italia), con pregi e difetti conseguenti (posso testimoniarlo, giacché io mi iscrissi nel 1964). Vianello, nella “Scuola di Speleologia”, fu, obiettivamente assieme a Carlo Finocchiaro, uno dei grandi organizzatori, perseguendo una politica che portò, verso la fine degli anni Sessanta, all’istituzione del Corpo Nazionale Istruttori di Speleologia del C.A.I. Tuttavia, l’impegno maggiormente significativo – anche se queste sono priorità per me e magari non per altri – fu quello che lo vide, con il collega di lavoro poi divenuto uno dei massimi uomini politici triestini, Sergio Coloni, prodigarsi, e riuscire a far approvare una legge regionale, veramente innovativa e prima nel suo genere in Italia, sulla Speleologia (10). La “Legge regionale n. 27 del 1 settembre 1966: Norme di integrazione della legge statale 29 giugno 1939, n. 1497, per la tutela del patrimonio speleologico della Regione Friuli Venezia Giulia”, fu prodromica non solo alla tutela della cavità (azione c
he, purtroppo, poi per lunghi anni stentò a mettersi in moto), ma istitutrice del catasto regionale delle grotte e del finanziamento delle attività speleologiche. Per la speleologia regionale fu una svolta, decisiva e profonda; uno stacco dal passato che consentì, negli anni a venire, una diffusione capillare dei gruppi grotte e delle attività speleologiche nell’intera regione. Come peraltro quella Legge costituì il termine di paragone e l’avvio per tutte le attività legislative simili nelle altre regioni interessate dai grandi fenomeni carsici. Profondamente ancorato alla storia, alle tradizioni e al passato (come tutti gli speleologi dell’epoca, mentre oggi questo sentimento è molto più sfumato), in questo caso della “sua” Commissione Grotte, Marino Vianello, colto speleologo-protagonista per un quindicennio, sarà anche attento alle rievocazioni degli uomini e delle imprese del gruppo, dedicando all’argomento parecchi scritti di cui uno postumo (11). È questo – a mio avviso – un “obbligo” che ogni speleologo, capace di farlo grazie alla propria cultura o per i trascorsi, dovrebbe sentirsi tenuto a mantenere, affinché, in ogni occasione, possa essere tramandata la cosiddetta “memoria”. Da vero Speleologo, anche Marino Vianello l’ha fatto.
Pur essendomi imposto di essere sintetico, per non sovrappormi a scritti già usciti su Vianello, l’attività del Nostro non era liquidabile in poche righe. Ne emerge uno speleologo – come uso dire io – “a 360°”; e come pochi ne abbiamo visti, a Trieste e fuori. Come ho già rimarcato: un vero protagonista.
Se in premessa dicevo di mirare a sintetizzare, tramite l’analisi della Sua figura, pregi e meriti di una speleologia triestina che non c’è più e coglierne il rapporto con quella attuale, che appare deficitario, per fornire chiavi di lettura utili alle nuove generazioni e dirigenze, tutto ciò – penso – è trasparso. Senza bisogno di aggiungere altro.
