L’aria delle grotte carsiche

Pubblicato sul n. 13 di PROGRESSIONE – Anno 1985
Nella storia della esplorazione sotterranea del Carso triestino un particolare indizio ha guidato fin dalle prime vicende i cercatori di grotte, gente semplice ed istintiva propensa a credere a certi segni di immediata percezione piuttosto che ai responsi dei rabdomanti e – più tardi – delle scienze geofisiche, i cui metodi teorici parevano inadatti a sondare le mutevoli stratificazioni della pietra. Bisogna ricordare che la prima grotta scoperta grazie all’aria uscente è stata dal 1841 al 1909 la più profonda del mondo, anche se in sèguito lo stesso sintomo non ha permesso di trovare un’altra via che portasse all’acqua corrente, per il semplice fatto che essa non esisteva o non è più praticabile, come accadde presso Pèrcedol.
Secondo una interpretazione suggestiva ma senza fondamento, per lungo tempo si è ritenuto che una corrente d’aria fosse sicuramente prova di grandi profondità o cubature, ma le moltissime delusioni provate nelle 1500 grotte del dopo guerra hanno modificato alquanto questa opinione, dimostrando che l’entità dei vani non aveva un preciso rapporto con un fenomeno la cui natura era indecifrabile. D’altra parte gli studi di meteorologia ipogea – avviati con altre finalità in due grotte domestiche – avevano dato scarse indicazioni di ordine pratico, salvo il concetto di cavità barometrica stabilito per la Grotta Gigante, caso a sé e come tale non atto a formulare regole di validità generale. La grande varietà di situazioni, la complessa e sempre diversa struttura delle grotte e l’impossibilità di rilevazioni continue sono state e saranno sempre un ostacolo forse insormontabile per comprendere le leggi fisiche che regolano i movimenti dell’aria nelle grotte «selvatiche» dall’accesso difficile e pericoloso.
È appena il caso di precisare che le considerazioni di questo articolo – compendio di una lunga esperienza – valgono per il nostro altopiano, dove vi sono aspetti morfologici altrove assenti o solo in apparenza simili. A dare alla speleologia locale un fascino ineffabile è ancora la immanente presenza del fiume catabatico, che nei suoi ricorrenti orgasmi preme e dilaga nel perineo dell’anti­clinale, spartito a valle di Trebiciano in più rivoli che affiorano in torbide ed effimere essudazioni sul fondo di alcuni abissi.

GROTTE BAROMETRICHE

In teoria tutte le cavità aventi una ragguardevole cubatura dovrebbero reagire alle variazioni della pressione atmosferica; invece unico caso manifesto è stato quello della Fessura del Vento (4139 VG), forte dei suoi 2600 m di sviluppo. Dopo l’apertura dell’ingresso superiore il suo comportamento .è cambiato, divenendo per altri versi più interessante e meritevole di studio. Altre grotte pur dotate di ampi spazi interni (4429, 2699, 3468, 73, 2743, 2744 VG) sembrano invece indifferenti al fattore barico, mentre alcune assai più piccole – almeno come parte nota – mostrano una sensibilità inspiegata. Cito ad esempio la 3304 e la 5124 presso Trebiciano e la 4164 a Santa Croce.

GROTTE SEMPRE ASPIRANTI

Il grottista nostrano non ha mai badato ai flussi entranti, che almeno per le cavità barometriche hanno lo stesso significato di quelli uscenti; per il vero risulta molto più facile percepire una corrente in uscita, la quale ha di solito una temperatura ben diversa da quella esterna. L’unico caso accertato di costante aspirazione è quello della Grotta di Padriciano (12 VG), la prima attrezzata turisticamente (1808) e la cui visita è quanto mai remunerativa ed agevole. Il volume dell’aria assorbita è tanto grande da proporre quale unica spiegazione lo sbocco in un fiume profondo (effetto Venturi?), già cercato qui nel 1839 da Lindner, il quale però si ostinò a scavare – come si usava allora – nel punto più basso, mentre l’aria scompare ben prima. Potrebbero esistere altre cavità aspiranti di ampio ingresso, dove il fenomeno sfugge ad un accertamento non strumentale, confondendosi con la normale circolazione a sacco che si instaura d’inverno in molte grotte.

