INCIDENTE AL FROZEN

Ingresso del Frozen in parete. (foto S. Savio)

Estate 2018: durante un’esplorazione nell’abisso Frozen uno speleologo precipita in un pozzo. Poteva essere un incidente con esito fatale e invece, per fortuna, si è con­cluso tutto nel migliore dei modi. Per que­sto abbiamo pensato di proporvi il racconto dell’accaduto da diversi punti di vista: quello dell’infortunato, quello dei suoi compagni di esplorazione e quello dei soccorritori. Un racconto a più voci per celebrare quel lieto fine che vorremmo essere sempre la conclu­sione di ogni vicenda di questo tipo.

VOLARE NON È PREROGATIVA DELL’UOMO

Non siamo stati fatti per volare; siamo stati fatti per perseguire la virtù e la cono­scenza, ed è finita che voliamo lo stesso, a inseguire i nostri sogni. Alcuni di noi preferiscono inseguire il so­gno della scoperta e il fascino dell’esplora­zione sottoterra, per vie oscure tracciate dal respiro della Terra e dallo scorrere potente dell’acqua. Non è un percorso privo di ostacoli e pe­ricoli; i primi vengono superati con ingegno e ostinazione, i secondi si affrontano con coraggio e, quando cadiamo, con lo stesso ingegno e ostinazione. Quando i nostri amici affrontano la prova più dura sottoterra, cor­riamo ad aiutarli. Affrontiamo i pericoli del mondo ipogeo perché sono il prezzo da pagare per non svilire i nostri spiriti, incatenarli a un como­do divano in attesa di un destino pigro e sonnacchioso. Li affrontiamo consapevoli di percorrere una strada che porta a grandi ricompense per lo spirito, ma che non ci ri­empirà il portafoglio anzi, tende piuttosto a vuotarlo. Il disinteresse verso le ricchezze materiali anima gli Argonauti del sottosuolo, creando uno spirito di comunione con tutti coloro che si imbarcano per questi mari ignoti; la nostra comunità così cresce, chiama a sé i roman­tici, i poeti, i reietti, i pazzi e i visionari. Ci amiamo l’un l’altro nella nostra dolce follia in una misura che pochi tra noi sono disposti ad ammettere. E corriamo ogni volta che uno di noi ha bisogno di aiuto. Se Icaro fosse oggi uno speleologo avrebbe uno stormo di amici pronti a soste­nerlo. Il destino, quel pagliaccio crudele, ha deciso di darmi una preziosa lezione questa estate del 2018 in un abisso in esplorazione del Canin. Tutta questa bella premessa, fatta di metafore sul volo, serve solo a ricordarmi che ho volato anch’io; certo, in grotta e non nei cieli. E più come un pezzo di piombo che come un nobile pennuto. Non ricordo nulla del volo, ma la cosa non mi stupisce; mi era già successo che la mente annullasse la coscienza e il ricordo di un incidente. Meglio così, credo; probabil­mente tornano tutti nei sogni i brutti ricordi come le speranze e i rimpianti. Ricordo bene il risveglio, c’era qualcuno che urlava e sentivo il corpo terribilmente pesante. Ancora più buffo era vedere Roc­co sopra di me, quando fino a un momen­to prima era sotto. Poco dopo (un minuto, un’ora!?) realizzavo cosa era successo: ero volato giù per il pozzo, e non ero morto sul colpo. Sentivo intanto Rocco parlare con Siba e Adriano, dare istruzioni; ero già più tranquillo, potevo affidarmi alla sua esperienza e preoc­cuparmi solo di collaborare. E non fu facile per Rocco e Adriano spostarmi, non soltan­to perché con vestiti e attrezzatura sfioro il quintale. Sentivo la loro tensione, la paura nell’affrontare senza preavviso questo bru­sco mutamento di priorità nell’esplorazione. Mi spostarono da sotto il pozzo (10 metri, 10 chilometri!?), mi misero sopra alla corda, circondato dai sacchi e con tutti i piumini che poterono recuperare; nel frattempo ero tornato lucido, il dolore acuto è una cura sor­prendente al torpore da dolore diffuso. Il go­mito destro era andato, frattura dell’olecrano quasi sicura- ho poi scoperto in ospedale di averci azzeccato, peccato non aver scom­messo sul numero di frammenti.

