Spedizione 1985

 

MEXICO ’85 – INTRODUZIONE

L’altopiano di Mirasoles visto dalla conca basaltica di San Ciro de Acosta (Foto L.Torelli)

Pubblicato sul n. 14 di PROGRESSIONE – Anno 1985
L’attività esplorativa di maggior rilievo – per impegno finanziario, mole di lavoro, risul­tati ottenuti – del 1985 è stata indubbiamente quella svolta da quattro nostri soci in Messico. Di quest’avventura (trasferimento con una ve­tusto barca a vela – come equipaggio – in no­vembre assieme ai colleghi polacchi, arrivo in zona d’operazioni scaglionati nel tempo causa vari contrattempi, incomprensioni operative con gli altri componenti della spedizione, diffi­coltà di ogni genere con il comandante del-bragozzo, sparizione – a fine spedizione – di parte dei materiali e della documentazione ori­ginale…) rimangono i risultati (un centinaio di grotte esplorate e rilevate), buone prospettive future (la spedizione da italo-polacca è diven­tata italo-mexicano-polacca, e l’intesa con i colleghi messicani, ed in special modo con l’a­mico Lazcano, è stata meravigliosa), un’espe­rienza di cui far tesoro (relativamente alla pia­nificazione di spedizioni internazionali).
Gli articoli che seguono, introdotti da una relazione di Lazcano sulle zone visitate, non hanno la pretesa di illustrare quanto e come si sia lavorato, sudato, sofferto e porconato (ci vorrebbe un numero speciale, al pari di Pro­gressionecento), ma soltanto di far partecipi i lettori delle cose e dei momenti belli viste e vissuti.

 Area di Mirasoles

GENERALIDADES

Esta area, se encuentra compartida por los estados de San Luis Potosí y Guanajuato. Es una altiplanicie karstificada cuya superficie aproximada es de 300 kikimetros cuadrados, y est repartida entre los municipios de San Ciro de Acosta, S.L.P., y Xichù, Gto., el primero en el centro y Norte de la region, y el segundo, en el Sur.
Mirasoles est a ubicada entre los meridia­nos 990 45′ y 990 58′ de longitud Geste y los paralelos 21° 27′ y 21° 38′ de latitud Norte, cubren su superficie la boia de CETENAL «El Carricillo» F 14 C 37, escala 1:50.000 y la de D.G.G.T.N. «San Ciro» F 14 C 27, con la mi­sma escala. La región, se encuentra limitada, al Norte por la Barranca Encantada y el Valle de San Ciro, al Sur por el Rio Santa Maria, al Este por el Valle de San Ciro y la Barranca Escondi­da, y al Geste por el Arroyo Tortugas. La cum­bre de un cerro sin nombre, al Este de la Hoya de Mirasoles, al borde del Cafión del Rio Santa
Maria, marca la altitud maxima del area, con 2020 msnm, su altitud minima son 600 msnm a que corre el Rio Santa Maria en el extremo Este de la región.
Todas las poblaciones existentes en Mira­soles, pertenecen al estado de San Luis Potosí, del lado de Guanajuato, no se encuentra ningu­na comuni dad. El acceso principal a la región es a partir de San Ciro de Acosta, de ahí arrancan varios caminos de terracería, que comunican con diversas comunidades, aunque a una parte de ellas, se accede por medio de veredas. Otto acceso de importancia es a partir de la pobla­ción del Refugio, muy cercana a la carretera, 4 km al notte de Arroyo Seco, Qro..
Las comunidades mas importantes de la regio n son: Codornices, Nuev o San Luis, Guerrero, El Soyatal, Canoitas, El Pino, Capu­lin Grande, Capulín Chíco, Los Sótanos, Pa­chuquita, La Barranca, Rincon de la Soledad, Puerto del Aire, El Relampago, y otras.
Esta altiplanicie ha sido originada por la deformación y levantamiento de las calizas de la Formación El Abra, del cretacico inferior.
Las formaciones dl cretàcico superior, Soya­tal y Mexcala afloran ascasamente en la zona, descansado concordantemente sobre la For­mación El Abra. En el extremo Sur del area, en el catión del Rio Santa Maria, aflora la forma­ción Trancas, del jurasico superior, la màs anti­gua de la región, subyace discordantemente a la F. EI Abra. En una pequefia fracción de la zona, las calizas del Abra estàn cubiertas por tobas riolíticas del terciario superior. Estructu­ralmente la altiplanicie no ha sido del todo estu­diada, ésta se encuentra muy f-tcturada y afal­lada. En su fianco orientai, existe un sistema de fallas normales e inversas. Todo su fianco occi­dental, es una enorme falla normal. También existen hacia el interior de la altiplanicie varias fallas normales (la màs importante es la Falla de Mirasoles) y de corrimiento lateral, así corno numerosas fracturas, todo lo cual a tenido gran influencia en la génesis de las cavidades de Mirasoles.
                                                                                          Carlos Lazcano Segun

Il primo pozzo di Dona Casimira. (Foto L. Torelli)

Mirasoles

Questa area, nel comune di S. Ciro de Acosta, venne presa in considerazione visti gli scarsi risultati che si stavano ottenendo sul Cerro Alto; fu così che il 19 gennaio quattro componenti della spedizione lasciarono Gua­yabos per una ricognizione a Mirasoles. Quat­tro giorni dopo tornò Louis con delle notizie più che incoraggianti: era stata trovata infatti una cavità notevole sia per bellezza che per dimen­sioni; inoltre le notizie attinte dai locali davano buone prospettive per le esplorazioni. Abban­donata la zona di Jalpan, tutta la spedizione si spostò quindi a Capadero, dove nei pressi della scuola fu piantato il campo base.
Nei primi giorni di permanenza a Mirasoles fu esplorata, rilevata, fotografata «Dotia Casimira», un inghiottitoio profondo 140 metri e lungo 600; inoltre le battute di zona stavano portando a buoni risultati, con il ritrovamento di diversi pozzi profondi una cinquantina di metri, nonché di un inghiottitoio esplorato fino a -70 ma che continuava.
Alla fine del mese di gennaio si decise di andare al «Sotano del Barro», vista la sua vici­nanza alla nostra zona, anche perchè erano gli ultimi giorni in cui avevamo a disposizione il furgone a noleggio, dopo di che saremmo rimasti a piedi. Quando noi quattro della C.G.E.B. e un polacco del A.K.S.I.A. fummo ritornati dal Barro, scoppiò un temporale che era nell’aria da molto tempo; dopo innumerevoli discussio­ni, la spedizione si divise in due tronconi: la C.G.E.B, e l’A.K.S.I.A. rimasero a Mirasoles, il K.K.S, riportò il furgone a Mexico City e poi sarebbe andato in Chiapas. Questa scissione fu provocata da diversità di vedute sulla maniera di proseguire la spedizione e da incompatibilità di carattere tra i membri della spedizione stes­sa.

