La ‘Cueva del Guacharo”

Pubblicato sul n. 32 di PROGRESSIONE- Anno 1995
E’ con piacere che pubblichiamo il presente lavoro del nostro amico e collaboratore d’oltre oceano, Carlo Bordon – speleologo ed entomologo – che ringraziamo per I’articolo ma soprattutto per I’affetto che da sempre dimostra per la speleologia triestina e per la C.G.E.B. in particolare. Nel testo, scorrevole ed affascinante, talora velato da sottile umorismo, consente di apprezzare il fascino della Sabana sudamericana e sari sicuramente di stimolo per una futura spedizione congiunta italo-venezuelana.
                                                                                                  La Redazione

DAL VENEZUELA, CON AMORE

 PREMESSE

Probabilmente la più antica notizia speleologica venezuelana è del frate Francisco de Tauste che, nell’anno 1678, menziona I’esistenza della ‘Cueva del Guacharo”, cui segue la prima descrizione della famosa grotta da parte del barone von Humboldt. che la visitò il 18 settembre 1799.
Nel mondo della speleologia sudamericana il Venezuela occupa un posto privilegiato. Al carsismo classico delle numerose ed estese formazioni calcaree distribuite in tutto il Nord del Paese, si è aggiunto in questi ultimi tempi quello delle formazioni di arenarie silicee della Gran Sabana. Un mondo sotterraneo insospettato fino ad un paio di decenni or sono si sta svelando attualmente con una insospettata imponenza negli antichissimi terreni precambrici della Guayana venezuelana.
Malgrado la presenza di fattori cosi favorevoli, la speleologia e in Venezuela un’attività relativamente recente, soltanto nel 1952 che nasce il primo gruppo speleologico moderno, la “Seccion de Espeleologia” della Societa Venezuelana di Scienze Naturali, i cui membri nel 1967 passano a formare la “Sociedad Venezolana de Espeleologia”, della quale ho il privilegio di essere uno dei fondatori.
Al principio, I’attività speleologica non aveva un programma ben definito, ma si appoggiava piuttosto al caso, secondo le notizie che arrivavano sino a noi, le distanze che dovevamo percorrere ed il tempo disponibile. Ci volle del tempo per individuare le varie zone carsiche e definire una graduatoria per ordine di importanza. Avevamo vaghe notizie dell’esistenza di una vasta zona calcarea nella Sierra de Perija, la grande catena montuosa sulla frontiera con la Colombia, dalla quale scende il Rio Guasare, il principale fiume della regione di Maracaibo. Pero, per la distanza della zona e la difficoltà di accesso, rimaneva per noi una specie di miraggio irraggiungibile. Un giorno, esaminando alcune mappe della Cartografia National, ci accorgemmo che qualche cosa di anomalo e di inspiegabile si presentava nel corso del rio Guasare: sorprendentemente il fiume spariva per una decina di chilometri.
Esaminate le levate aeree originali, per scartare la possibilità di un errore cartografico, venne confermata la sparizione temporanea del fiume. E cosi fu decisa la prima spedizione all’Alto Guasare. Era il febbraio del 1973, un’annata particolarmente siccitosa e quindi favorevole dal punto di vista speleologico. Essendo la zona completamente inaccessibile, venne ottenuto I’appoggio delI’Aviazione Militare, che forni un elicottero per la logistica della spedizione.
Questo fu il primo contatto con un’area calcarea di piD di 12000 km2, che risultò poi essere di grande potenziale speleologico, con la recente scoperta di grandi sistemi attivi, tra i quali quello del Saman che, con i suoi attuali 15 km, e oggi il più grande del Venezuela.