 GROTTE SEMPRE SOFFIANTI

Secondo l’autorevole opinione del solo meteorologo che si sia interessato alle grotte, tale comportamento sarebbe proprio di cavità che si spingono a quote molto basse; anche qui però fattori sconosciuti dànno luogo a numerose eccezioni, in quanto complessi assai profondi (5268, 3873, 3901, 2781, 4951, 144, 3988, 4401) sono sotto questo aspetto «normali», per quello che il termine vale nel nostro discorso.
Massimo esponente è l’Abisso dei Cristalli (3960 VG), rinomato anche per la bellezza dei primi vani e per la notevole profondità. L’intensità della corrente non sembra influenzata dalle variazioni bariche, mentre è ancora incerta la relazione con una ipotetica parte ignota della vicina Grotta dell’Alce (62 VG), nella quale esiste un sistenna di pozzi non del tutto esplorati, però ugualmente soffiante. La parte terminale dell’abisso giunge a pochi metri dallo zero marino ed è invasa dall’acqua con l’innalzamento del livello di base.
400 m verso ESE si trova l’Abisso Gianni Cesca (4650 VG), scoperto proprio per la visiva constatazione di una condensa in periodo freddo; dopo l’ampliamento del primo pozzo per ricerche archeologiche, il flusso – distribuito su una sezione più ampia – si avverte a stento.
Una costante emanazione è ricontrabile all’imbocco della 4435 VG , attribuita in un primo tempo ad una probabile comunicazione con la vicinissima Grotta del Cibic (1 VG); nel 1979 un esperimento fumo geno ha stabilito invece che le due grotte sono indipendenti. La nostra faticosa progressione si è arrestata a 35 m davanti ad una fenditura meno arrendevole delle precedenti.
È stata trovata sempre in fase emittente la 1145 VG presso Rupinpiccolo dalla inusuale morfologia a vani sovrapposti, nella quale la corrente è stata risalita fino ad un accumulo di massi inamovibili; vi è una remota possibilità di una confluenza profonda con parti ignote della Grotta Marcella (840 VG), distante una settantina di metri.

GROTTE CON BOCCHE SOFFIANTI INTERNE

molto frequente rilevare correnti d’aria anche di forte intensità all’interno di grotte che all’imbocco pur minimo – sono di norma in stato di quiete; questo tipo di soffio «endogeno» è stato spesso motivo di grandi speranze, rimaste più delle volte deluse. Sulla base di recenti esperienze si può affermare che il fatto si verifica di preferenza dove vi sono sistemi di pozzi o camini paralleli di un certo sviluppo verticale, comunicanti tra di loro a varie altezze. Si tratta quindi di una circolazione «a circuito chiuso», la cui genesi sfugge al nostro intelletto.
Esempio classico è l’Abisso Martel (144 VG), nel quale questo ed altri indizi (depositi di sabbie e la presenza di un particolare coleottero lucifugo) avevano indotto i nostri vecchi a credere in una relazione con il Timavo ipogeo, che le moderne indagini hanno invece escluso.