Dofia Casimira – La bella galleria a —100 (Foto L. Torelli)

A questo punto si decise di spostare il campo presso la «Laguna delle tartarughe», in quanto più vicina alla zona più interessante dal lato speleologico. Purtroppo un polacco si ammalò, e così per tutto il mese di febbraio ci saremmo trovati con due campi, in quanto l’ammalato non era trasportabile, e sicuramen­te era meglio per lui rimanere presso un centro abitato.
Nella zona del nuovo campo facemmo co­noscenza con un elemento a noi prima scono­sciuto, il biossido di carbonio. Calatici in una cavità promettente, alla quota – 60 all’improv­viso fummo presi da affanno e le carburo si spensero; alquanto preoccupati risalimmo ve­locemente. Il biossido di carbonio dovuto alla fermentazione organica non è velenoso, questo lo avremmo saputo in seguito dallo speleologo Carlos Lazcano, ma è alquanto insidioso: si rischia di ritrovarsi in fondo a qualche pozzo e di non riuscire a risalire, a causa di uno stato di spossatezza che fa cadere addormentati. Que­sto era già successo a certi speleologi messica­ni, e da parte dei soccorritori, per il recupero, era stato necessario l’uso di bombole di ossige­no.
E finalmente su indicazione di don Martin, il nostro più grande amico di Capadero, scen­demmo nella Hoya de Puleco, la cavità più profonda da noi esplorata durante la spedizio­ne; la sua profondità sarà di 375 metri. La sua esplorazione fu condotta in due puntate: con la prima saremmo giunti a – 230 dove ci saremmo fermati avendo esaurito il materiale, con la se­conda venne raggiunto il fondo (una frana trop­po pericolosa da disostruire). Il tutto sempre in tre persone, in quanto, a parte il polacco infer­mo (sapremo poi che aveva la Histoplasmosi), altri componenti della spedizione si erano presi una brutta influenza con febbre a 39-40°C. Ora si doveva continuare l’esplorazione di Cueva Negra, un inghiottitoio bagnato, stretto, sporco; purtroppo non sempre, o quasi mai, le grotte sono come uno le vorrebbe. Questa grotta risulterà profonda 233 metri, non molto, però importante, perché sarà l’inghiottitoio più profondo di tutta la Sierra Gorda; infatti contra­riamente a quanto succede nelle nostre zone carsiche, le grotte attive in Mexico sono quelle che finiscono a profondità meno rilevanti.
Altre buone prospettive ci dava una grotta da noi denominata «Cueva de la pedra blanca», che però ci deluse alla profondità di —120 me­tri, quando la faglia sulla quale la cavità era impostata si fece troppo stretta per le nostre dimensioni. Nei rimanenti giorni di febbraio continua­rono le battute di zona senza darci particolari soddisfazioni. In tutta l’area da noi presa in esame furono rilevate 58 cavità.
Era giunto il momento di ritornare a Vera­cruz dove si sarebbe deciso se fare ancora una puntata sulla Serra di Zongolica. Così non fu, per altri ennesimi problemi. Gli ultimi giorni in zona Mirasoles furono particolarmente interes­santi dal punto di vista umano e folkloristico: con degli amici messicani partecipammo a due feste della quincenera (quando una ragazza compie i quindici anni), di cui una fu veramente notevole. Camminammo sei ore sotto il sole fino a giungere a Capolin, dove ci furono danze, canti, fino all’alba; il tutto condito da spari di pistole delle quali tutti i convenuti erano provvi­sti.
                                                                                                       Tullio Ferluga

MIRASOLES: 1) Cueva Dona Casimira, 2) Hoyo del Puleo, 3) Cueva Negra, 4) >Sotano Pedra Bianca, 5) Caverna Transpuerta, 6) Sotano sen oxigen III°, 7) Cueva «Terza Casa los Sòtanos, 8) Resumidero Viento de muerte

LE GROTTE

Don Martin (Foto L.Torelli)

DON MARTIN

L’Hoya de Puleo o Poleo, è la cavità più profonda esplorata sull’altipiano di Mirasoles; la sua scoperta è stata effettuata grazie alla collaborazione di Don Martin, il vecchio monta­naro che ci accompagnò, anche camminando per molte ore nei boschi, alla scoperta dei se­greti della Sierra.
Don Martin e la sua piccola nipotina (della quale non ricordo il dolcissimo nome), reste­ranno con noi assieme al ricordo dell’ospitalità e della gentilezza, delle grotte messicane, e di tutte quelle sere e notti mangiando attorno al fuoco le gustosissime tortillas, prodotte dalle vetuste mani rugose, o sorseggiando tequila, che il vecchio ci portava al campo dopo molte ore a cavallo, dalla sierra a S. Ciro e ritorno.

HOYA DE POLEO

Hoya de Puleo Galeria Piedra Viva (Foto L Torelli)

 DESCRIZIONE

Coordinate geografiche: 21° 35′ 54″ Nord – 99° 55′ 35″ Ovest. Quota ingresso: 1560 m s.l.m. Capadero, municipio di San Ciro de Acosta, San Luis Potosì. Topografia: L. Torelli, K. Ma­zik, T. Ferluga, 7-9/2/1985.
L’Hoya che fu la prima grotta ad essere esplorata, ci deluse subito poichè chiudeva sot­to il primo tiro di cinquanta, in un angusto cunicolo di assorbimento del flusso idrico. Per buona sorte, Marcin il nostro dottore polacco rivisitò per sbaglio la cavità e si mise a scavare una piccola apertura situata tra il soffitto di roccia e la terra in una mensola-nicchia alla base del primo pozzo, «l’ovvia via fossile», per cui raggirammo l’intasamento-ostacolo a —60. Da questo punto una serie di bei pozzi portano alla galleria-meandro «Piedra Viva», sulle cui pareti fioriscono le più aggrovigliate eccentri­che. La galleria scende rapidamente ed è inter­rotta solamente da piccoli salti, per sboccare alla fine in una vasta sala. Qui le cose cambiano, grandi ambienti e grandi crolli. Dopo il tiro di 62 si discende una sgradevole e gigantesca frana, che a quota —375 non è più praticabile, tranne per la forte corrente d’aria che continua fra i massi.