Il ghiacciaio del P. 130. (foto S. Savio)

Altra storia era l’addome, il dolore a barra che sentivo mi impediva di fare respiri a fondo e trasforma­va ogni movimento in sofferenza. Le costole sembravano intatte, l’addo­me restava trattabile, il respiro era regolare e simmetrica l’espansione del torace. Difficile dire se fosse semplicemente il contraccolpo o qualcosa di serio. Fatti i ri­tuali controlli alla colonna vertebrale, verifi-cata presenza di sensibilità e mobilità agli arti, esclusa traumatologia al cranio, ero piuttosto sicuro di aver scansato le conse­guenze più orribili di un simile trauma, e che alla peggio sarei morto di emorragia addo­minale. Dopo aver raccolto tutte le informazioni del caso, Rocco si preparava a uscire dietro a Siba, lasciando Adriano a tenermi compa­gnia. Quale meravigliosa badante si è rivela­to essere quel vecchietto logorroico; mi ha tenuto compagnia, mi ha aiutato a fare cose che ogni uomo dovrebbe poter svolgere in autonomia e in intimità (e non mi riferisco certo all’avermi rollato un orribile spagnolet­to). Ero al caldo, in compagnia, sapevo che non avevo nulla di grave o che me ne sarei andato in tempi relativamente brevi. Ma ero tranquillo,  ingannavo l’attesa con Adriano giocando a registrare i miei parametri vitali, calcolare in quanto tempo sarebbero arrivati i soccorsi, pensare a cosa scrivere alla mia famiglia se avessi capito che la situazione stava evolvendo in peggio. Non potevamo sapere cosa stava suc­cedendo fuori; le prime informazioni date in esterno avevano scatenato una certa urgen­za nei soccorritori, tanto da indurli a preferire l’elicottero alle macchine. Recuperati un po’ di amici sparsi nei vari campi speleologici in giro per l’altopiano, la squadra di 1° soccor­so ci raggiungeva in tempi impensabili. Sen­tivamo voci nel meandro sopra ma non po­tevamo credere fossero arrivati così presto. Da quel momento in poi fu facile, per me; accudito e coccolato, nutrito e tenuto al cal­do, ho passato le ore successive a godere il tepore, più che del sacco a pelo, dell’affetto e partecipazione dei miei amici. Le difficoltà non erano certo finite, restavano un mean­dro da allargare e uno speleologo discreta­mente pesante da imbarellare e trasportare fuori da 200 metri di profondità. Ma sapevo che oramai era solo una questione di tempo, sull’ostinazione e competenza della squadra non avevo dubbi; li avevo visti fare cose ben più difficili. Inevitabilmente, quando amici estra­nei all’ambiente speleologico mi chiedono dell’incidente la questione che maggiormen­te suscita angoscia è l’attesa; posto che nessuno ritiene che il volo sia stato piace­vole, ciò che li colpisce di più – e ritengono dunque debba aver angosciato anche me – è la lunga attesa. Solo, al freddo e al buio. Fa­tico a spiegare loro quanto in realtà stessi relativamente bene. Ero ovviamente preoccupato per la mia famiglia, fuori, a cui non potevo comunicare di persona le mie condizioni e rassicurarli; sapevo che c’era chi lo faceva al posto mio, e me lo facevo bastare. Ero in pensiero per i ragazzi che sta­vano adattando la grotta alle esigenze del passaggio di una barella carica, sapevo il rischio a cui si esponevano per aiutarmi. Durante il trasporto, che per me è stato di assoluto riposo, sentivo lo sforzo compiuto dai tecnici del Soccorso e non potevo non sentirmi in colpa per tutte le pene che gli facevo passare. Sapere che al posto loro non avrei ugualmente risparmiato gli sforzi ha reso il trasporto meno penoso, ma il de­bito che ho accumulato è comunque note­vole; non ho mai ricevuto tante osservazioni sul mio peso e sulla necessità di dimagrire quanto prima. Ci sarebbe ancora molto da scrivere, di come sia stato uno shock uscire all’aria aperta, di come la luce del sole e il vento si­ano stati quasi offensivi dopo le ore passate in grotta. I suoni forti del campo esterno, la confusione, le persone, le notizie, tutto mi è risultato immediatamente molesto. Il volo in elicottero ha sancito la fine dell’intervento e l’inizio del percorso ospedaliero, e adesso grazie a ortopedici e anestesisti ho di nuovo un gomito e, vista l’esplosione di frammenti d’osso che gli ho portato in sala, non è poco. Negli anni ho assistito a scene raccapric­cianti in grotta come in montagna; episodi di pura noncuranza delle più basilari norme di sicurezza perpetrate con un sorriso da inso­spettabili compagni di avventure. È davvero buffo che sia capitato proprio a me, giacché tendo a considerarmi una persona prudente,di cadere in una di queste trappole. Buffo, non certo ingiusto. Doveva succedere e in­colpo solo me stesso.

