Chapas

 

PROGETTO “RIO LA VENTA” INTRODUZIONE

 

Pubblicato sul n. 31 di PROGRESSIONE – Anno 1994
Nel 1990 Tullio Bernabei. Tono de Vivo ed altri componenti del gruppo “La Venta” discesero per la prima volta, in epoca moderna, il canyon del Rio La Venta scoprendo interessanti prospettive per avviare una campagna esplorativa in campo archeologico e speleologico.
Antonio de Vivo ha cosi formulato un dettagliato programma di ricerca che ha vinto nel 1993 il “Premio Rolex”. un ambito riconoscimento nel mondo della ricerca e dell’avventura affiancato da un buon contributo finanziario per la realizzazione dell’iniziativa.
Nel 1994 e iniziata dunque la campagna di ricerca che si protrarrà negli anni futuri con lo scopo di esplorare le cavità site nel canyon e sugli altipiani circostanti e di portare alla luce i resti di un’ipotetica città Maya ora sommersa dalla vegetazione della selva di “El Ocote”, un’area protetta dal governo messicano per il suo notevole patrimonio faunistico e botani

  BREVE INQUADRAMENTO GEOGRAFICO

Il canyon del Rio La Venta è situato nella regione del Chiapas, la più meridionale del Messico, in una zona di foresta tropicale interessata oggi da un indiscriminato e massiccio diboscamento al quale il governo ha cercato di far fronte istituendo la riserva naturale di El Ocote.
Tale zona si trova a circa 50 km da Tuxtla Gutierrez, la moderna capitale del Chiapas, ed è interessata da abbondanti precipitazioni (2300 mm annui); la stagione umida ha il suo culmine nel mese di settembre, quella secca in marzo. Tali precipitazioni hanno favorito la formazione di un esteso carsismo ipogeo di tipo tropicale nella zona stessa.
Il canyon del Rio La venta, lungo un’ottantina di chilometri, si colloca quale divisione netta tra la Selva El Ocote (destra idrografica) e la Selva del Mercadito e del Rio Negro (sinistra idrografica). Tali selve si sviluppano su degli altipiani, con un’altitudine media di 1200 metri slm, ricchi di grotte; l’imbocco a monte del canyon si aggira sui 620 metri mentre lo sbocco, nel lago di Malpaso, è di circa 250 metri slm.

 I PRIMI RISULTA TI

 Questi hanno superato sicuramente le più rosee previsioni sia sotto il profilo archeologico che quello speleologico nonostante alcuni grossi problemi di natura sociale. Gli archeologi, che hanno operato nella parte più a monte del canyon, si sono trovati ad affrontare una popolazione indigena alquanto ostile nei confronti dei ricercatori. stranieri o no, a causa di alcuni deprecabili episodi di indiscriminata “razzia archeologica” perpetrati da Francesi, Statunitensi e Messicani.
I rapporti sono migliorati in seguito con il coinvolgimento della popolazione locale (in special modo i giovani per i quali è stato organizzato un rapido corso “speleo-alpinistico per renderli in grado di partecipare alle esplorazioni delle cavità, spesso di difficile accesso ma ricchissime di reperti archeologici e paleontologici). I Messicani dei paesi limitrofi furono ben felici di collaborare con noi quando si convinsero che intendevamo effettuare le ricerche senza asportare nulla, lasciando i reperti in loco dopo averli disegnati e filmati.
Al riguardo è necessario considerare che si tratta pur sempre delle tombe di antenati delle popolazioni locali per cui il rispetto deve essere totale. Grazie a successive indicazioni forniteci da alcuni locali, verso la fine della spedizione sono state scoperte delle mura di notevoli dimensioni, sommerse da una vegetazione lussureggiante, che fungevano da perimetro a grandi costruzioni di forma piramidale. Tutto ciò confermava le leggende sull’esistenza di una città perduta, immersa da secoli nella foresta, e rivalutava cosi anche l’importanza del canyon di Rio La Venta: non più, dunque, un semplice corso d’acqua ma un’importante arteria fluviale sfruttata in epoca precolombiana quale collegamento tra le città dell’altopiano e le zone sottostanti (ora parzialmente allagate dal bacino artificiale del lago di Malpaso) ed il fiume Grijalva che sfocia nell’oceano Atlantico.
Una seconda “via d’acqua” dopo quella scoperta a cavallo tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo più ad Ovest, nella selva Lacandon, nella regione del Peten. Ciò spiega pure la scoperta del “Castillo”, vera fortezza ricavata in una enorme nicchia in parete (di cui parlerò più avanti), posta colà quale baluardo di controllo viario e difensivo nel canyon che riserverà altre sorprese archeologiche che, per mancanza di tempo, abbiamo solo intuite o intraviste.
Dal punto di vista speleologico le sorprese più grosse si sono manifestate nella seconda metà del canyon. La “Cueva El Ocote” (in seguito ribattezzata “Cueva del Rio La Venta”) è stata esplorata per circa 2,5 km e si è rivelata la più grossa risorgenza sulla sinistra idrografica del canyon; da alcune foto aeree è stato individuato sull’altopiano sovrastante un inghiottitoio di proporzioni ciclopiche per cui un ipotetico ma probabile collegamento tra le due cavità potrebbe superare i 1000 m di profondità.
Anche la “Cueva de la Vuelta”, vicino alla confluenza con il Rio Negro, sembra essere la risorgenza di un grosso bacino carsico situato sulla destra idrografica. SulI’altopiano della Selva El Ocote è stato esplorato un grosso “sotano”, forse già sceso da altri in precedenza (Francesi?) e ne sono stati individuati altri, peraltro molto difficili da raggiungere a causa dell’ostacolo rappresentato dalla foresta tropicale sviluppata su un terreno paragonabile al Col delle Erbe del Monte Canin.
Ad una spedizione futura i risultati non mancheranno di certo, ma sarà indispensabile l’utilizzo dell’elicottero per raggiungere gli obiettivi esterni al Canyon del Rio La Venta, mentre al suo interno la navigazione fluviale può effettuarsi con i classici canotti, unico mezzo attualmente valido per raggiungere le grandi risorgenze.
                                                                                                 Paolo Pezzolato 