RELAZIONE TECNICA

Primo tiro, ancoraggio su albero, spit a 3 metri dal bordo e spit a 10 metri dal fondo, scendere a destra, dopo alcuni metri seguire un basso cunicolo, di circa 3 metri, il quale dà accesso ad un salto in meandro fino ad un ripiano terroso. Prendere l’apertura di destra e scendere il pozzo di 47, spit dopo 5 metri a sinistra, ancora un piccolo terrazzo, spit a sini­stra, pochi metri e piccola ma solida clessidra per proseguire al pavimento. Da qui si prose­gue per l’unica strada, il meandro, interrotto da due brevi saltini (attacco su stalagmiti). Alla fine del meandro piccolo salto, e poi tiro di 62 metri, attacco su masso incastrato, frazionamento su concrezione dopo alcuni metri a destra, e su spit a circa metà pozzo, si avanza, perdendosi tra i macigni ed il fango, arrampicando fino al p. 10, ancoraggio su nut. Una ulteriore breve fessura-galleria ed è il fondo.

CUEVA NEGRA

Coordinate geografiche: 21° 35′ 33″ Nord -99° 56′ 04″ Ovest. Quota ingresso 1450 m slm. Capadero, municipio di San Ciro da Acosta, San Luis Potosì. Topografia: K. Mazik, T. Fer­luga, C. Lazcano – 11-17/2/1985.
Il piccolo «resumidero» attivo è il frutto della dura ricerca da parte di L. Torelli e M. Bianchetti che, noncuranti della possibilità di perdersi nella nebbia e boschi sconosciuti (vedi Jalpan), s’intrattennero per ore in quelle doline, esplorando tutte le destinazioni di quei corsi d’acqua, fino a trovarsi all’estremo nord della conca della laguna Tortugas; scavalcarono così quell’ultimo esile spartiacque, la cui spalla na­scondeva l’acqua del «Buyero» e la Cueva Ne­gra. Negra perchè la grotta è tetra e nera, la roccia è nera e si confonde col buio, solo velatu­re di calcite bianchissima creano a tratti mosai­ci ed arabeschi sulle pareti dei pozzi (pozzo Black and White). L’ultima parte dell’inghiotti­toio è una condotta freatica sub-orizzontale che termina in uno stretto lago-sifone a quota —223 metri.

DONA CASIMIRA

Coordinate geografiche: 21′ 34′ 04″ Nord – 99° 54′ 04″ Ovest. Quota ingresso 1320 m slm. Capadero, municipio di San Ciro, San Luis Potosì. Topografia: S. Serra, L. Torelli, M. Bianchetti. 24/1/1985.
Scoperta durante la prima perlustrazione sull’altipiano di Mirasoles, si distingue, tra le grotte di questa area per essere l’unico inghiot­titoio attivo di un certo rilievo assieme alla Cue­va Negra. Si presenta con un largo portale che raccoglie le acque d’incontro di due ruscelli principali, percorrenti una valle la cui morfolo­gia è caratterizzata da una superficie di rocce vulcaniche; sembra infatti, che una bocca erut­tiva secondaria abbia perforato il plateau calca­reo di Mirasoles, oltre il limite dell’attuale conca basaltica di San Ciro. A diretto contatto dei silicati, contro il fianco calcareo del cerro la Virgen, si apre la galleria che porta al suo cuore. La cavità non presenta difficoltà tecniche di rilievo, il percorso è interrotto da brevi salti e pozzi poco profondi, fino ad una caratteristica colata di calcite, che incredibilmente occlude ogni possibilità di proseguire su tutta la sezione, da noi invano perlustrata, arrampicando su vi­scide pareti fino al soffitto ad una quarantina di metri dal fondo.
Questo «resumidero» raccoglie (nei perio­di piovosi) una grande quantità d’acqua e l’effet­to della colata-tappo, cresciuta sull’attuale fon­do a -140, si evidenzia lungo il tragitto nella metà inferiore dopo la caverna K.K.K.. con eccezionali effetti levigatori prodotti dalle piene senza più lo sfogo originario. Si notano stalag­miti e formazioni calcaree sezionate da nuovi interventi idrici del torrente sotterraneo, richia­mato a livelli più alti del condotto, assieme ai grossi ciottoli, che rimangono intrappolati o incastrati a venti e più metri dal letto.

Tronco incastrato verso il fondo di Dona Casimira. (Foto L. Torelli)
L’ingresso di Dona Casimira a Miravoles. (Foto L. Torelli)

CUEVA DEL ARROYO DE TENEJAPA

Coordinate geografiche: 16° 49′ 10″ Nord – 92° 30′ 32″ Ovest. Quota ingresso 2046 m slm. Municipio Tenejara – Chiapas.
Mancano su questa cavità i dati necessari a descriverla nella sua globalità, avendo perso i contatti con gli speleologi polacchi che l’hanno topografata. Essa comunque è in fase di esplo­razione.
                                                                                                                Louis Torelli

EL BURATOS SENZAS FONDOS (EL BARRO)