 LA SPEDlZlONE ALL’ALTO RIO GUASARE

 Questa prima spedizione confermò la sparizione del fiume e la sua successiva riapparizione nella grotta Zea, una quindicina di km a valle. Questa grotta si presenta come una grande galleria permanentemente allagata e navigabile sino ad una grande frana che impedisce definitivamente il passo. Benchè fossero due mesi che non pioveva, la corrente era ancora molto forte e rimontare i 1800 m di fiume rappresentò una giornata intera di intenso sforzo. Furono scoperte molte altre cavità ma quasi sempre I’ostacolo principale era I’acqua che le invadeva.
La siccità imperversò per altri due mesi. Data la convenienza di approfittare di condizioni speieologiche cosl eccezionali, ed in vista dei risultati ottenuti nella prima spedizione, se ne preparo una seconda, che si realizzo tra il 13 ed il 21 di aprile. Fu a questa seconda spedizione che partecipai e fu cosi che conobbi il Perijà.
II punto di ritrovo era una località nei pressi di Maracaibo, chiamato Playa Bonita, da dove un elicottero dell’aviazione militare ci trasportò a Sincelejo, circa 70 km a Sud-Ovest, che era servito da base di operazioni nella prima spedizione. Sincelejo era una azienda agricola, aperta nella selva di Perijà da contadini colombiani, che gia da anni venivano penetrando e colonizzando la zona. Mentre con il Venezuela la comunicazione era impedita da varie decine di chilometri di selva montagnosa impenetrabile, i contatti con la Colombia erano molto più facili, grazie a una strada sterrata che proveniva da Valledupar.
La scomparsa del rio Guasare sotto terra non risulto essere tanto emozionante come lo immaginavo, niente stile San Canziano, tanto per intenderci: il fiume si perdeva poco a poco nel suo greto fino ad arrivare ad una specie di laguna dove I’ultima acqua spariva tra i ciottoli, penetrando con una certa violenza nelle fessure del sottosuolo. Eravamo in una magra eccezionale. Perché il greto asciutto che continuava diceva chiaramente che in epoca normale il fiume scendeva più a valle per scomparire in un’altra laguna, e più avanti ce n’era una terza dove il fiume arrivava nei momenti di maggiore portata. Più in giù spariva ogni traccia del fiume e la valle si restringeva bruscamente per trasformarsi in orrido burrone, limitato alla sinistra dalla ripida falda della montagna, ricoperta da una fitta selva, ed alla destra da una parete di un paio di centinaia di metri di altezza, a volte strapiombante, prodiga di grotte. Questa gola continuava per circa 5 km, fino ad arrivare a Sincelejo, dove la valle si allargava nuovamente; un paio di km più in giù riappariva il Guasare, uscendo dalla grotta Zea. La discesa per questo burrone era lenta e faticosa, per gli ostacoli rappresentati da un caotico ammasso di grandi blocchi ed alberi caduti, ma compensata dalla superba bellezza dell’ambiente. Più a valle riappariva il greto asciutto del fiume. In condizioni normali l’acqua affluiva dalle numerose grotte e cunicoli che si aprivano alla base della parete. Percorrere questa parte del fiume voieva dire praticare la tecnica del ranocchio, ossia saltare tutto il giorno da una pietra all’altra, per poi rientrare alla base con le ossa rotte.