L’EFFETTO SPACKER

Abbiamo la presunzione di averlo capito – magari tardi – in tutte le sue varianti. Esso si verifica dove vi sono grotte che hanno due o più sbocchi in superficie situati a quote differenti; sul nostro altopiano tale situazione è dovuta di solito alla presenza di una dolina, la quale è anzi essenziale per l’innesco dell’effetto Spacker, termine tedesco che da noi indica la cucina economica a legna (esattamente «sparherd»).
Si tratta di un evento esclusivamente invernale, in quanto originato dal divario termico tra l’aria esterna e quella del sottosuolo carsico, che ha circa 11° C. Se la differenza è minima la manifestazione non ha luogo, mentre con il termometro al di sotto dello zero essa può assumere notevole vivacità.
L’aria fredda che la notte si deposita al suolo tende per il suo peso a colare nei punti bassi (doline) dove permane mantenendo la sua temperatura anche quando di giorno quella al piano di campagna aumenta di parecchi gradi; con la sua maggior pressione essa penetra in un eventuale passaggio – anche coperto da pietrame – ed entra nella grotta per sprigionarsi dallo sfiatatoio superiore grazie alla duplice azione ascensionale della spinta e del riscaldamento avvenuto a contatto delle pareti interne. Le condizioni ideali sono rappresentate da un largo pozzo sul fondo di una dolina imbutiforme, da vani estesi e da un piccolo sbocco alto; è questo il caso della Grotta del Cibic (1 VG), che conte sue fumate irretì già i pionieri del secolo scorso, convinti di una matrice timavica. Esistono innumerevoli altri esempi, tra i quali meritano citazione i sistemi 4683-4685 VG , la Grotta La e !La del Margaro (4031-4209 VG), le due grotte della Dolina Generosa di Santa Croce (5115-5145 VG) e quella scoperta a Natale presso Opicina Campagna (5312 VG); qui l’ampio serbatoio della Dolina della Finestra colmato da aria molto fredda è divenuto un enorme pistone che ha iniettato il flusso in un foro di minima sezione – individuato più tardi-, facendolo scaturire 25 metri più in alto con una violenza che ci ha illuso fin quando risultò che l’aria aveva 4° in meno del dovuto. Una variante da tener presente si è avuta alla Grotta Scariza (2156 VG) nella quale l’aria precipita dall’ampio imbocco, s’infiltra nel cono detritico e per vani ignoti va a fuoriuscire da un cunicolo a 40 metri di profondità e quindi dalla fessura del ramo alto, forzata con grande fiducia nel 1959.
Il subdolo meccanismo dell’effetto Spacker è stato capito da poco, avendo prima raggirato una generazione di grottisti, compresi noi, tuttora dubbiosi quanto il punto assorbente non si trova o il dislivello tra i due sbocchi sembra troppo scarso.

GROTTE TIMAVICHE

Eccoci infine all’empireo, al gradino più elevato dell’interesse speleologico locale, purtroppo non confortato da alcun successo. Trascuro qui quelle grotte del settore NW (5268, 3960, 3988, 5145 VG) i cui fondi vengono talvolta allagati da infiltrazioni occulte e non già dai liberi flutti del mitico Fiume.
Negli studi di Boegan vi sono molti dati sulle quote raggiunte dall’acqua alla Grotta di Trebiciano (17 VG), con un massimo innalzamento di 104 m nel 1915. Se un’altra continuità di passaggi collega il livello piezometrico con la superficie, anch’essa deve sprigionare tutta l’aria cacciata dall’acqua montante e sulla base di questo ragionamento abbiamo a lungo indagato negli anni ’60 e tenuto d’occhio vari luoghi, alcuni dei quali già ispezionati dallo Schmidl nel 1850. Nella Dolina dei Sette Nani il flusso scaturisce da un ammasso detritico di ignota potenza; il posto ancor oggi è chiamato dai locali Reka (fiume) ed è lo stesso dove Bilz scavò nel 1828. Grotta vera è la 2702, decapitata con la costruzione del cavalcavia di Farneti; pericolosi residuati bellici hanno interrotto la disostruzione. La vicina 87 invece per probabile intasamento non dà più quei segni notati più volte alla fine dell’800. Risaputa è la storia durata cinque anni alla 4737, la più prometten­te fino alla frana di Q. 27. Resta ancora la 3224 che fece scavare – caso unico – anche la Commissione degli anni ’30; i nostri lavori sono finiti ad un’altra frana, l’ostacolo più odioso perchè di solito definitivo.
Giunti alla conclusione, ammettiamo senza vergogna che in trent’anni di speleofilia non abbiamo saputo produrre nulla di veramente conclusivo sulla circolazione dell’aria nelle grotte del Carso, avendo definito in via empirica solo la dinamica dell’effetto Spacker. A nostra discolpa diremo che non siamo nati per essere studiosi ma bensì rivelatori di un pianeta sconosciuto al quale finora la scienza ha dato una considerazione che in qualche misura mortifica il significato delle nostre scoperte.
Per quanto ormai smaliziati diagnosti, l’umido alitare delle bocche calcaree ancora ci incanta ed accende nei precordi la fiammella del sogno, filo d’Arianna che seguiamo in mendaci labirinti di conchiglie pietrificate nei quali i nostri scalpelli ritagliano strade dolorose tra guizzar di scintille ed acri sentori di lagune primordiali. Più avanti il buio si dilata in un’insondata caverna, la pietra canta frenetica e ammutolisce dopo un ultimo lontano decibel, verso il quale caliamo nell’inconscio desiderio di trovare un punto dal quale poter onorevolmente tornare indietro.
                                                                                                          Dario Marini