TOCCATO IL FONDO NEL POZZO NERO

Pubblicato sul n. 4 di PROGRESSIONE – Anno 1979
Due Progressioni fa avevo detto di Sciacca, brace coperta ravvivata dalla scoperta del Pozzo Trieste quando pareva che la nostra storia qui fosse finita per mancanza di sponsor e non certo di problemi o di interesse. Non avevo parlato però di Giulio e della contagiosa infatuazione per queste grotte, ma le sue spiegazioni non soddisfano e resterebbe solo la psicanalisi, magari nel retrobottega di Pepi S’ciavo tra propiziatorie esalazioni di porzina.
Scherzando un pò meno, la monospeleologia del Comandante con le sue reiterate crociate per la conquista del Santo Cronio possiamo capirla solo noi vecchi mercenari della prima ora, sempre pronti a partire malgrado l’anagrafe ogni volta meno favorevole e ricordo di sudori ed abbrutimento. Il nostro soldo, mai sicuro ma poi regolarmente percepito, sono state le immancabili scoperte ed il piacere di veder Giulio trasfigurare dietro la plancia, un uomo nuovo che stentiamo a riconoscere quando si torna agli smonanti andirivieni triestini tra la sede e Io spaceto.
L’assedio al Monte Vaporoso era dunque tolto da quattro anni quando una nostalgica pattuglia trovò il punto debole nei bastioni e Giulio staccò giubilante l’armatura (giuboto de pele, braghe de veludo, capèl de mandrier) dicendo che bisognava ancora partire per la terra dei mori, anche se nessun pontefice avrebbe sostenuto la nostra impresa. Al caso lo avrebbe fatto lui ed infatti alla fine così fatalmente fu. Prima di andare perdemmo Tom, il migliore, il Maestro ci benedì con la mano sinistra, la nostra bandiera era ancora quella dei Conti di Siracusa ed il motto «Lulo lo vuole». Recavamo ogni sorta di ordigni per captare gli orgasmi della montagna, manovra diversiva perché il nostro drago era il grande baratro e noi gli scudieri di Marietto che lo avrebbe affrontato con armi nuove e strane preparate in segreto. Alcuni retrogradi avrebbero preferito gli antichi ferri con i quali si erano vinte tante fiere, nessuna per la verità così cattiva ed infine Marietto era maestro d’armi e se fosse soccombuto mai tomba sarebbe stata tanto gloriosa sotto terra: ICI GHERBAZ A VECU LES DERNIERS JOURS . . Loubens poteva andar a scondersi.
Pino e Kluno che banalmente preferivano la vita rotolarono invece nel cratere e mentre ogni mattina si contavano nuovi infermi il mostro gongolava guatando il palanchino da dove Marietto gli sarebbe piombato in bocca, indifferente a frecce e fiamme che gli scagliavamo per studiare le sue debolezze. Ancora adesso poco sappiamo di lui.
Venne il giorno temuto ed i frati ci accompagnarono all’ingresso della tana in corteo suscitatore di contrastanti sentimenti, nelle strettoie il vento fischiava attraverso i merletti della veste di Padre Pisa entrato ad esorcizzare o forse a chiedere pietà per il piccolo uomo d’argento che avanzava tra volute di vapore nella Galleria Quattro Stagioni, quasi agnello predestinato. Speleologia od olocausto? Poi Marietto si appese alla corda e noi dovevamo essere inerti spettatori della sua faccenda personale, ma presto cominciarono ore interminabili e pur orribilmente veloci, perchè il cont-down poteva finire d’un tratto e lo zero era morte. In questo tempo ognuno restò solo e si rivolse a qualche vecchio protettore, Calogero, Eugenio o il pipistrello stellato del 2000, mentre Giulio vagava dal Réposoir allo scalandrone, comandante senza ordini per una ciurma sbigottita dall’evento che la chiromanzia voleva ineluttabile. La restituzione del gallo appariva adesso un perfido inganno.
La bestia nera pareva dunque aver vinto, ormai solo l’eutanasia di una maniglia Dressler meglio centrata poteva fermare l’esperimento di resistenza biologica che avrebbe cambiato il nome al Pozzo Trieste. Quando il nefando congegno lasciò la presa a nessuno restava molto da spendere e tuttavia non sapremo mai chi avrebbe mollato per primo, se quelli di sopra o l’animuccia attaccata al filo Edelrid ed alla nostra cattiveria. Potremmo dire che fu un baratto; lasciammo all’abisso il Santo, un bombolone sfiatato, la corda recisa, qualche strumento ed aggiungendo due sacchi di sabbia avemmo lo speleonauta buono per un’altra volta. Era il segnale di cessato eroismo, ognuno poteva sfogare a modo suo tre ore di grinta più o meno autentica e così gocce inedite caddero sui pavimenti crostosi del Labirinto. I due salvati si abbracciarono e con sorprendente rapidità la tragedia virò in kermesse televisiva, in fin dei conti non era successo niente ed il balletto sul palanchino poteva essere una originale coreografia acrobatica, da non rifare, consiglierei, senza rete. All’uscita trovammo Pino che aveva sofferto da solo, la luce fu spenta, lo spettacolo era finito. Per il prossimo Rocco ed i suoi gradirebbero una compagnia locale, ed a parte il fair play poco inglese, possiamo essere d’accordo. La troupe Perotti lascia la piazza dopo 22 anni, la prima donna ha le varici e l’attor giovane perde il pelo. Signori si chiude, come dicevano sul tardi in certi posti che adesso appunto sono chiusi.