CRONACA SEMISERIA DELLE ESPLORAZIONI NEL RIO “LA VENTA”

Il traforo del Rio La Venta (Foto P. pezzolato)

  Spenti gli echi della rivolta “zapatista” divampata in gennaio finalmente potevamo partire alla volta del Chiapas per dare inizio al progetto Rio La Venta. Come in Venezuela, sui Tepuy, anche qui la compagnia era alquanto eterogenea con speleologi provenienti da tutta Italia; mancavano Cin Cargiu, Leo e Giovanni Polletti, ma altri si erano aggregati per cui l’allegria non mancava.
Giunti a Tuxtla Gutierrez rimaniamo un  po’ stupiti di come la situazione fosse calma ed ordinata: faceva solamente caldo, tanto caldo, ma di rivoluzioni in corso nemmeno l’ombra.  Ci dividemmo in tre gruppi di lavoro con compiti diversi, da svolgere nell’area protetta di El Ocote il cui margine occidentale è costituito dal canyon del rio La Venta.
II primo gruppo si occuperà di ricerche archeologiche nella parte più a monte del canyon; il secondo opererà nella selva di El Ocote con lo scopo di discendere in alcuni “sotani” intravisti durante la precedente prospezione aerea ed individuare un possibile collegamento con le grosse risorgive che confluiscono nel canyon del rio La Venta. Il terzo gruppo, a cui mi ero aggregato in qualità di mozzo-facchino-pelapatate, aveva sicuramente il compito più stimolante: scendere parte del canyon, fino allo sbocco nel lago di Malpaso, lungo un percorso di circa 25 chilometri in un ambiente di rara bellezza, per esplorare le principali risorgive già individuate da Tullio & soci nel 1990.
Otto “desperados” che rispondevano ai  nomi di Tullio, Giovanni, Italo, Geppino,  Dino. Ugo, Gino e lo scrivente, a bordo di  quattro canotti di fabbricazione russa battezzati subito con i nomi delle navi più  famose nella storia dei naufragi.
Stracarichi  di materiali e cibarie, ma con poca tequila  e pochissime sigarette, sbarchiamo dall’elicottero su una collinetta infestata da zecche e formiche per raggiungere poi il greto della Venta in un Punto libero dalla vegetazione  e non ancora racchiuso dalle alte pareti che avremmo incontrato in seguito.  Ora eravamo soli; la radio era un “optional” in quato ricevevamo le comunicazioni degli altri gruppi ma non potevamo comunicare nulla, o quasi, con I’esterno del canyon. Così alla sera ci divertivamo ad ascoltare le disavventure degli archeologi alle prese con la popolazione indigena in rivolta narrate con lentezza esasperante da Piero Festa (il ‘Bradipo velenoso”) o il lamento giornaliero di Tono e Gaetano, alla “casita” nella selva di El Ocote, alle prese con orde di famelici insetti e spine di “chicòn” (albero  spinosissimo caratteristico della vegetazione locale) e sempre più malridotti ed affamati.
Nel canyon, invece, si stava bene: sempre all’ombra e in ammollo, in un paesaggio unico per bellezza e colori; in allegria come otto evasi dalla Guyana Francese vestivamo tutti la tutina color sabbia offertaci dalla ditta Calamai. La navigazione in  canotto era un misto tra “Fitzcarraldo” e “Aguirre furore di Dio”, con la differenza che non dovevamo trascinare nessun battello o cercare un Eldorado nella giungla ma solamente accudire e proteggere (da se stesso) il dott. ing. ‘gran mascalzon” Giovanni Badino, neoeletto presidente della S.S.I. (una grossa responsabilità la nostra, dunque, perché se si rompeva chi l’avrebbe aggiustato?).