 L’INGHIOTTITOIO

Nell’esplorazione della zona mi accompagnava quasi sempre Carlos Julio Naranjo perchè, a differenza degli altri compagni, più che il desiderio di fare rilievi e di misurare chilometri di gallerie, ci univa il comune interesse per la fauna sotterranea. Un giorno, scendendo da soli per la parte iniziale del burrone, ci imbattemmo in una grande bocca che si apriva orizzontalmente nella parete, a circa 20 m di altezza. La tentazione era troppo forte. Scalammo con una certa difficoltà la parete ed arrivammo alla bocca della cavità, che risulto essere una grande fessura che, dopo una soglia quasi orizzontale di alcuni metri di larghezza, scendeva quasi verticalmente verso I’interno del massiccio. La cosa pih sorprendente erano i tronchi, alcuni veramente colossali, incastrati all’entrata della fessura ed altri che erano penetrati in profondità, intasando quasi tutto lo spazio disponibile. I tronchi sembravano abbastanza affidabili e cominciammo a scendere, intrufolandoci tra un tronco e I’altro.
Carlos Julio apriva il passo, io lo seguivo un paio di metri più sopra. Ad un certo punto a C.J. si spense la lampada a carburo. Si toglie il casco, I’accendino funziona ma la lampada rifiuta di accendersi. Tenta allora con i fiammiferi, ma nemmeno questi si accendono. A questo punto C.J. comprese ciò che stava succedendo: il gas! Eravamo caduti in una accumulazione di anidride carbonica. Solo la presenza di spirito di C.J. o I’intuizione, non saprei come definirla, ci salvo. Quando si accorse del gas, C.J. mi grido:”indietro! svelti” Se avesse insistito, magari usando la lampadina tascabile, pochi secondi ancora e sarebbe svenuto. lo, non comprendendo ciò che stava succedendo, sarei sceso per aiutarlo e ci sarei rimasto anch’io. Nessuno sapeva dove eravamo, e probabilmente ci starebbero ancora cercando. La presenza dell’anidride carbonica potrebbe essere spiegata con la decomposizione dell’enorme massa di legname. E chissà quanta ce n’era più sotto. Quello che era più difficile da capire era la presenza di questa massa di tronchi tanto al di sopra del fondo della gola. Che la grotta fosse un grande inghiottitoio non c’era più nessun dubbio, perchè per fluttuare tronchi di più di un metro di diametro ed incastrarli come paglia dentro I’inghiottitoio, I’acqua doveva raggiungere un livello di una trentina di metri sopra il fondo della gola, cio che a prima vista sembrava impossibile. Però la spiegazione era una sola: a volte, sicuramente con intervalli di molti anni, qualche piena apocalittica passava oltre I’area degli spandimenti e si precipitava nella gola, trascinando ed abbattendo macigni ed alberi che incontrava nel suo cammino. Raggiunta I’altezza dell’inghiottitoio, che era una specie di laminatoio di un paio di metri di luce e una cinquantina di metri di lunghezza, acqua e tronchi vi si precipitavano con una violenza estrema.