Questa ultima avventura siciliana più di qualsiasi altra azione speleologica svoltasi qui od altrove è stata ricca di insegnamenti (anche finanziari, ahi ahi) di cui solo gli sciocchi non terranno conto. Nel calore delle stufe sono trasudate come sempre nobiltà e miserie, ma per noi amici di lunga data non potevano esservi sorprese, semmai la conferma di aver scelto bene venti anni fa i membri di questo splendido sodalizio per la vita e per la grotta, nel quale accogliamo ad honorem l’intramontabile Giulio. Mai uomo ha speso tanto del suo per pompare aria dentro una caverna e lo stesso alla fine tutti i palloni erano sgonfi come la tasca danarifera del suo giubòto, ma essendo questa sovrapposta al cuore resta incerto il motivo per cui, palpando da questa parte, il suo occhio si inumidì alla nostra partenza, presagio forse di un congedo senza ritorno.
Dario Marini

SCIACCA 1979 – LE STUFE VAPOROSE DI SAN CALOGERO
Le Stufe vaporose di San Calogero sono giustamente famose per le cure termali e per il grande interesse archeologico suscitato dalla scoperta, nel 1957, delle deposizioni preistoriche. La vastità del fenomeno carsico sulle pendici del Monte Kronio è però stata messa in evidenza dalla scoperta del Labirinto Aspirante nel 1974 e del Pozzo Trieste nel 1978.
Le Stufe, la Grotta del Lebbroso, la Grotta Cucchiara con il suo Labirinto Aspirante ed il Pozzo Trieste, fino alla Grotta del Gallo, fanno probabilmente parte di un unico sistema percorso da correnti d’aria fredda in entrata (Gallo – Cucchiara – Labirinto) e calda (37-380, marzo 1979) in uscita (Stufe, Lebbroso, Pozzo Trieste). Lo studio di queste correnti e delle condizioni climatiche delle grotte sono lo scopo principale della VII spedizione. Altri obiettivi sono la discesa del Pozzacchione situato alla fine della galleria di fondo delle Stufe (stimato una quindicina di metri), la discesa del Pozzo Trieste (sondato per 104 metri) e l’esplorazione del Lebbroso.
Per il Pozzo Trieste è stato predisposto un palanchino da sistemare sull’orlo pozzo per operare agevolmente in un ambiente che, con i suoi quasi 38° e 100% di umidità, crea già di per sè dei problemi.
Mentre scarichiamo i bagagli vengono a chiamare Filipas: Guidi è caduto e si è fatto male. Ci precipitiamo all’ingresso delle Stufe, dove, tra volute di vapore, scorgiamo Gherbaz indaffarato attorno a delle tavole, mentre Perotti, al telefono, chiama l’ambulanza. In un angolo Coloni si sta lavando il sangue che gli cola dalle gambe. Di fronte, facce sconosciute e tirate prendono fiato. Sono alcuni ragazzi del CAI di Palermo che, chiamati da Gherbaz, visitavano la grotta.
A frammenti ricostruiamo l’accaduto. Mentre scendevano le scale fisse Coloni è caduto trascinando Guidi che lo precedeva. Per la spinta inaspettata questi è volato giù dalla rampa finendo, svenuto, sotto il Plateaux.
Il primo soccorso gli è stato portato da Coloni stesso che, sistemandolo alla meglio, gli ha collegato il tubo dell’aria alla tuta. L’allarme dato da Coloni ha messo tutti in moto. In breve la barella di fortuna è pronta e mentre un gruppo rimane fuori di riserva, una squadra scende per il recupero. Nel frattempo, fortunatamente, Guidi è rinvenuto ed aiutato dagli altri può risalire con i suoi mezzi. Portato in ospedale con l’ambulanza, se la caverà con una spalla ingessata ed una giornata di stato confusionale.
Durante la settimana precedente al nostro arrivo, il primo gruppo ha provveduto ad iniziare tutti i lavori preliminari quali la sistemazione delle tubazioni d’aria alle Stufe, alla Cucchiara, al rilevamento delle sezioni per le misure di portata, la preparazione del palanchino ed l’allargamento dei passaggi per il suo trasporto.
Mentre si riprendono le misurazioni di portata, prosegue il lavoro di sistemazione dei materiali sia alle Stufe, sia alla Cucchiara, dove nel frattempo è stata scoperta una quarta finestra sul Pozzo Trieste che si presenta in condizioni ideali per il palanchino. E’ necessario, però, un ulteriore lavoro di allargamento del passaggio che la collega al «Réposoir». A questo si dedica Filipas coadiuvato da un minatore locale.
