ECUADOR: AMORON UCTU

Pubblicato sul n. 28 di PROGRESSIONE – Anno 1993
L’altro anno il nostro girovagare per l’Ecuador ci aveva condotti sulle sponde del Rio Napo, per trascorrere l’ultimo di dell’anno in una baracca nel villaggio di Puerto Rocafuerte, l’ultimo avamposto dell’esercito ecuadoregno nell’oriente amazzonico, ai confini con il Perù.
Lontano dalle libagioni imposte dalla nostra civiltà industriale, brindavo con una birra calda, fumandomi l’ultima sigaretta rimastami, osservando il fiume e con lui il tramonto. Senza immaginare che da lì a pochi giorni, finito di risalire il fiume che mi aveva condotto laggiù, avrei avuto l’opportunità di fare un po’ di speleologia, magari turistica, senza sacchi e cordami vari.
Dopo esserci accomiatati da quell’oceano di verde chiamato Amazzonia, con un autobus alquanto macilento ritornammo verso l’altipiano andino, ma bisognava fare ancora parecchia strada lungo un percorso alquanto eterogeneo, tra colline lussureggianti, valli ripidissime, tanta foresta e passi desolati, sotto una pioggia torrenziale. Giungendo dopo metà viaggio in un paese chiamato Tena, ove alloggiammo finalmente in un buon albergo.
Leggendo una guida turistica scoprimmo l’esistenza di una grotta nei paraggi, attrezzata, a detta dei locali, per delle visite “turistiche”: Amoron Uctu (o Cavernas de Jaumandy); dopo tanta foresta e tante montagne l’occasione di riconciliarci con il nostro ambiente prediletto era ghiotta, e non ce la lasciammo sfuggire.
Il giorno successivo, senza difficoltà, giungemmo all’entrata posta al margine di una stradina sterrata; per entrare bisognava pagare una somma ridicola ad un simpatico vecchietto che ci fece intendere di poter fare ciò che più ci piaceva.
Salita una china giungemmo in vista dell’entrata, ovvero una galleria percorsa da un torrente che s’immette in una bellissima piscina, con tanto di sdraio ai lati per prendere un po’ di sole (quando questi si sarebbe degnato di svelarsi attraverso gli incombenti nuvoloni neri.
Tralasciati i vivaci e coloriti commenti riguardo l’entrata, accendemmo le frontali e iniziammo a percorrere la galleria che dopo pochi metri risultava essere occupata dal torrente; per procedere non rimaneva che arrampicare sulle pareti, magari aiutandosi con il tubo dell’acquedotto, sistemato spesso in posizioni molto vantaggiose per la nostra progressione (ci ha permesso di superare cascatine e laghetti semplicemente percorrendolo a cavalcioni, incuranti dei sinistri scricchiolii, a volte poco amichevoli).
Avanti incontrammo la luce proveniente da un’entrata superiore; continuammo a seguire l’acqua, per giungere alla fine al cospetto di una piccola diga che funge da sbarramento per il bacino di contenimento e la raccolta dell’acqua per il provvidenziale acquedotto.
Oltre il lago, con la sua acqua nera, la cavità proseguiva, per cui spogliatomi proseguii stoicamente ancora per un centinaio di metri, sin tanto che il timore di incontrare qualche ‘mordace” animaletto locale mi convinse di tornare indietro.
Raggiunta la diga, assieme ai miei pazienti compagni ritornammo verso l’entrata superiore da cui uscimmo per poi ridiscendere alla strada lungo una dorsale d’erba alta.
I locali ci assicurarono che era l’unica grotta dell’Ecuador, ma poi consultando l’Atlas di Courbon scoprimmo – naturalmente – che tali notizie non erano proprio precise.
Mentre Flavio scattava una marea di foto (senza però aver prima inserito il rullino nella macchina…) ho provveduto ad eseguire un rilievo speditivo e ad assumere alcune misure termometriche (all’interno +25°).
Alla fine non rimaneva che entrare … in piscina per rinfrescarci un poco le idee (e le membra…); quindi ritorno in paese, scroccando un passaggio ad un gruppo di facoltosi turisti, a mangiare e bere, come è giusto fare quando si esce da una grotta, a prescindere dalle sue dimensioni.
Hanno partecipato: Paolo Pezzolato e Flavio Vidonis della CGEB nonché Maurizio Biondi della AXXXO.
Paolo Pezzolato