 LA CUEVA DE GUACAMAYA

Tra le tante grotte che si aprivano alla base della grande parete ce n’era una particolarmente interessante, non tanto dal punto di vista speleologico quanto per la fauna che vi albergava. Fu battezzata “Cueva de la Guacamaya” perchè una coppia di questo magnifico uccello (probabilmente Ara Militaris) nidificava in un anfratto presso I’entrata. La grotta è una semplice galleria di circa 300 metri. La volta va progressivamente abbassandosi, fino a meno di un metro e mezzo, per poi terminare in una caverna di 8 metri di altezza.
Presso I’entrata vennero catturati alcuni pipistrelli (Artibeus sp. e Phyllostomus sp.; per raccoglierli, vengono uccisi staccando la testa dalla spina dorsale facendo pressione con il pollice e I’indice, che pena!), che vennero lasciati al suolo – dentro sacchetti di plastica individuali per separare poi gli ectoparassiti – con I’intenzione di riprenderli al ritorno.
Arrivati alla zona di oscurità completa entrammo in contatto con una nutrita colonia di guaciari. II guaciaro (Steatomis caripensis), esclusivamente sudamericano, è I’unico uccello veramente troglobio, in quanto compie la prima parte del suo sviluppo dentro la grotta e possiede un sistema di eco-localizzazione che gli permette di muoversi nella completa oscurità. A differenza dei pipistrelli, la frequenza e perfettamente udibile (circa 5000 cicli) sotto forma di un suono come “tac-tac” che I’uccello emette ritmicamente quando vola. Ha le dimensioni di una gallina. Quando è disturbato o impaurito, I’uccello produce un gracchio, che assomiglia a quello delle galline, ma molto più assordante. I nidi vengono costruiti con argilla sulle anfrattuosità delle pareti. II guaciaro è frugivoro: esce di notte per alimentarsi, soprattutto di frutta di palma. Rientrato al nido, rigurgita i semi indigeriti che cadono al suolo e germogliano, formando una suggestiva prateria completamente bianca per I’assenza di clorofilla.
I guaciari, spaventati dalla nostra presenza, abbandonavano i nidi e si rifugiavano verso I’interno. Quando arrivammo alla cavernetta finale ci trovammo tutti riuniti: noi sei, un centinaio di guaciari e varie dozzine di pipistrelli in un vortice di grida che nessuno comprendeva e di ali starnazzanti che spegnevano le lampade sui caschi; in un’atmosfera soffocante per la temperatura elevata e per le emanazioni ammoniacali provenienti dal guano in fermentazione.
Ritornati all’entrata, constatammo che i sacchetti con i pipistrelli erano misteriosamente spariti. Cercando meglio, un po’ più distante vedemmo qualcosa come delle grosse palle semoventi che si spostavano irregolarmente da un posto all’altro: erano centinaia di grosse blatte attere (probabilmente Megaloblatta) che, dopo aver rotto i sacchetti di plastica, si disputavano ferocemente e freneticamente ciò che restava dei pipistrelli, assieme a manifestazioni di cannibalismo. Lo spettacolo era raccapricciante. Nelle grotte popolate da pipistrelli o guaciari e frequente la presenza di abbondanti colonie di blatte giganti sui depositi di guano. Normalmente sono saprofite, ossia si alimentano dei rifiuti. Ma quando cade qualche animale, come pub essere un bebe di chirottero o un pulcino di guaciaro, per loro si tratta di un dessert prelibato e viene divorato all’istante. Suppongo che la stessa sorte tocchi agli animali che per malattia o età non possono più volare e cadono al suolo.
Credo che la gente che inneggia alle bellezze della natura, ai meravigliosi colori delle farfalle, all’allegria del canto degli uccellini, in realtà non abbia capito niente. Se io fossi Dio, e un giorno mi venisse in mente di creare il sisterna più impersonale, più spietato e crudele che si possa immaginare, dovrei per forza inventare la natura, dove ogni essere vivente passa tutta la sua vita in un eterno terrore: o di restare senza alimento o di essere mangiato da un altro. Ritornati all’esterno trovammo due indios yukpas, vestiti unicamente di archi, frecce e un bracciale sull’avambraccio. Erano venuti a fare raccolta di “pichones” ossia di guaciari ancora implumi, molto ricercati per il loro abbondante grasso. La conversazione con i due yukpas fu abbastanza monotona perchè riuscimmo a comprendere solamente la parola ‘cigarros”.

La capanna, campo base della spedizione. (Foto C. Bordon)

 IL CAMPO BASE

 La presenza del colono colombiano ci risparmio il montaggio del solito accampamento di tende, teloni, ecc. Ottenemmo a prestito una capanna dal tetto di paglia e con le pareti di tronchi, dove potemmo proteggere tutte le nostre cose ed appendere le nostre amache. II colombiano aveva una graziosa moglie, quattro figlie, un cane, due pecari, una scimmia, galline, vacche e maiali. Questi ultimi erano la nostra disperazione. Non tanto perchè alla minima disattenzione si mettevano nella nostra capanna, quanto per il problema dell’acqua.