Dire che la speleologia triestina e regionale (tanto per restringere l’ambito) gli deve molto, è banale, ma soprattutto riduttivo. Vianello, da come l’ho conosciuto io (per la verità non molto e, più dall’esterno della Commissione Grotte che dall’interno data la mia brevissima permanenza iniziale in quel gruppo, mentre quando vi ritornai lui era già morto), alle sue indubbie qualità bisognava accompagnare un certo “carattere”, con il quale confrontarsi. Era un uomo, nella speleologia, che s’imponeva, ma che allo stesso tempo aveva pure la capacità, il pregio, di saper dialogare. Abituato, poi, a dialogare a livello nazionale, e con i migliori dell’epoca, sapeva come trattare con la “esasperata” speleologia triestina di quegli anni, dove tutto era polemica, rivincita, a volte sgarbo, fino alle non infrequenti, pessime, azioni di pirateria che avvenivano ai danni dell’uno o dell’altro gruppo. Siccome non valevano tanto i rapporti personali, quanto (giacché i primi erano decisamente sovrastati) i rapporti tra i gruppi, che erano “a tenuta stagna” (eccetto durante le azioni corali, per esempio di soccorso), Marino Vianello si comportava di conseguenza, ma – secondo me – con una sorta di “pazienza” (leggi anche, politica) non comune ad altri, che derivava in primo luogo dall’aver avuto un maestro, al fianco, come Carlo Finocchiaro, poi da una consapevolezza che, finito il “ciclo” dell’“Adriatica”, praticamente nel 1960, la Commissione Grotte, che era da lui degnamente rappresentata (ne fu dirigente dal 1960), a Trieste non aveva alcun “rivale” e aveva la via spianata grazie ad una crescita, progressiva, che definirei (poiché fu) prodigiosa. Ciò però è, allo stesso tempo, una lettura semplicistica, dato che le sue credenziali prima di speleologo poi di autorevole rappresentante del maggiore, in ogni senso, gruppo grotte d’Italia (in termini “quali-quantitativi”), lo ponevano nella condizione di essere ascoltato e ponderato per quel che era. E Vianello “era” proprio perché valeva. Oltretutto, nessun altro – anche perché gli “emergenti” triestini erano parecchio più giovani di lui –, data la sua esperienza sul campo, cioè in grotta, nei congressi, nelle assemblee, era ancora alla sua portata. Lui, in quegli anni a Trieste, aveva colmato un vuoto, ma con autorevolezza non per un riflusso di corrente. Anche qui, e ancora una volta, ho sviato l’attenzione sul rapporto tra Vianello e la speleologia locale, mentre avrei dovuto, invece, fare il contrario, dato che il suo “palcoscenico” – se così posso dire – era in realtà ormai nazionale. Ma questo ha una sua ragione, visto che Marino Vianello, per la speleologia triestina, era il predestinato a guidare, e forse già negli anni Settanta, la Commissione. Ciò era, almeno in senso “popolare”, chiaro a tutti noi. Finocchiaro, del resto non aveva molto a che fare con la speleologia triestina, dato che da una parte era occupato a guidare la politica (leggi la pianificazione) della Commissione Grotte mentre dall’altra era pienamente calato nell’afflato nazionale con i conseguenti impegni. Voglio dire che negli incontri con i gruppi triestini, fuori sede, si vedeva Vianello.
Cosa avrebbe fatto Marino Vianello (per il sottoscritto Marino e non “Nino”, data la non eccessiva confidenza) in futuro? Qui si entra nel campo del futuribile e perciò ogni ipotesi vale quel che vale, inevitabilmente viziati, o sviati, nella valutazione dalle proprie esperienze e dalla personale visione. Penso che, probabilmente, sarebbe andata come si pensava. Vianello sarebbe succeduto a Finocchiaro e avremmo avuto, al vertice della speleologia triestina, uno speleologo con una visione “a 360°” (come del resto era stato il predecessore). Ma più giovane, molto preparato e moderno, non lo so quanto “aperto” o “chiuso” (ma dato il trend della speleologia locale tutto si sarebbe stemperato), il quale, oltre a dare un’ovvia continuità, avrebbe pianificato e sviluppato una speleologia bilanciata, giacché sapeva, perché provato sulla propria pelle, quanto fosse importante la tenuta dei rapporti tra esplorazione e scienza. E in questo senso egli si sarebbe mosso, immagino, con profitto. Forse tutti ne avrebbero guadagnato di più grazie a questa sua visione generale; del resto coloro i quali sono succeduti, o erano – per semplificare il concetto – sbilanciati verso la ricerca o verso l’esplorazione. E ciò – almeno da parte mia e senza voler far critiche del tutto fuori luogo poiché ognuno ha dato il massimo – si è notato. Ma, bisogna anche chiedersi: dove sono questi, benedetti, speleologi “a 360°”? Quelli che invochiamo – o per lo meno che io invoco – non per inverosimili poteri taumaturgici ma semplicemente per un’esperienza e ragionevolezza che consentirebbero, da noi, una svolta e una ripresa. La risposta è lapidaria: pochissimi ce ne sono stati e ce ne sono. Uno di questi era Marino Vianello, morto sul Canin – ahimè – a soli trentaquattro anni.
Ricordiamolo, con commozione e stima.
Rino Semeraro