In esplorazione in una risorgiva vicino il primo campo. (Foto P. Pezzolat)

Mio compagno di navigazione era Ugo Vacca, il nostro beneamato dottore. La sua presenza, all’inizio, mi era sembrata una garanzia di sicurezza ma sfortunatamente non era cosi; difatti lui si rifaceva ai dettami di un tale dott. Mengele, direttore delI’USL tedesca di alcuni decenni fa. La sua regola era alquanto semplice: “Ti curo solo se ti rompi, e se ti rompi ti ammazzo per non farti soffrire…”; concetto questo che non fa una grinza ed anzi invita ad essere ancora più prudenti.
Il resto della ciurma era decisamente migliore, pieno di buona volontà ed italica fantasia; fu cosi che conobbi Italo (il paziente rilevatore di Buj Bulok, già decantato dal Mario di casa nostra); Geppino, apprendista ferroviere (autore, nonostante la giovane età, di notevoli disastri ferroviari) e Gino I’acchiappafarfalle (sempre in pigiàma e retino, ma con notevole grinta nelle situazioni fluviali più critiche nonostante fosse in pensione già da un bel po’!). Poi c’era Dino “romano de Roma”, cuore d’oro e lingua come frusta, novello genitore modello, e per finire Tullio, il Capo supremo, che mai mi sognerei di criticare da buon lecchino quale sono … (paura, paura di perdere il posto nelle future spedizioni? Boh!).
Avanti, dunque. Scendemmo il rio La Venta, intervallato da moltissime rapide che ci costrinsero a continui trasbordi di materiali e canotti, interminabili passamani su un terreno scivolosissimo, sempre bagnati ma senza soffrire eccessivamente il caldo essendo il fondo del canyon quasi sempre in ombra (per nostra fortuna, essendo il sole a tal punto cocente da asciugare in pochi minuti i nostri vestiti nei punti in cui ci raggiungeva).
Le pareti del canyon si alzarono progressivamente e verso I’imbrunire de! primo giorno di navigazione ci fermammo in una grande ansa del fiume su una meravigliosa spiaggia sovrastata, di fronte, da un cavernone in parete con l’imbocco a più di 60 metri sopra il livello dell’acqua. Passammo cosi la prima notte, con un cielo da favola, fumando i sigari di Giovanni e sognando incredibili avventure; unici inconvenienti le pulci, che infestano purtroppo tutti gli arenili del rio, e qualche sporadico scorpione con il brutto vizio di intrufolarsi dovunque.
Il giorno successivo risalii un lungo tratto del fiume con Ugo, Gino e Dino per esplorare alcune risorgive ed effettuare delle campionature; Giovanni e Geppino, invece, si dedicarono al raggiungimento del cavernone arrampicando una parete strapiombante dove l’unico conforto fu l’utilizzo del trapano a motore sotto un sole impietoso. Alla fine Giovanni giunse alla meta rimanendo esterrefatto dallo spettacolo: non c’era la grotta ma i resti di una fortificazione maya con ancora le mura intatte, reperti e frammenti di vasi, iscrizioni e disegni sugli intonaci superstiti.
Roba da non credere ai propri occhi! Il morale sali alle stelle ed i giorni successivi furono dedicati alla pulizia del sito archeologico dalla vegetazione nonché ad arrampicare per raggiungere i baluardi più estremi del sistema difensivo, lungo una serie di espostissime cenge che gli antichi guerrieri maya percorrevano utilizzando delle impalcature di legno incastrate nelle numerose fessure generate da una stratigrafia alquanto generosa.
I passaggi in roccia erano levigatissimi, come quelli delle palestre d’arrampicata più frequentate, e ciò fa presupporre una massiccia presenza di persone in quel sito. Un’opera magistrale, dunque, di cui noi fummo i primi testimoni dopo secoli di abbandono; la battezzammo “il Castillo” ed assieme all’”altare della Media Luna”, sito nella parte più a monte del canyon, risultava un tassello importante per comprendere l’uso del rio La Venta in epoca precolombiana.