Foto S.Serra

Terribile scherzo della natura, 400 m nel vuoto, e si sa la corda unica… Chissà i frazionamenti, ma vedremo con i rack. Tutte queste domande mi frullavano per la testa, quando con il nostro scalcinato furgone arrancavamo per la valle che ci doveva portare a vedere questo blackhole, sul fianco boscoso di un montarozzo come tanti, da questa parti.
Visto! È di sicuro lui! Ci fermiamo a guar­darlo da 20 km di distanza. Non ci si rende conto, questa è la fregatura, è troppo grande, è enorme! Però siamo qui sull’attenti, a prendere il nostro senza remissioni. Scendiamo al pae­sotto, Santa Maria Cocos, ridente villaggio turi­stico tipo Valtur (1) dove troviamo guide entu­siaste (2), portatori onesti (3), e donne genero­se (4) che, con pezzuole di lino caldo, detergeranno il sudore dalle fronti abbronzate dei duri (5) avventurieri dopo la singolar tenzo­ne col buratos.
Dopo aver concordato il prezzo, assoldia­mo un pastore che con tutti i suoi somarelli (6) piccoli ma tanto belli, ci porterà sul monte con tutti gli spaghi per il bucane e viveri per noi. Circa tre ore dopo, per niente affaticati, grazie alle nostre provvidenziali cavalcature (7), arri­viamo sull’orlo del mostro. Qui vengo preso da un impellente stimolo corporale che mi stava già umettando la divisa da Indiana Jones.
Non faccio neanche in tempo a riordinar­mi, che vengo sbattuto sull’attenti dalle prime note del nostro glorioso Mameli, portato dalla fanfara dei carabinieri a cavallo, schierati a fian­co della lapide ITALIA ’84. Fulgido esempio di italiottismo bergamasco (8). Comunque tra frizzi, lazzi ed altre cose, le prime tenebre ci avvolgono assieme alla diabolica tessitura della meravigliosa amaca messicana, comprata da me per pochi miserabili pesos (9). La notte frizzante trascorre veloce per lasciare posto ai colori incredibili di un’alba tragica.

Foto di gruppo sul tondo del «Barro» da sinistra: Marcin Zajusz, Mario Bianchetti, Sergio Serra e Louis Torelli. (autoscatto)

Si incomincia! Contornati da un pubblico scomposto sugli spalti, ci dirigiamo verso il cen­tro, dove prima della discesa, riceviamo le ulti­me raccomandazioni dal nostro principale sponsor: il dottor Quincy, direttore dell’Istituto di medicina legale di Santa Monica (California. USA). Raccomandazioni queste, velate da una malcelata preoccupazione professionale, dovu­ta di sicuro al nostro difficile riconoscimento nel malaugurato caso di brusco impatto con il cono terminale. Detto fatto inizio la discesa eccitato dal boato del pubblico che, stranamente, mi è amico. Il primo frazionamento dopo neanche 10 m, fatto su piastrine dal nome di donna. Scendo ancora verso il naso di calcare che vedo 5 metri più sotto, sempre incitato dalle urla della folla, pendolo 2 metri a sinistra, altre due piastrine Helen e Mary e… L’urlo della plebaglia si trasforma in una colossale risata, vedo il fondo 400 m più in basso in mezzo ad un brulicare di omini indaffarati attorno a teli e reti. In mezzo ai lampeggianti rossi delle ambulanze sento la voce di Quincy contraffatta dal mega­fono incitarmi al salto (diavolo d’uomo!) mentre sta accorrendo prontamente sul posto anche la nuova UME con la stazione mobile di rianima­zione del dott. Zalukar.
Ma non serve a nulla, ignorando questi malsani consigli, incomincio la mia discesa e, strano, non ho nemmeno pau­ra, è troppo bello e imponente per averla! Sem­pre la sotto intravvedo la fine della corda e penso alla borraccia d’acqua portata per raf­freddare il «lingotto» da discesa (eh, si, non ho preso il rack). Al nodo mi blocco, verso l’acqua e sparisco in una nuvola di vapore a metà poz­zo. A questa vista il pubblico si eccita, mi bersa­glia con lattine, cuscini e razzi e poi mi incita al salto, in mezzo al clamore ed al vapore dell’allu­minio bollente, roteo vorticosamente (maledet­te corde nuove). Tutto mi passa in un caleido­scopio di immagini colorate, devo concentrar­mi a fare il nodo delle corde. E nel farlo, vedo sul fondo gli omini che spostano il telone e le reti. Cristo, adesso mi stanno accecando con i riflet­tori, maledetto Quincy! Sto pensando seria­mente di ritornare su, ma Sergio e gli altri pre­mono sul frazionamento bramosi anche loro di una fetta di gloria, così continuo, mentre uccelli neri sfrecciano intorno puntando verso il fondo dell’abisso.

La voragine vista con il teleobiettivo. (Foto S. Serra)
L’occhio del Barro (Foto S. Serra)

Mancano pochi metri, mi sto massacrando una gamba per frenare la corda, e per fare un dispetto a tutta questa lercia plebaglia che mi vuole morto. Arrivato, Quincy mi viene incon­tro sorridente (serpe!), mi tende la mano, io la stringo, e mezzo secondo dopo una terribile ginocchiata all’inguine mi stende a terra. Annuso il muschio e vedo una schiera di formiche passare altezzosamente davanti al mio naso che cola. Devo rialzarmi, giro lentamente la testa e vedo il bieco seguace di Mengele rifare tutta la scena con Sergio.
Terribile! Non posso fare niente. In un ultimo disperato scatto riesco a fuggire mischiandomi in mezzo alla gente, che, per fortuna mia, sta occupandosi del bru­co, tentandolo al lancio. Da un albero lo vedo scendere e dopo la ginocchiata tremenda (que­sta volta sui denti), lo vedo balzare alla dispera­ta e sparire in mezzo alla giungla sottostante. Non si saprà più niente di lui. Ancora adesso si parla della sua tragica fine, intorno ai fuochi serali. Tocca a Gigi, che nel frattempo filmava tutta la tragedia (professione: reporter). Que­sta volta è il turno di Zalukar, che alla vista della macchina fotografica scatta furibondo e, appe­na scende a terra il mio malcapitato compagno. gliela strappa sfasciandogliela sulla testa. An­che lui, per fortuna, riesce a darsi alla macchia dopo una sortita disperata. Tullio, il più furbo, visti i precedenti, risale cavandosela signoril­mente e lascia il posto a Marcin, medico polac­co della nefasta spedizione. Dopo un po’ arriva anche lui, mi preparo al peggio, ma, con sommo stupore, lo vedo abbracciare Quincy-Mengele (praticavano assieme un duro apprendistato nei campi), si danno la mano, bevono un Colgate e, sotto i nostri occhi stupiti (Gigi mi aveva raggiunto), risale indenne.
Passa il tempo e la folla comincia ad uscire delusa, lanciando petardi ed attaccando una falange a noi amica. In mezzo a tutto questo parapiglia dò uno sguardo di intesa a Gigi e corro verso la corda per mettermi in salvo. Mi vedono! Lanciano i cani che sbavano correndo­mi incontro. Tremando comincio a pompare corda, sono sempre più vicini, salgo tre metri. Arrivano! Pazzi di rabbia tentano di sbranarmi le gambe, ma ormai sono al sicuro. Nelle fauci di un alsaziano riconosco un lembo insanguina­to della camicia del povero Sergio. Piango. Ma­ledetto Quincy!
40 minuti dopo sono fuori, il mio incubo è finito, intravedo Gigi scattare agilmente, sot­trarsi anche lui alla furia dei cani e innalzarsi lentamente fotografando la scena con una se­conda macchina. Il tutto coscienziosamente, da bravo reporter. Intanto sul fondo ormai qua­si deserto, a parte qualche sparuto gruppetto di esagitati che urlano, entrano in azione squadre di spazzini che puliscono tutto in un’atmosfera di desolazione e squallore totale.
Arriva dopo un po’ Gigi. Insieme ci dirigia­mo lentamente verso gli altri. Marcin ci viene incontro radioso e dice: «Fantastico vero?». Noi ci guardiamo e senza un commento ci al­lontaniamo in mezzo agli alberi.
Dal nostro inviato speciale a Mexico City: Nello Stato di San Louis Potosì, una pattuglia dell’esercito in perlustrazione nella zona di Santa Maria Cocos, rinveniva ai margini della foresta il corpo esanime di un individuo dall’apparente età di 25 anni, con evidenti segni di denutrizione e maltrattamenti. Ricoverato prontamente nel nosocomio locale, la sua prognosi è riservatissi­ma.
Note: 1. Falso, 2. Falso, 3. Falso, 4. Falso, 5.Falso, 6.Falso, 7. Falso, 8. Vero, 9. Falso.
                                                                          Mario Bianchetti – Paponcio