Ingresso abisso Turbine (Foto archivio CNSAS)

Ringrazio semplice­mente di essere sopravvissuto e di aver po­tuto imparare la lezione più importante; una vita di attenzioni non ti salva da un’unica im­prudenza. Si vive, e si muore, una volta sola. Grazie alle “persone meravigliose” che popolano questo strano mondo che è la speleologia, che si dedicano al soccorso nella sua forma più pura e anacronistica, oggi sono qui, a cercare di smaltire una dipendenza da terapia antidolorifica ipo­gea SUPER. Sono qui, pronto a rientrare in grotta con lo stesso spirito di sempre, forse ancora più consapevole della bellezza di ciò che faccio (ma sicuramente più propenso a ridondare nelle misure di sicurezza). Sono un po’ in imbarazzo, perché vorrei fare un po’ di ringraziamenti ma la paura di offendere qualcuno per non averli fatti è superata dalla certezza di dimenticare qualcun altro, per il semplice fatto di aver passato un periodo sotto stupefacenti tanto lungo da far invidia a un tossico. Ma rischierò.

Grazie Rocco per essere rimasto lucido e razionale. Grazie Adriano per essere un romantico e amorevole vecchietto. Grazie Siba per aver volato sulle corde. Grazie Lollo per aver gridato con largo anticipo che stavano arrivando i soccorsi ci hai quasi fatto preoccupare. Grazie Celly per le droghe. Grazie. Gra­zie. Grazie Rock per tutto il tuo aiuto (e per avermi calpestato). E confesso che dopo l’arrivo di Celly ri­cordo davvero poco. Ricordo a sprazzi tanti amici venuti a controllare che fossi vivo, ad alcuni probabilmente dovevo dei soldi.  Grazie Moreno per aver sacrificato la cer­vicale per tenere la barella. Grazie Wanda, grazie Andrea, grazie Pa-olino. Grazie Totò, grazie. Però, sapete una cosa? Ho appena ini­ziato, e mancano ancora due squadre, i disostruttori e tutti quelli in esterno che coor­dinavano. Li ringrazierò con calma.

Stefano Guarniero

FROZEN CRONACA DI UN SOCCORRITORE

Abisso FROZEN. foto Archivio CNSAS)