Scendendo le rapide dopo la grande frana (Foto P.Pezzolato)

Finita l’esplorazione, smontammo il campo scendendo per diversi chilometri sotto la pioggià tropicale, accampandoci nei pressi della grotta di El Ocote: una grossa risorgiva sulla sinistra idrografica del rio, già esplorata per breve tratto nel 1990 da Tullio & soci.
La pioggià continuò per tre giorni, durante i quali ci dedicammo a turno all’esplorazione ed al rilevamento, percorrendo gallerie di notevoli dimensioni dove un torrente dalla generosa portata scorre formando spesso rapide impegnative. All’ingresso Tullio ed Ugo, setacciando la sabbia di alcune cavernette laterali, rinvennero parecchio vasellame e resti umani; testimonianze, queste, di un antico insediamento umano. Esplorammo cosi quasi 2.5 chilometri di gallerie che penetravano sempre più nel cuore di un altopiano ancora vergine dove, in mezzo alla foresta e più di 1000 metri più in alto, un fiume entra in un inghiottitoio ben visibile anche dall’elicottero. L’acqua che percorre quelle gallerie e tanta ed anche la corrente d’aria si fa sentire nei punti più stretti (mai comunque meno di 5 metri). ma le sorprese non sempre furono piacevoli, specie quando Tullio, attraversando un lago, si trovò prigioniero delle sabbie mobili.
L’intervento di Giovanni riuscì a trarlo da una situazione che si faceva sempre più drammatica di minuto in minuto. Le riserve di carburo erano agli sgoccioli perciò interrompemmo l’esplorazione e, approfittando del bel tempo, riprendemmo la navigazione in quel canyon sempre più suggestivo grazie anche al notevole aumento della portata dovuto all’apporto idrico proveniente da numerose cavità e cascate a noi ancora ignote.
Davanti a noi si apri più avanti il “Traforo”: una galleria lunga quasi un chilometro e la cui volta supera i cento metri di altezza dove il fiume scorre con lenta maestosità. Uno degli spettacoli più belli che la natura ipogea ci poteva offrire in questo ambiente tropicale. Ma dopo il “dolce” arrivò la “purga”, ovvero la grande frana; un caos di blocchi enormi e violente rapide che richiese più di sei ore per passare con il materiale ed i canotti (che iniziavano a dare i primi segni di cedimento strutturale). Ma questo era l’ultimo grande ostacolo per la navigazione, dopo il quale ci attendeva l’esplorazione della “Cueva de la Vuelta” utilizzando il poco carburo rimastoci. Questa cavità e un’altra risorgenza sulla destra idrografica del rio La Venta e, presumibilmente, drena le acque dei “sotani” della selva di El Ocote; si apre 10 metri sopra le acque del rio ed è caratterizzata da ampie gallerie, testimoni di un antico freatico, che portano ad un lago alimentato da una cascata tuttora da risalire. Fatto il rilievo e documentata fotograficamente la cavità, riprendemmo la navigazione verso il lago di Malpaso. Il paesaggio mutò nuovamente; le pareti si ricoprirono di vegetazione sempre più lussureggiànte mentre fecero apparizione iguane, aironi e cormorani. Strane bolle d’aria che risalivano in superficie ci ricordarono la presenza celata dei coccodrilli che, comunque, almeno durante il giorno preferivano restare in disparte.