Grotte al piede della grande parete (Foto C. Bordon)

Mi spiegherò meglio. Eravamo alla fine di una stagione secca eccezionalmente lunga. I fiumi attorno all’azienda erano tutti asciutti. A parte il rio Guasare che riprendeva il suo corso un paio di km a valle uscendo dalla grotta Zea, I’unica acqua disponibile per fare il bagno al ritorno dalle sudate missioni giornaliere, era una pozza residua nel greto del fiume ad un centinaio di metri dall’azienda. Però ogni volta, al nostro arrivo, trovavamo la pozza occupata dai porci, che dovevamo prima cacciare a bastonate per poi poter fare noi il bagno.
Avevamo banane a volontà (venivano  coltivate per alimentare i porci), latte abbondante ed ogni tanto il colombiano ci  offriva qualche gallina. Quindi non c’erano  problemi di fondo in quanto ad alimentazione. Ma due nostri compagni avevano il  pallino della cucina ed erano in continua  gara per inventare piatti nuovi e sempre più  sofisticati. Uno dei due, al secolo direttore  di una banca di Caracas, preparò una sera  una salsa speciale che, per essere completa, aveva bisogno di un tocco di sapore di  menta. II problema fu risolto con pasta  dentifricia!
Mentre i nostri compagni si davano alla  cucina o al dolce far niente, Carlo Julio ed  io ci dedicavamo agli insetti. Un campo di  particolare interesse era quello dei coprofagi, molto abbondanti nel mondo tropicale e  poco conosciuti quelli del Perijk. A parte  che sono molto più seri e responsabili degli  uomini, formando cppie coniugali permanenti e occupandosi dei figli, godono di tutta  la mia simpatia perchè, piu o meno come  noi poveri mortali, passano tutta I’esistenza  spingendo una palla di sterco.
II sistema più pratico per catturarli e di  interrare a livello del suolo un barattolo conn  un po’ di escremento -il migliore e quello  umano -ed il giorno dopo il barattolo e  pieno di coprofagi. Per separarli e pulirli si  versa tutto il contenuto in un colino abbastanza grande, agitandolo a mezz’acqua  (questo era il problema, I’acqua!), fino a  quando gli insetti sono ben lavati. Sento  doveroso spiegare questo aspetto intimo  della vita di un entomologo perchè e bene  che la gente sappia quanti e quali sacrifici  fa un investigatore sull’altare della scienza.
Comunque ai nostri compagni non avevamo spiegato troppo la questione dei coprofagi  e, per evitare malintesi, mettevamo il colino  ben nascosto sotto un asse, su cui ii colombiano aveva posto dei sacchi di sementi. Una  sera, al rientro, i nostri compagni ci ricevettero offrendoci del te: il nostro colino troneggiava trionfalmente al centro della tavola. Carlos Julio ed io ci guardammo negli  occhi e non dicemmo una parola. E neppure bevemmo il te, naturalmente.