È Sabato pomeriggio 4 Agosto, ho caldo e vado in doccia. Ore 15.15, esco dalla doccia e guardo il telefono. Ho una chiamata persa: Lollo. «Chiamata da Lollo di Sabato? Merda!». Lo richiamo immediatamente «Ciao Lol­lo, dimmi.» Lollo: «Incidente grave al Frozen,…Giu­sto. Era con Rocco,Balza e Siba che è usci­to a dare l’allarme. Giusto stava cambiando l’attacco di un pozzo ed è partito un chiodo. Ha fatto 15 metri. Sembra grave ma ancora vivo!» Io: «Porca Troia!… OK,ci vediamo in sede fra 20 minuti e prepariamo la partenza». Chiamo Petri. «Ciao Marco. Hai saputo dell’incidente?». Petri: «Si, ho letto adesso la chat». Io: «Bene, corro a Padriciano e tu intanto fai le chiamate». Ore 15.45, sede del soccorso a Padricia­no. Lollo, ci comunica che ha sentito Bec­cuccio che è a Bovez e sta contattando l’e­licottero, poi si recherà direttamente a Sella Nevea. Inoltre Beccuccio “Uccio” allerterà anche la squadra Veneta, non si sa mai. Ore 16.15 Padriciano Arrivano 4 tecnici fra cui Trevi che è uno dei sanitari nazionali. Beccuccio ci comuni­ca che l’elicottero atterrerà al piccolo aero­porto di Prosecco. Prepariamo immediatamente i sacchi con il materiale medico e i telefoni per la prima squadra. Petri porta i primi 4 tecnici all’aeroporto e alle 16.45 l’elicottero decolla. (foto Archivio CNSAS) L’abisso Frozen ha dei punti molto stret­ti e perciò decidiamo di contattare la com­missione nazionale disostruzione , (Tecnici abilitati ad usare esplosivi). Il Frozen, dopo un centinaio di metri di discesa, intercetta un’altra grotta: il Turbine. L’acceso al Turbine è tappato dalla neve ma se si riesce ad aprirlo, si risparmia un pozzo da 100 m con ghiaccio pensile alle pareti. Lollo, in contatto con la squadra alpina, manda un gruppo di tecnici alpini a scavare l’accesso della grotta. «Speriamo bene.» Alle 17.15 ci viene comunicato che i tec­nici partiti con l’elicottero stanno già entran­do in grotta: «Benissimo!»

Intanto la gente sta arrivando in sede e alle 18.00 parte la seconda squadra con il furgone. Verso sera ci viene comunicato che gli al­pini sono riusciti ad aprire l’ingresso del Tur­bine. «Oro..atta! Un po’ di culo non guasta!» Alle ore 21.00 la terza squadra è in par­tenza, anche il Veneto è partito e sta arrivan­do la squadra di disostruzione nazionale. «Fra poco dovrebbero atterrare a Ronchi. Ci penserà un elicottero militare abilitato al volo notturno a portarli a Sella Nevea.» Arrivano notizie del ferito, le condizioni sembrano stabili. «Speriamo vada tutto li­scio,..povero Stefano.» La grande e meravigliosa macchina del soccorso è ormai avviata…il resto è cronaca. Grazie a tutti!

Guido Sollazzi

L’IMPREVISTO È SEMPRE DIETRO L’ANGOLO

Campo esterno all’abisso Turbine ( Foto archivio CNSAS)