Il mio canotto si stava rompendo e Dino, con la pazienza residua, riuscì a ripararlo alla meno peggio e potemmo cosi proseguire verso la meta. Al tramonto dell’ultimo giorno di navigazione, dopo più di 10 chilometri di pagaiare continuo, raggiungemmo il lago di Malpaso dove ci sorprese un violento fortunale con forte vento; con molta fortuna raggiungemmo, con le ultime luci del giorno, l’approdo concordato con i guardaparco. Le ondate sempre più grandi stavano per avere il sopravvento sui canotti, ormai giunti al limite della loro resistenza, ma riuscimmo a salvarci da un probabile naufragio in una zona ignota. Il giorno successivo, dopo aver caricato il materiale sulla lancia dei guardiaparco, raggiungemmo Malpaso sotto la pioggia battente (rompendo l’elica e dovendo sostituire il natante per giungere a destinazione in un paesetto chiamato Apicpak) con due giorni di anticipo, pochissimi soldi, nessuno che ci attendesse e nell’impossibilità di comunicare via radio la nostra posizione.  Eravamo nel vero Chiapas, nel fango di un paese senza servizi igienici, scuola o telefono. Solo baracche e una piccola “tienda’ dove comperammo birra e sigarette. Ora comprendevamo iI percnè della rivolta degli indios, non certo fomentata da ideali marxisti postdatati ma dalla fame e dalla miseria che solo qui si riesce a comprendere e non certo nei nuovi supermercati di Tuxtla Gutierrez.
Con un po’ di fortuna trovammo un passaggio su un camion che, miracolosamente, percorse una strada ridotta ad una pista di fango liquido giungendo cosi quasi a destinazione in un altro paese dove arrivarono gli altri compagni di spedizione, già rientrati dagli altri campi. Il finale era scontato: un lungo ciclo di intense pulizie a noi, pseudoesploratori, ed ai nostri lerci indumenti per poi passare ad alcune giornate di ozio sfrenato.
                                                                       Saludos by Fox. Paolo Pezzolato
Hanno partecipato, dall’ltaila: Tullio Bernabei e Tono De Vivo (the Boss), Ugo Vacca (il Dottore Cattivo), Sandro Irsara (iI Dottore Buono), Italo Giulivo (Il Pio), Dino Bonucci (il Padre Modello), Giuseppe Caso (Geppino), Gino Gulll (Predator), Gaetano Boldrini (Pizza e Mortazza), Piero Festa (Bradipo Velenoso), Valentina Bertorelli (l’Archeologa), Marco Mecchia (il Geologo), Marco Topani (Marconi 2). Alessandro Gatti (il Cineoperatore), Marco Piciocchi (da “Prendere a Calci in C”), Serena (Piccola Turista), Marco Leonardi (Voglia di Zucchero), Michele Sivelli (Sivellon), Nadia Campion (la Santa), Patrizia Vacca (Santa pure lei), Tommy (figlio di Nadia e Tono), Paolo Pezzolato (Bubez), Noma Bernabei (la Moglie dei Capo), Giovanni Badino (chi sarà costui?)