GREETHINGS FROM JALPAN

CERRO ALTO – JALPAN: 1.Cueva de los Quirambitos, 2. Sòtano «Culpa del Gobierno», 3. Sòtano CA-29, 4. Sòtano sin nombre

Siamo, al solito, in ritardo.
In ritardo (già le 18 e 15) per lo special sui Creedence (Creewater Revival naturalmente) che una lontanissima radio texana trasmette ogni giorno al calar del sole; in ritardo per il solito gran consiglio serale dei nostri amici gio­vani lupetti sull’amaro destino dei loro sudati petrol-zloti.
Bene per i secondi, malissimo per «Who stop the rain?» che forse Abbiamo già ciccato. In ritardo persino per cogliere in flagrante il furbo Krentcik (Goes to Hollywood) a fare il suo solito tubo, ma poi che ne sa lui dei Cree­dence? e in fondo neanche noi.
Il buon Kristofer non sa più che pesci pi­gliare: ormai la spaccatura tra Est ed Ovest è una voragine incolmabile. È un colpo durissimo per la sua morale reaganiana che vorrebbe tutti realizzati e sorridenti, con le tasche piene di dollaroni. Figurarsi?
Dopo le carte e l’alcool ’96, non ci restano più che le stazioni FM, quelle yankee natural­mente. Niente Cuevas, niente muchachas.
Siamo troppo nervosi, troppo superficiali per comprendere anche lontanamente la logica fatale dei contadini di Guayabos, rovinati dal sole e dalla fatica; zappatori tenaci e silenziosi di campi di mais in discesa, strappati nei secoli ai sassi delle scarpate alle pendici dell’altopia­no. Troppo inquieti per abituarci alle facce dei ragazzi che ogni sera riempiono senza una pa­rola la porta e le finestre, per lunghe ore, della «Sala delle assemblee popolari» che il sindaco ci ha lasciato per qualche settimana.
Occhi fissi alla ricerca di qualcosa nelle nostre parole senza significato, nella nostra fer­raglia appesa a penzolare, in noi dieci allampa­nati che veniamo da un post6oltre il mare, alla ricerca di un vuoto nero sotto le pietre.

Ritrovato il sentiero Cerro Alto (Foto M.Bianchetti)