Siamo sulla spettacolare cengia e ci cambiamo prima di entrare al Frozen. Due settimane fa abbiamo raggiunto il Turbine, esplorato dal CSIF, e dopo aver preso ac­cordi, proseguiamo l’esplorazione. Giusto si cambia proprio sull’orlo della parete e viene preso in giro da Adriano. Entriamo. Il gruppo si divide: Adriano e Siba vanno a disarma­re un ramo già esplorato mentre Giusto e Rocco proseguono. Il disarmo richiede una buona mezz’ora e quindi i due raggiungono i compagni. La galleria si interrompe con un pozzo di circa 15 metri che Giusto sta riar­mando. All’improvviso l’incidente… Giusto vola giù senza un grido. I pochi istanti di silenzio vengono rotti da un urlo disumano, poi di nuovo silenzio… A mente fredda ab­biamo raccolto e confrontato i nostri ricordi che riportiamo succintamente. SIBA. «Vediamo Giusto filare giù in un attimo, silenzio, poi un urlo. Rocco mi inca­rica di uscire a chiedere soccorso, confer­mo. Uno scambio di parole con Adriano e mi appresto a risalire velocemente. Finalmente passo l’ultimo scomodo meandro e rivedo la luce. Chiamo ma non c’è campo. Scendo lungo la parete attrezzata, scivolo sulla ram­pa innevata e finalmente sono sul ghiaione. Provo ogni 100 metri e finalmente mi rispon­de la voce rassicurante di Lollo. Finita la ten­sione, mi sento sollevato ma sono preso da mille pensieri sulla sorte dell’amico. Molto più tardi verso mezzanotte, a soccorsi arri­vati, sento Adriano confermare che è uscito e che si ferma a dormire sulla cengia; d’ac­cordo con Rocco, salgo a fargli compagnia». ROCCO. «Un tonfo… silenzio… un urlo e mi ritrovo a raggiungere Giusto caduto a pochi metri da me. È disteso su uno strato di ghiaia contro la parete e subito mi ren­do conto della gravità dell’accaduto. Urlo a Siba di correre fuori a chiedere soccorso e ricevo conferma. Poco dopo Adriano mi cala una corda e mi chiede il trapano caduto con Giusto.Il silenzio viene rotto dal rumore del trapano poi in breve Adriano mi raggiunge. Il posto dell’infortunio è esposto a caduta sassi e agli schizzi di una cascatella. Dob­biamo spostare Giusto, rinfrancati dal fatto che ha ripreso conoscenza e dal suo assen­so. Risaliamo una rampa in leggera salita ma l’operazione si rivela più difficile del previsto. Riusciamo finalmente a farcela con l’aiuto di un paranco. Lascio tutto quello che posso e esco fuori a coordinare il soccorso». ADRIANO. «I primi momenti sono volati. Dopo lo shock iniziale tutte le energie sono state volte a recuperare il trapano, riarmare il pozzo, caricare in un sacco tutto quello che poteva servire, raggiungere Rocco e sposta­re i 95 kg. di Giusto. Quindi Rocco se n’è an­dato stimando i tempi di attesa dei soccorsi attorno alle 10-12 ore. Mi ritrovo ad affrontare la situazione con i mezzi a mia disposizione. La prima preoccupazione è isolare l’infortu­nato dal freddo inserendo tutti i sacchi sotto il suo corpo e coprendolo con tutto il resto (piumini, scaldacollo, berretti). Nonostante ciò Giusto tremava in maniera incontrollata e si assopiva di continuo. Ero terrorizzato che potesse morire fra le mie braccia. Con il fornello portatile faccio un primo tè poi seguito da altri con il poco gas della bomboletta riservato per questo solo a lui. Gradualmente la situazione migliora, Giusto è più reattivo e parliamo a lungo. Mi sem­bra che il tempo scorra più veloce. Cerco di assecondare le sue richieste e le piccole “pretese”: vuole essere spostato, addirittura riesco a rollare una cicca (rimproverato per la mia inettitudine). In un piccolo intervallo ho perquisito di nuovo tutto e ho trovato un tesoro: un telo termico subito aperto con comune giubilo. Con mia sorpresa, seppur poco vestito non vengo raggiunto dai con­sueti brividi di freddo. Ancora nei primi momenti avevo recupe­rato un orologio: mi rendo conto che sono passate solo 6 ore e mi preparo ad una lunga attesa. All’improvviso il silenzio viene squarciato da un urlo: SOCCORSO!!!! Un piccolo chia­rore in alto, poi si distingue la luce, scendo­no Lollo, Rock. Il mio compito è finalmente finito». Difficile fare delle conclusioni. La spe­leologia moderna porta ormai ad operare in gruppi limitati. Se l’incidente fosse accaduto in una punta di due componenti, tra l’altro isolati (dopo la caduta Giusto aveva portato con sé anche la corda), l’allarme si sarebbe attivato solo a tarda sera con una ottimistica previsione di arrivo dei soccorsi non prima di 20 ore dall’incidente. E questo nel caso del Frozen, grotta non impegnativa e di modesta profondità, ben diverso il quadro nel caso di una esplorazione più impegnativa. D’al­tro canto questa è la situazione attuale con pochi praticanti, interessi contemporanei in diversi progetti spesso pluriennali. Adriano osserva inoltre che si è trovato molto bene in quanto soccorreva un infermiere specia­lizzato ma si è reso anche conto che di fron­te ad un’altra situazione sarebbero utili delle nozioni di pronto soccorso.

Sandro Tarsi (Siba) Rocco Romano Adriano Balzarelli