Le misure di portata proseguono fino al Gallo, dove l’aria aspirata si perde in alcuni passaggi in fondo alla galleria. Nonostante la breve schermaglia nello spazio piuttosto angusto e fuga in una fessura del rettile (vipera?) rinvenuto tra le pietre, eseguiamo dei lavori di scavo tendenti a seguire la corrente d’aria. Dopo aver forzato diversi passaggi e percorsi alcuni cunicoli ci si ferma davanti ad un’ennesima strettoia.
Un’improvvisa perturbazione atmosferica modifica momentaneamente la situazione nelle grotte. Quella del Lebbroso, che normalmente emette vapori, aspira aria fresca. Se ne approfitta per scendere alcuni cunicoli ed un pozzo di una ventina di metri. Il ritorno dell’aria calda blocca ogni ulteriore esplorazione.
A questo punto l’attenzione di tutti è al Pozzo Trieste. Il palanchino è ormai assemblato e bisogna piazzarlo sul pozzo. L’operazione riesce alla perfezione e la robustezza dello stesso è incoraggiante. Non disponendo dell’analisi dell’aria del fondo causa la mancata collaborazione del laboratorio di ricerca, viene usato come cavia un galletto messo a disposizione da Padre Pisa priore del vicino convento. Dopo mezz’ora di permanenza, risale vispo ed arzillo e la termosonda calata sul fondo dà una temperatura non superiore all’orlo, anzi inferiore di un grado. A Gherbaz non rimane che scendere.
Per l’occasione interviene una squadra della RAI a filmare l’operazione. Sotto la luce dei loro riflettori, rivestito da una tuta alluminizzata, Gherbaz si appresta alla discesa. Tra le varie cose, si porta dietro un bombolone d’aria compressa per il raffreddamento ed una statuina di S. Calogero che lascierà sul fondo per desiderio di Padre Pisa. La discesa è più lenta del previsto ed arriva sul fondo con la bombola pressochè vuota. Nel programma era prevista una permanenza di un quarto d’ora, quindi inizia subito l’esplorazione del fondo. Dall’alto ne seguiamo la luce, ma il tempo passa veloce ed è subito ora di risalire. Sul palanchino, il primo tentativo di sganciare i sacchi di contrappeso va a vuoto. Tutto il sistema di bloccanti e carrucole si è incastrato.
Quello che in condizioni normali è un incidente banalissimo risolvibile con calma senza problemi di tempo, qui assume proporzioni allarmanti. Comincia l’opera frenetica di Marini e Filipas per liberare la corda; gli attrezzi più svariati passano di mano in mano, perdendosi anche nel baratro da cui giunge, via radio, la voce preoccupata di Gherbaz. La fatica, il caldo, lo stress sono insopportabili, bisogna prendere fiato. L’orlo del pozzo viene abbandonato per raggiungere il Réposoir. L’improvviso silenzio che scende nel pozzo prostra ancor più Gherbaz a cui non rimane che stringere accanto a sè la statuetta di San Calogero. Pochi minuti di discussione, poche boccate d’aria fresca e poi di nuovo nel calderone. Il tempo passa inesorabile ed è imperativo liberare il sistema a contrappesi. Impensabile l’idea di tirar su di peso una persona, per 100 metri, in quell’ambiente.
Alla fine, con una grossa cesoia, viene liberato il bloccante ed inizia il recupero. Nonostante i contrappesi la risalita è lenta: con l’ausilio di una maniglia e di una corda viene recuperato metro dopo metro.
Finalmente Gherbaz giunge sul palanchino, da dove viene spinto, tirato, portato fino allo sbocco d’aria fresca della «via dei Furbi». La tensione si allenta, gli operatori RAI impegnati fino a quel momento a tirar corda come tutti, mettono mano alle cineprese e riprendono il loro mestiere. L’abbraccio tra Perotti e Gherbaz suggella la fine del primo round con il Pozzo Trieste. All’aperto ci attende Guidi che, ingabbiato nell’ingessatura, ha atteso impotente la fine del recupero.
L’indomani il programma prosegue. C’è da tentare l’esplorazione del Pozzacchione ed è quindi necessario continuare i lavori preparatori. I tubi dell’aria vengono portati fino
all’orlo assieme alla linea telefonica ed alla illuminazione. Il pozzo viene armato con scale e corda e predisposto per la discesa. Con Bone, Marini, Schiavato in appoggio, questa viene eseguita da Filipas senza inconvenienti. Sul fondo una serie di cunicoli, in uno dei quali viene rinvenuto uno scheletro umano perfettamente conservato. L’assenza di circolazione d’aria sul fondo fa supporre che la corrente d’aria calda entra probabilmente da qualche apertura lungo le pareti.
Molte disavventure ed una notevole messe di dati, grazie anche alle eccezionali condizioni atmosferiche verificatesi durante il periodo, sono il bilancio di questa campagna. Qualche interrogativo è stato risolto, ma nuovi si sono aggiunti a quelli insoluti.
Alla campagna, svoltasi dal 3 al 28 marzo, hanno partecipato Giulio Perotti per la organizzazione Natale Bone, Giorgio Coloni, Augusto Diqual, Luciano Filipas, Mario Gherbaz, Pino Guidi, Dario Marini e Mario Schiavato.
Augusto Digital