Solo gli ubriaconi e lo scemo del villaggio sembrano aver compreso l’eterea profondità scientifico-filosofica della nostra ricerca e conti­nuano a condurci per lunghe ore torride dietro a mitiche fessure dove l’acqua d’estate sparisce bevuta dalla terra, per qualche cicca polacca e un paio di surrogati.
Sull’altopiano del Cerro Alto, nel comune di Jalpan Stato di Queretaro,una zona fantastica di circa 80 Km2 intensamente carsificata con potenze di calcare fino a 1100 m con fenomeni superficiali notevolissimi, non crescono le «Ra­dici del Cielo», quelle grandi, profonde, di quel colore denso ed infinito che riempie da millenni tutte le verte mortali.
O, più semplicemente, in due settimane di interminabili gite, gambe e sacco in spalla, at­traverso i sentieri di rovi e cactus, non siamo stati capaci di trovare che 32 grotte: la più profonda il sotano «Culpa del Gobierno», —70.  Anzichè gli occhi, come succede nelle lunghe ore degli abissi, ci si sono gonfiati solo i piedi.
A nulla è servita nemmeno la Carana esor­cizzatrice di pericoli occulti con la quale liberar­ci gli ingressi dalle spine e, avventura pura, penetrare nei meandri della montagna con la spada in mano quasi per gioco, come Indiana Jones che insegue diamanti tropicali nelle mu­schiose caverne zeppe di trabocchetti.
L’abbiamo usata pure, ben più umilmente, per zappare a testa in giù il fondo della Cueva «de los Quirambitos» per due ore, non alla ricerca di favolosi tesori aztechi, ma almeno di un passaggio segreto che ci sveli l’arcano di questo altipiano tappato di terra. Alla fine, sfio­rando la domenica carsolina, abbiamo desistito e siamo ritornati, nonostante i vampiri e le ta­rantole ancora a secco di adrenalina.
Già, i vampiri e le tarantole anche; i pastori ci avevano avvertito, ma naturalmente da bravi esploratori incoscienti e presuntuosi non ci a­vevamo creduto. Ignoranti per il freddo asetti­co degli abissi sui monti pallidi, ci siamo calati in questi pozzi muschiosi, strisciando in gallerie sconosciute senza nemmeno un casco, con la wonder in bocca, in maniche corte. Mostri pic­coli e minuscoli, succhiatori di sangue e ragni pelosi ci hanno fatto presto cambiare idea e rivedere in fretta tutto l’abbigliamento e le mos­se da azzardare. Qui le caverne sono un habitat ideale per animali di ogni tipo: fresco (10-20°C) , umido, temperatura costante per contro al cal­do secco dell’altopiano riarso.
Ci mancava anche il serpentone ed il film è completo; l’abbiamo incontrato (quasi calpe­stato è più giusto) vicino alla vetta del Cerro Alto, lungo una scalinata di banchi di calcare che si innalza sull’altopiano come la polenta sul brodetto, inesorabilmente coperta di spine. Stanchi, stracciati, la catena penzolante nella mano, la «Vipera» (circa m 2,5 x 15 cm ) ci stava aspettando attorcigliata in una stupenda vasca di pietra: occhietti di ghiaccio, lingua dop­pia ad assaggiare nervosamente l’aria torrida del pomeriggio, un monticello di forti braccia ocra pronte a seminare morsi fra i maleducati e gli sprovveduti. E noi? pazzi scatenati, invece di fuggire nel breve spazio di un batter di ciglia, abbiamo svestito i sacchi, cercato gli obiettivi adatti, fotografato a meno di un metro.
Per il resto poche e magre grotte, sempre le stesse poi, scoperte con la grinta e l’entusias­mo dei primi giorni, fritte e rifritte.
È ora di cambiare zona, Louis e Mario sono già a San Ciro de Acosta a 80 km -I- a Nord per tastare un altro altopiano promettente. Sa­rebbe ora di cambiare anche compagni di spe­dizione e canali FM.
Ma prima di andare, Tullio ed io decidiamo di inabissarci nell’impressionante Carion del Rio Montezuma, che delimita a Sud l’altopiano del Cerro Alto. Ufficialmente per individuare qualche risorgiva che sciolga i misteri, dentro di noi per passare due giorni «outside» ed ascolta­re i racconti delle rocce e dell’acqua che scava un abisso a cielo aperto. Nessuno sa se laggiù sia mai passato alcuno e questo non può che aumentare i punti delle bisvalide.
Il cammino verso il fiume scende la bosco­sa Barranca de Cillares; lungo il sentiero un uomo con una piuma colorata sul cappello, vestito e scarpe da passeggio, ci racconta di sua madre che non vede da tre anni: si è laureato a Mexico e ora va a trovarla. Abita in un Pueblito a monte del Rio Santa Maria! Una volta sul fiume, lasciamo il nostro «Venditore di alma­nacchi» verso l’alto, noi giù verso la confluenza, inghiottiti dopo appena un’ansa nella profondis­sima gola rocciosa.
Per tutto il giorno discendiamo 18 km di fiume fra scarpate e pareti nella sabbia e fra i roccioni bianchi, cavandocela con qualche gua­do scarpe in mano e braghe alla zuava fino alla confluenza. Ma anche qui, solo qualche piccola cavernetta con qualche reperto, ma chi verrà mai a studiarlo?
In quello spazio fuori della realtà, seppelliti da scarpate di cactus e strapiombi rossi, ci siamo tuffati nell’acqua verde di due fiumi, ac­ceso il fuoco sulle rive, distesi sotto due zanza­riere lucide (niente caffè in bricchi giganti, nien­te selle sulle quali poggiare sogni fantasmagori­ci).
Ma proprio su quella zolla, fra l’acqua ar­rabbiata e le alte pareti, passava il sentiero obbligato degli abitatori di quell’universo verti­cale e selvaggio. Fra colpi secchi di giunchi spezzati, sordi ruggiti e brontolii di disapprova­zione (non) abbiamo dormito con la catena ben stretta in pugno, fino a farci venire i crampi il mattino seguente.
I giaguari ? Noh… quelli vivono più a Sud, qui ci sono i puma, me l’hanno raccontato i pastori. Ah, allora…
Echi prepotenti a rincorrersi sulle rocce delle creste e dei pilastri, gli ululati dei cojotes rotolano dagli abissi del caàon del Rio Montezuma, nelle profondità sconfinate delle notti con un ermetico coperchio di stelle.
                                                                                                    Sergio Serra

CUEVA DE LOS QUIRAMBITOS

Coordinate geografiche: 21° 08′ 04″ Nord – 990 25′ 55″ Ovest. Quota ingresso 1360 m slm. Municipio Jalpan, Queretaro. Topografia: L. Torelli, S. Serra. 18/1/1985.
Ci vollero ben due giorni di «machete» per trovare l’ingresso di questa cavità, nella fitta vegetazione della conca de Los Quirambitos.
Una serie di inghiottitoi-dolina anticipano la vera grotta che si apre con un modesto porta­le squadrato. La galleria si allarga, ma poco dopo non lascia più dubbi sulla sua natura, e le probabilità prosecutive nella stessa e sul Cerro Alto. Considerevoli intasamenti di terra e mate­riali organici sembrano infatti essere la preroga­tiva principale per la frustrazione di ogni iniziati­va esplorativa.
                                                                                                            Louis Torelli

LAS GRUTAS DE CACAHUAMILPA SAN GERONIMO

La galleria del Rio Chontalcoatlan (Foto L.Torelli)