 IL RITORNO

Arrivò cosi il venerdì, data destinata al  nostro ritorno. Ma era pure destino che quel  giorno dovesse terminare la stagione secca e cominciare ciò che qui si chiama “el  invierno”, E la grande pioggia arrivo. Gia  dalla sera precedente la tormenta si preannunciava lontana, nella parte alta della sierra. Brontolo tutta la notte. All’alba il Guasare, il cui greto asciutto era stato per noi la  principale via di comunicazione, si presentava come una corrente gialla e impetuosa,  impossibile da guadare. Questo era il miglior momento per andare a vedere come  entrava in funzione tutto il sistema sotterraneo, ma noi avevamo tutt’altro pensiero per  la testa: come uscire di li.
L’elicottero doveva arrivare alle 8. lntanto per il canion Cafiaveral, il torrente che passava a fianco delle  capanne ed il cui greto asciutto era I’unico  posto dove poteva atterrare I’elicottero  comincio a correre un po’ d’acqua, proprio  dal nostro lato.
L’elicottero arrivo alle 10. Non quello  grande che ci aveva portati all’andata, ma  un piccolo Alouette, che era più facile da  manovrare in condizioni di maltempo. La  capacita era molto minore e furono necessari tre viaggi: con il primo partirono tre  compagni, col secondo tutto I’equipaggiamento ed il terzo era per noi: Juan Antonio,  che era il capo spedizione. J.C. ed io. Era  ormai mezzogiorno, e I’apparecchio non  arrivava. Ma intanto arrivo la tormenta, con  molte scariche elettriche, forti raffiche e  qualche scroscio di pioggia.
Noi avevamo solo ciò che portavamo  addosso e facevamo sforzi per non pensare a ciò che sarebbe successo se avessimo dovuto rimanere li.
Finalmente, verso le  17, I’elicottero arrivò. Quasi non si poso,  ma rimase mezzo sospeso nell’aria nell’unico posto del greto non ancora raggiunto  dall’acqua, in un turbine di foglie e polvere  alzate dall’elica e dalle raffiche di vento. Il  copilota stava aggrappato all’esterno delI’apparecchio per aiutarci ad entrare prendendoci per il collo e ci gridava di affrettarci  perchè era da troppo tempo che la turbina  stava accesa.
La mia preoccupazione era divisa tra la paura di avere affettata la testa dall’elica e quella di ricevere un colpo dalI’elicottero che si dondolava impaurito nelI’aria ma, non so come, infine mi trovai dentro, seduto. La prima parte dell’ascesa fu quasi sfiorando a pelo la selva che ricopriva il fianco della montagna, e ogni momento temevo che andassimo a sfracellarci sugli alberi, ma finalmente arrivammo alla cima e I’elicottero si librò dall’altra parte, nella spaziosa vallata. Entrammo un paio di volte in un fronte di pioggia e, siccome proprio sulla nostra testa si trovava un giunto di dilatazione che lasciava passare I’acqua, eravamo bagnati come se stessimo fuori. Anche in altre occasioni avevo potuto osservare che i militari curano molto motori e turbina, ma a quelle cose che non sono considerate parti vitali non fanno troppo caso. II giunto era una di queste. A Playa Bonita ci scaricarono e, senza nemmeno darci il tempo di ringraziare, ripresero il volo verso Maracaibo scomparendo in una nube di polvere rossa. Non lessi alcuna notizia di elicotteri caduti, quindi devo ritenere che siano arrivati a destinazione.
Cominciò cosi il viaggio di ritorno, quei 700 e rotti km che ci separavano da Maracay. Avevamo una camionetta, quelle che in America si chiamano ‘pick-up”, con il cassone praticamente vuoto, coperto con una grande tela cerata per proteggere i nostri zaini. La tormenta ci sorprese prima di arrivare a Maracaibo e ci segui violentissima fino a Coro dove ci fermammo per dormire qualche ora. L’illuminazione dei lampi e fulmini era continua, ma la visibilità era minima a causa della pioggia e procedevamo lentamente, guidandoci con la banchina laterale. Un fulmine cadde sulla banchina, un paio di metri davanti a noi. C.J., che stava guidando, istintivamente frenò bruscamente. Segui un tremendo colpo sulla cabina e immediatamente rimanemmo sepolti da una valanga d’acqua. Era successo che con la pioggia il cassone si era riempito e con la brusca frenata l’acqua si era abbattuta sulla cabina. I due spaventi si sovrapposero e ci volle un certo tempo per smaltire l’adrenalina.
A parte il fatto che dal giorno prima non avevamo praticamente mangiato, C.J. era rimasto senza sigarette, e questa era per lui una tragedia. Ma era Venerdì Santo, che e I’unico giorno dell’anno in cui in Venezuela e tutto veramente chiuso. Finalmente, passato un ponte, trovammo un distributore di benzina con un ristorante gestito da portoghesi – sorprendentemente aperto – e comprammo biscotti e sigarette.
In quel momento arrivò un tipo che ci domando da dove venissimo. “Da Maracaibo”, rispondemmo. “Ma come avete fatto a passare se il ponte è stato portato via dalla piena?” Evidentemente noi eravamo stati gli ultimi a passare. Per questione di secondi. Leggemmo il giorno dopo sui giornali che tre macchine erano cadute nel fiume, con due morti ed un numero imprecisato di dispersi.
                                                                    Carlo Bordon – Maracay Aprile 1995