LA LUNGA STRADA DELL’ACQUA

Risalendo le rapide nella queva della Venta (Foto P.Pezzolato)

Pubblicato sul n. 33 di PROGRESSIONE – Anno 1995

 Chapas, aprile 1995

caldo, molto caldo non basta il condizionatore o le generose ” cervezas” servite in boccali ghiacciati a farlo dimenticare anche  perchè poi via da Tuxtla ce lo prenderemo tutto sul groppone senza pietà fin quando non arriveremo all’ingresso della Cueva dei Rio La Venta riprendendo cosi le esplorazioni sospese I’anno passato. Questa volta niente gommoni  perchè Tono I’altro ottobre ha individuato una ‘comoda” via d’accesso al canyon lungo un antico sentiero percorso dagli abitanti dei villaggi seminati nell’arido altopiano sovrastante. Una allegra mandria di muli ha contribuito non poco a lenire le nostre fatiche cosi da permetterci di allestire il campo nel canyon con solo due spole dall’orlo giù per l’erta china invasa dalla vegetazione, ovviamente spinosa e pullulante di insettini succhia sangue.
Finalmente si ritornava in quella grotta, per continuare a risalire la lunga strada del Yacqua verso il cuore dell’altopiano senza aver un’idea precisa di dove ipoteticamente si sarebbe potuti sbucare. Chissà, forse a fianco di un lurido letamaio pieno di suini oppure sulla sommità di qualche con0 sovrastante una landa isolata di vegetazione intricata. Risalire dunque, risalire sempre seguendo il liquido elemento per poi perderlo in un dedalo di sale, gallerie sovrapposte, massi di frana e cascate; unica preziosa alleata I’aria guida sicura nei tratti incerti lungo un cammino sempre più lontano dall’entrata verso I’ignoto. Avanti per ore, giorni con I’acqua spesso alla cintola se non di pie, lo zaino in spalla lungo gallerie enormi in ogni senso verso il buio o il rombo di qualche tenebrosa rapida. Viaggio in un mondo infinito, all’interno di un biblico leviatano senza sapere dove il cammino a ritroso dell’acqua ci avrebbe condotti.
Fa comunque caldo 20′ – 25″ centigradi, anche se bagnati si sta bene, a volte bisogna arrampicare per by-passare le cascate lavorando pih con intuito e fantasia piuttosto che con chiodi e martello per cercare il punto più facile e superare I’ostacolo, sapendo che se ci attende un’ altra galleria da tempi remoti ansiosa di vedere la tremula luce di nuovi uomini. L’acqua canta conducendoci nell’ennesimo lago stranamente immobile, melmoso e silenzioso; sopra le nostre teste invece volano i pipistrelli a decine, forse centinaia, disturbati dal nostro incedere o solo a caccia degli insetti volanti che ci ronzano attorno impertinenti. Dov’e la porta? Dov’e I’uscita? Forse i chirotteri ce lo stanno dicendo, ma le nostre orecchie sono sorde ai loro richiami. Proseguiamo oltre il lago riuscendo in extremis ad evitare la trappola delle sabbie mobili; su, su con I’aria riusciamo a raggiungere una piccola condotta anticamera di un altro reticolo di gallerie, antichi freatici dove l’aria danza  ingannevole portandoci verso  frane che inevitabilmente han chiuso le Forte  verso la luce. Ma loro, i pipistrelli, da dove  sono arrivati? Non c’e tempo per trovare la  soluzione, il carbuo sta finendo, bisogna  uscire e la strada da percorrere e tanta, più  di 8 Km ci separano dalla luce e gran parte e ancora da rilevare. Sarà per un’altra volta, non ne facciamo un dramma, passera  un altro anno, forse di più, la porta si schiudera per qualcuno che intuirà I’uscita del  labirinto.
Mondo surreale, di dimensioni  pantagrueliche, quasi come il nostro appetito a stento lenito dai liofilizzati, ma è beilo  camminare in questo buio accarezzati dalI’aria che nelle sezioni ridotte assume i  connotati di vento, seguire ora per il verso  giusto la lunga strada dell’acqua sui bordi  dell’ennesimo fiume senza stelle, appaga-  mento e gioia di muoversi finalmente liberi  da opprimenti strettoie senza considerare  I’acqua una nemica ossessiva, ma piuttosto una dispensatrice di frescura dove  detergere il corpo stanco e madido di sudore senza stringere con mani rattrappite dai  freddo gelidi bloccanti verso un’uscita  penosamente verticale. Non più sacchi laceri da trascinare in claustrofobici meandri,  ma un comunissimo zaino come discreto  fardello con dentro il necessario per organizzare un campo interno dove si cammina  scalzi, in maglietta e null’altro per it caldo  che fa.
Finalmente dopo tanti anni ho potuto giocare con I’acqua e I’aria in ambienti  enormi, perdermi nel buio senza angoscia  o la necessita di recuperare metrl e metri di  corda, felicità e null’altro. Libero, libero da  tutto: paure, angoscia, falsi amici, velenosi  detrattori o neofiti ignoranti non più giustificati da un’età in avanti con gli anni. Splendida alternanza di rumori e di silenzi fino ad  incontrare l’uscita ed il fiume che scorre nei  fondo del canyon avvolto nuovamente dal  caldo soffocante dell’arida canicola messicana, ghignando con I’amico Pota pensando a quante birre ci aspettano a Tuxla,  impazienti di tornare in ltalia a combinar  nuove porcate, divertendoci e basta alla  faccia degli imbecilli meschini che gravitano attorno al pianeta speleologia
                                                                                            Paolo Pezzolato