Il piccolo «golf» rosso, prodotto nostrano di Puebla, scattava veloce sulle curve che salgo­no a Taxco, mentre già gustavo mentalmente «l’enchiladas», piatto forte della locandiera ami­ca di Mauricio… Un po’ di nebbia m’avvolse improvvisamente, la stanchezza di una notte passata in grotta… Andavamo errando, persi sulle lande di Cacahuamilpa, ed il Rio San Ge­ronimo sembrava prosciugato dagli aridi bar-ranci. Accortomi del malinteso camminammo in una delle più torride ed afose notti sugli alti­piani io, Mauricio e la «banda di scapestrati», ripercorremmo quella piatta valle deserta co­sparsa di cactus e cespugli di rovi, scivolammo nuovamente sul letto del torrente, rivedemmo i cavalli mezzi addormentati, e ad intuito dopo cinque ore di marcia scavalcai il giusto spartiac­que per seguire il primo filo di umidità che conduce al fiume ipogeo.
La mezzanotte era passata da un pezzo quando il boato dell’acqua spumosa sui macigni si rivelava in lontananza e un susseguirsi di massi veramente formidabili ci ostacolarono l’ultima ripida discesa. Le due del mattino, man­giato un boccone osservai per un pò le «rapi­de» fluttuanti verso l’oscurità totale, un canyon largo trenta metri inghiotte il fiume intero: lo spettacolo è strepitoso.
Tolti i pantaloni rimanemmo in slip, ma­glietta e pedule, riposi un po’ di cibo, la macchi­na fotografica ed i rimanenti materiali nella sac­ca a tenuta stagna. Gli «Scapestrati» mi presta­rono una camera d’aria di motocicletta bucata; e fummo pronti. Mauricio mi seguì mentre le rapide ci sputarono nel primo lago dopo il can­yon iniziale. Quasi non ci accorgemmo di esse­re entrati in grotta. Il primo tratto di galleria misura in media cinquanta metri di larghezza per un centinaio di altezza, e queste dimensioni si mantengono per buona parte del tracciato, tranne nei due terzi scendendo, dove la volta si abbassa ad una decina di metri dalla sabbia del fondo, punto nel quale la circolazione d’aria è talmente violenta da creare un vento al quale nessuna fiamma di lampada a carburo è in gra­do di resistere. Nei sette chilometri necessari a coprire l’attraversata, il fiume si snoda elegan­temente fra immani contrafforti rocciosi, im­mettendosi in numerosi canyons sotterranei, fino a placide distese di ghiaie, dove il letto diventa meandriforme, come se avesse rag­giunto la pianura, nella notte stellata di mosceri­ni illuminati, sulla buia e lontanissima parete di volta, che raramente fummo capaci di illumina­re!
La ragazza sbirciava dalle padelle dietro il banco, insegne di bibite gassate: rosso, sul verde pallido del muro. Mettemmo le mani al frigo per estrarre la più disgustosa acqua tonica della storia, le «enchiladas» sembrarono prodotte dal puro amore della «morena», e abbonderò troppo col peperoncino, prima di notare quei brutti sandaletti di plastica metallizzata.

SISTEMA DI CACAHUAMILPA – ACLIITIAPAN: 1.Gruta Cacahuamilpa (Turistica), 2.Dos Bocas, Risorgiva Rio S. Jeronimo e Rio Chontalcoatlan, 3.Inghiottitoio Rio S. Jeronimo (Huiztealco), 4.Inghiottitolo Rio Chontalcoatlan, 5.«Resuello» (2° ingresso) sul Rio Chontalcoatlan, 6.Gruta Carlo» Pacheco, 7.Cueva Agua Brava, 8.Cueva de Pedro Asensio, 9.Gruta Acuitlapan, 10.Gruta de la mariposa, 11.Curva Chica, 12.Gruta de Pilares, 13. Curva de la culebra. – tratto da: Espeleologia de la Region de Cacahuamilpa (Guerrero) di F. Bonet. LLN,A.M. Istituto de Geologia Boletin n. 90.

La locandiera ci propone la stanza e, rigira­tomi alcune volte nel letto prima di addormen­tarmi, penso: domani ci attende la «Cueva di San Miguel».
In transito a Mexico D.F. uno «speleologo» deve trovare alcuni giorni di tempo per visitare «las cueves de Cacahuamilpa», a tre ore e mez­zo di autobus dalla capitale, in direzione Stato di Guerrero, destino «Las Grutas». Questi ma­gnifici percorsi sotterranei sono stati topografa­ti dagli speleologi canadesi (The Canadian Ca­ver, Vol. I, 1976). Due sono le gallerie principali al livello attivo, che si ricollegano all’esatto pun­to esterno, dove rivedono la luce il Rio San Geronimo e Rio Chontalcoaltan. Questi fiumi si inabissano per ricomparire svariati chilometri più a valle, alle «Dos Bocas», presso le quali un centinaio di metri più a monte, è visitabile turi­sticamente un tratto di galleria fossile veramen­te magnifica, sia per «dimensioni» e rare bellez­ze delle stalagmiti ciclopiche, che caratterizza­no l’ultimo salone illuminato.
Per visitare le grotte del Rio San Geronimo o del Rio Chotalcoaltan sono consigliabili come attrezzatura una muta (corpetto leggero), un capiente contenitore ermetico ed un salvagen­te. Non sono necessarie corde (perlomeno sul Rio San Geronimo), tutto il percorso sotterra­neo è fattibile arrampicando e… nuotando.
                                                                                     Louis Torelli

GLI OCCHI DI SAN MIGUEL

Gli occhi di San Miguel (Foto L. Torelli)

Mentre la tarda mattinata diventava torbi­da di polvere impalpabile, nella casupola di fan­go e paglia si godeva una parvenza di tiepida ombra, languida quanto i modi strascicati del vecchio, che apriva una scatoletta di «chili» per condire il frugale pasto di tortillas e frijoles. Mi distraevano i bambini, di cui molte ragazzette, ruzzolanti nell’aia tra gli escrementi del pollame e dei vari animali da cortile. Erano incredibil­mente bionde, con gli occhi azzurri e freddi, gli stessi del vecchio, che ostentava il nome di origine alemanna. Oltre che ad informarci della grotta, di cui andavamo a cercare notizie, tra una tortilla ed un bicchiere,di «pulque», a gesti, l’anziano si sbracciava nel raccontare le sue avventure, dalla «madre» Sierra, alla grande Ciudad de Mexico, fino alla sponda del Rio Bravo guadato da clandestino molti anni prima, alla ricerca di fortuna negli U.S.A. Il messicano, che aveva qualche potere tra gli individui di quell’appartato nucleo di cuori umani, ordinò ad uno di questi di accompagnarci.
Era domenica, e vestito della migliore ca­micia e calzoni stirati, si fece avanti barcollando un po’ ubriaco nella smilza figura, un erede dei colonizzatori.
Quelle montagne sono tuttora semi aride, e le popolazioni indie soppiantate dall’arrivo degli spagnoli abbandonarono quella cavità, che sicuramente non fungeva da semplice luo­go di culto. Tutte le grotte in Mexico sono colme di tesori, e a detta dei «eampesinos» tutti gli stranieri sono avidi di quei tesori; si può essere avidi di un’ombra, di quell’ultima fugge­vole immagine monocroma che era un simbolo «religioso»? Le aperture indicanti occhi e boc­ca, ora vuote, non erano colme d’oro incasto­nato di pietre dure, già depredato all’arrivo dei «conquistadores»? La stalagmite rovesciata, in­fissa nel mezzo del piano argilloso, circondato a sua volta da un podio abilmente sistemato, nel­lo sfruttare la roccia originariamente imposta. La ceramica probabilmente più antica e di po­vera fabbricazione stratificata dal dilava mento, nei livelli di argilla, assieme ai resti organici…

L’ingresso della vasta caverna di San Miguel. (Foto L. Torelli)

Raggiunsi l’entrata della grotta dietro uno stuolo di bambini incuriositi e meravigliati dal CLIC-BUM della lampada ad acetilene. Imme­diatamente notai vicino ad alcune felci alberga­te sotto antiche stalagmiti, un meno antico sen­tiero che in parte crollato, facilitava l’accesso al fondo piano della grande sala: la «plaza» di «battuto», nel cui centro, rivolta allo sguardo vuoto sta la pietra-simbolo. Incredibile l’analo­gia con la Cueva Tranpuerta, stessi segni di usura, su quella che poteva essere una pietra di rito.
Sognai di quegli antichi popoli frequentatori della cavità, mentre mi chinavo ad osservare i frammenti dei vasi di terracotta sparpagliati un po’ dovunque sul pavimento. Ed ora pensando alle possibilità del destino, mi si ripropone la scena teatrale per «turisti», la stupida ricostru­zione del rito sacrificale alle divinità dei «seno­tes». Le grasse attrici sicuramente se ne infi­schiavano dell’antica storia e vere origini del loro popolo (Maya), figlie, come sono, dell’opu­lenta città bianca, spagnola-americana: Merida, tra le cui case cammina la nonna di Edgar­David, nel vestito antico che fu di sua madre, s’arrampica, a novant’anni, tutte le notti sull’a­maca, piccola bambina grinzosa sospesa nella rete.
Osservai la fioca luce di Mauricio all’altro lato della sala e mi resi conto delle dimensioni, mentre il sole pomeridiano s’infiltrava attraver­so la lunga apertura dell’entrata. E ad un tratto, più che i segni dell’operosità umana attraverso i secoli, determinata dal destino, si evidenziò il motivo (nella luce filtrante i vapori sotterranei) per cui la scelta della popolazione indigena cad­de proprio su quella caverna, e in quel momen­to, quando gli occhi si illuminarono, capii che tutti, nella valle, da sempre lo sapevano.
                                                                                                        Louis Torelli

IL RITORNO IN BARCA A VELA

Se per il viaggio d’andata i problemi erano scoppiati in navigazione, per il ritorno iniziaro­no già a Veracruz dove, giunto assieme a Louis il 10 marzo, appresi che non era possibile im­barcarsi. Più esattamente il capitano mi disse che l’addetto militare polacco all’Avana aveva proibito a noi italiani di arrivare in barca a Cu­ba; il motivo era ignoto.
La storia ogni giorno cambiava aspetto, così senza più fare affidamento sui polacchi, Mario ed io ci muovemmo per venire a capo della faccenda: visitammo l’ambasciata cubana a Mexico City, quella italiana, interrogammo quella polacca, via telex a Cuba; nessuno capi­va cosa stava succedendo.
La fine della questione giunse il 26 marzo quando la moglie del console onorario d’Italia a Veracruz ci informò di avere ottenuto notizie dall’ambasciata italiana. Le novità erano incre­dibili: nessuno a Cuba ci proibiva di arrivare in barca a vela, nessun problema di visti, niente di niente. Chi aveva fatto il doppio gioco per quasi tre settimane era stato il capitano, il quale mes­so alle strette ci imbarcò.
Alle 12 del 28 marzo lo Jan z Kolna salpò da Veracruz con undici persone a bordo diretto a l’Avana; il vento non ci fu favorevole e furono necessari undici giorni per percorrere le 900 miglia di mare. Il viaggio di ritorno a vela non fu molto problematico, mi aspettavo di più dal punto di vista emozioni: ci si diverte solamente quando fa brutto (se si sta bene!), altrimenti direi che il tutto è alquanto monotono.
A Cuba ci fermammo per dieci giorni: una sosta così lunga fu necessaria per poter mette­re a posto la barca, recuperare i viveri per il resto del viaggio, e così via. L’Avana, dopo un paio di giorni per ambientarci, la trovammo veramente accogliente; mitici i suoi bar rimasti come al tempo di Hemingway, cordiale la gente quando scopre che sei italiano. Incredibili le amicizie strette nei bar del porto, dove la birra scorre a fiumi: quando dici ai marinai che sei arrivato lì con quel rottame a vela le congratula­zioni non finiscono mai, e così la birra. Da notarsi che per poter bere cerveza è necessario essere provvisti di un recipiente: noi usavamo una pentola da dieci litri!
Rotta Bahamas; eravamo rimasti in nove perché due polacchi avevano preso l’aereo; la rotta ideale è lunga 290 miglia ma noi a causa del vento ne percorremmo 480; in quattro gior­ni arrivammo a Freeport.
Lì tutto è impostato per spremere l’ignaro turista: tanto per fare un esempio, una birra in un qualunque supermercato costa 5.000 lire. Ci fermammo due giorni in banchina e altri due all’ancora, passando il tempo a fare bagni e a pescare (gli ultimi bagni, visto che la nostra prossima rotta era per Halifax, in Canada, dove sicuramente il clima non sarebbe stato incante­vole come alle Bahamas).
Le due settimane di navigazione che segui­rono furono più dure del resto del viaggio; al largo di New York avemmo il nostro daffare per mandare avanti la barca in mezzo ad una tempesta con onde di otto metri e vento a 120 km/h. In una giornata piovigginosa entrammo a Halifax dove, visto l’andazzo del viaggio e pro­blemi personali, Mario ed io decidemmo di mol­lare la barca e i suoi componenti e, in volo via Londra, rientrammo in Italia.
Che dire di questa esperienza velica? Per­sonalmente la cosa mi è sembrata troppo poco remunerativa, dal punto di vista «emozioni», mi aspettavo molto di più; è stata colpa dei vari articoli di vela che ultimamente, dopo Azzurra, inflazionano i giornali? Sicuramente la mia in­soddisfazione è dovuta anche alla gente (i po­lacchi dell’equipaggio), troppo diversa da noi come mentalità; troppe falsità hanno rovinato il viaggio. Tanto per dirne una, e con questo concludo, uno dei «migliori» à bordo era Sta­sciu, il vecchio poliziotto stalinista in pensione.
                                                       Tullio Ferluga